di Alessandra Sarchi

 

[E’uscito ieri per Bompiani Il ritorno è lontano, il nuovo romanzo di Alessandra Sarchi. Per gentile concessione dell’editore, ne anticipiamo il primo capitolo].

 

Di pomeriggio il bosco
Fa l’incanto del sonno.
Il riposo è profondo
Il ritorno è lontano.

Franco Fortini, da Canzone per una bambina

 

La stanza rimbombava, ora che era vuota. Come una conchiglia, come un osso cavo. Difficile dire se a risuonare fosse il residuo di ciò che l’aveva riempita o la sua assenza. Sara la teneva chiusa da settimane. Un giorno una collega di lavoro l’aveva chiamata, la linea del cellulare continuava a cadere e così Sara era entrata: quello era il punto della casa con la ricezione migliore, come se lì l’energia fluisse libera. Aveva acceso l’abat-jour sul comodino per avere un po’ di luce.

I muri erano spogli a parte un poster degli Arctic Monkeys appeso a un foglio di sughero e una grande riproduzione di Blue Marble, la foto della Terra scattata il 7 dicembre 1972 dall’ultima missione Apollo. Era stato un regalo di nonna Vittoria quando Nina aveva compiuto cinque anni, lo aveva portato già incorniciato e pronto per essere appeso. Sara ricordava di aver ricevuto alla stessa età un mappamondo di plastica; doveva ammettere che Blue Marble era infinitamente più bella e misteriosa.

Avevano passato molto tempo, Sara e Nina, sdraiate, a fantasticare su quell’immagine – una biglia colorata di azzurro e verde con grandi creste di bianco – inventandosi storie che proseguivano da una sera all’altra. Quando Sara l’accompagnava a letto il blu e il verde del pianeta rimanevano illuminati dalle lucine di un filo che correva sulla cornice.

 

A volte le striature candide erano tempeste di neve, a volte uragani, altre venti impetuosi dai quali bisognava ripararsi, certe sere si trasformavano in draghi alati o stormi di angeli. Nina per molto tempo aveva ascoltato assorta, abbandonandosi alla fantasia che correva insieme quelle forme cangianti per effetto delle lucine e pronte a infilarsi nei sogni, notte dopo notte.

Poi aveva cominciato a fare domande. Mamma, noi siamo proprio lì? Oppure: Ma come fa l’acqua degli oceani a non uscire fuori?

Perché la Terra gira su stessa veloce veloce, le aveva risposto Sara stringendola a sé sotto le lenzuola.

E intorno cosa c’è? le aveva chiesto, una sera, Nina con gli occhi dilatati nella semioscurità.

Intorno è buio, ma solo per poco. Basta spostarsi un po’ e vedi il sole, altre stelle e altri pianeti.

Nina era sembrata contenta della risposta, ma la mattina dopo a colazione aveva domandato a suo padre se il sole non si spegneva mai.

Paolo le aveva risposto che il sole aveva ancora parecchia energia da bruciare, come un camino pieno di legna, e quindi per un tempo molto lungo avrebbe continuato a splendere. Poi aveva preso un paio di mele e di arance per farle vedere come la Terra ruotava intorno al Sole, la Luna intorno alla Terra e via di seguito fino al lontano Plutone.

Verso la fine della terza elementare Nina aveva smesso di chiedere a sua madre che l’accompagnasse a letto e le raccontasse una storia.

Ora la cornice di lucine era sparita intorno a Blue Marble. Troppo spreco, aveva sentenziato Nina.

Sara si guardò intorno. Solo tre piani dello scaffale di legno erano occupati da libri, il resto, dove c’erano state borse, zainetti, pantofole e sciarpe, era liscio, sgombro come il giorno in cui lo avevano montato.

 

La linea aveva tenuto ma, subito dopo aver spento il telefono, Sara era stata risucchiata dal vuoto; l’eco delle sue ultime parole riverberava nel petto. Quanta sabbia c’era nel cemento di quelle pareti per rimbombare a quel modo? Non aveva ancora sistemato il letto, anche il coprimaterasso era stato tolto. Sul comodino era rimasta una confezione aperta di fazzoletti di carta. Sara ne aveva preso uno, si era seduta a terra e ci aveva soffiato dentro quel poco che aveva: muco trasparente e lacrime che glielo avevano sbrindellato tra le dita.

Ritinteggiare le pareva una necessità: sotto la scrivania il muro era macchiato di pedate, sopra il letto aveva un colore indefinito che i segni più scuri, lasciati dalle cornici di fotografie tolte, rendevano sinistro.

Doveva decidersi anche a svuotare l’armadio, pulirlo a fondo, mettere sacchetti di lavanda e gettare maglioni sfondati che nessuno avrebbe più indossato; smontare le tende e portarle in lavanderia: routine, eppure, solo a pensarci, un’impresa titanica.

Nina se n’era andata. Sarebbe tornata a Natale, forse a Pasqua e in occasione di qualche altra festa comandata, ma non viveva più lì, non ci avrebbe mai più vissuto; anche se di tanto in tanto avrebbe potuto passarci dei periodi la sua vita era proiettata altrove, com’era giusto che fosse alla sua età. Ovunque fosse andata e qualunque cosa avesse deciso di fare, era finita la sua esistenza fra quelle mura. I suoi passi, i suoi respiri, le sue parole, il suo sonno, la sua fame, le sue lacrime, le sue risate e i suoi silenzi non facevano più parte della casa. Adesso erano solo suoi, di Nina. Sara avrebbe dovuto esserne felice o almeno soddisfatta, e a tratti lo era, ma a volte si sentiva come se le avessero tolto un polmone.

 

Spalancò la finestra in cerca di aria. Il sambuco dall’altra parte della strada stava rilasciando le foglie, in ritardo, perché era stato caldo fino a ottobre inoltrato; sull’asfalto intorno al fusto si stendeva un tappeto giallo, alcune caddero mentre richiudeva i vetri. Si domandò se l’albero provasse dolore a perdere la chioma, le propaggini che aveva innalzato al cielo, che lo avevano nutrito, e ora giacevano a terra lasciandolo nudo coi soli rami, ma quella perdita sarebbe stata presto compensata: a primavera nuove gemme sarebbero sprigionate dai rami e sarebbero cresciute, giorno dopo giorno, aprendosi all’aria e alla luce, il verde avrebbe fatto ritorno. In quella stanza, invece, non ci sarebbe stata più nessuna bambina, nessun bambino. Aprì il cassetto della scrivania, Nina aveva portato via i raccoglitori in cui faceva essiccare le foglie, ma era rimasto sul fondo un blocco di appunti, sulla prima pagina lesse: “Jonathan Palmer, studioso della University of New South Wales ha esaminato gli anelli dell’albero più solo al mondo, un Peccio di Sitka piantato all’inizio del secolo scorso nell’isola di Campbell a sud della Nuova Zelanda. Questa pianta è l’unica a essere cresciuta sull’isola e la sua vicina più prossima si trova a 274 chilometri. In corrispondenza dell’anno 1965 l’anello registra una concentrazione molto alta di radio-carbonio. 1965. Siamo al culmine degli esperimenti atomici nel Pacifico, per alcuni è l’inizio dell’Antropocene. Questo peccio così lontano da tutto ha assorbito una dose inaudita di radionuclidi che normalmente non avrebbero dovuto essere presenti nell’atmosfera terrestre.”

 

La grafia era ferma e nitida, Nina doveva essersi presa tutto il tempo per trascrivere quella frase di cui non aveva indicato l’autore, forse veniva da un manuale, forse uno dei tanti libri sugli alberi che aveva ricevuto in regalo. Sara sfogliò il quaderno senza trovare altro, poi dalle pagine scivolò un pezzo di carta rosa su cui c’era scritto: “Immersione. Stare con gli alberi. La parte viva di un albero è molto sottile, fra corteccia e durame. È lì che respira. Il resto è struttura di protezione.” Qui ebbe l’impressione che fosse Nina a parlare, si portò più vicino quel pezzo di carta, lo annusò per sentire se fosse rimasto qualche odore, ma niente; nemmeno nell’armadio trovò un indumento che avesse trattenuto il profumo dei capelli o della pelle di Nina. Da un ripiano cadde sul pavimento qualcosa, Sara lo raccolse, era un fazzoletto di stoffa sporco, finito lì per sbaglio. Il moccio indurito lo aveva fatto accartocciare. Nina doveva averlo dimenticato o nascosto: il pianto di delusione per un ragazzo o per il tradimento di un’amica, per un animale o un albero morto, magari un semplice raffreddore. Sara lo strinse fra le mani, cercò di spianarlo, il cotone chiaro era solcato da righe giallognole, lo avvicinò al naso per odorarlo ma non sapeva di nulla, infine si risolse a portarlo al suo unico destino possibile, il cesto della biancheria da lavare, dove lo lasciò cadere in mezzo ad altri panni, con una specie di rabbia e di malinconia che non sapeva nemmeno come potessero convivere, nello stesso momento, dentro di lei.

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