di Laura Pugno


Tavola dei nomi e delle materie è un nuovo ciclo di interviste a scrittori e scrittrici, su un loro libro.

A ognuno di loro assegnerò una materia reale o immaginaria – sappiamo che è la stessa cosa –, visibile o invisibile, astratta o concreta, che il loro libro mi evoca, e chiederò di commentare questa scelta.
A ogni scrittore o scrittrice, poi, chiederò di scegliere un nome, alias di parlare di qualcuno, qualcosa, reale o immaginario – anche qui –: luogo o persona, soggetto umano animale vegetale minerale o all’incrocio di tutti questi mondi, del presente o del passato, o addirittura del futuro, che fa parte della materia del libro o che è stato determinante nell’innescare o nel far compiere il processo creativo che ha portato al libro stesso.


Laura Pugno

 

Ecco la tua materia

 

Sara Marzullo, in Sad Girl. La ragazza come teoria (66th and 2nd), la tua materia è la Jeune-Fille come industria della prima persona. Che cosa differenzia, oggi, dalla Sad Girl la tua prima persona in questo libro?

 

Decidere la forma in cui si scrive un libro è a volte fondamentale quando sceglierne il soggetto. Nel caso del mio libro, perché si occupa di narrazione del sé, era un passo particolarmente cruciale: potevo scegliere di usare uno sguardo esterno sulla materia o implicarmi nella vicenda che stavo raccontando. Quello che mi premeva era evitare di assumere una sorta di oggettività rispetto a quelle che sono forme di narrazione del femminile, mettermi al di sopra delle parti e dire cosa trovavo utile e ciò che era dannoso. Mi interessava invece creare uno spazio di ambiguità nella scrittura: scegliere di usare la prima persona, mentre mettevo in discussione l’industria della prima persona, non solo mi dava la possibilità di mostrare le trappole, le lusinghe e le strategie della prima persona – la facilità con cui si scivola sulla superficie glassata del memoir – , ma mi obbligava anche a confrontarmi con una forma di scrittura che è indubbiamente cruciale nelle formazione letterarie contemporanee. Non solo ho iniziato a scrivere mentre i memoir e l’autofiction prendevano sempre più spazio nel mondo letterario, ma soprattutto in un tempo in cui la gestione dell’immagine persona è qualcosa di cui ci occupiamo tutti continuamente, sia che siamo scrittori o liberi professionisti, sia postiamo le vacanze online sia che evitiamo di prendere posizione su qualcosa perché non sappiamo se un giorno potrebbe danneggiarci. Il memoir, storicamente, ha dato accesso alla sfera pubblica a soggettività che prima ne erano escluse: l’io che pronunciavano era caricato politicamente oltre che frutto di un desiderio di rappresentazione. Adesso che il mondo delle narrazioni è pieno di “io” che prima non erano rappresentati, mi interessava indagare quale fosse l’eredità dello slogan femminista per cui “il personale è politico”; quanto concetti come “inclusività” e “diversità” abbiano preso il posto della politica, la “rappresentazione” quello delle azioni collettive e della comprensione strutturale dei sistemi in cui viviamo. Per me era più interessante mostrare l’allure della prima persona, la promessa che dire la nostra storia cambierà il mondo – quando poi il mondo non cambia – da dentro la casa di specchi che quella forma narrativa crea, senza sottrarmi né arrendermi; mostrare quanto fascinosa e deliziosa sia la promessa di eterno amore insita nell’attenzione altrui e quanto invece possiamo invece ripoliticizzare la nostra voce, fondendola alle altre.

 

Scegli il nome

 

Chi, o cosa, è stato determinante, per te, in modo particolare per quanto riguarda l’uscire dall’identità femminile giovane, così come viene proposta come specchio deformante, per volontà critica e non per la sola azione del tempo, così da poterla osservare come oggetto/soggetto?

 

Vengo dalla critica letteraria e devo dire che lo studio della scrittura altrui per me è centrale: vedere come si strutturino le narrazioni altrui, quali archi letterari, quali stereotipi, quali tropi e sovversioni animino il racconto degli altri è stato utile per capire come funzionino certe forme di costruzione e narrazione del sé; aiuta a storicizzare, per così dire, le voci, a posizionarle nel tempo. Se guardo a scrittrici a me prossime, Sheila Heti, Rachel Cusk e Sarah Manguso hanno tutte abbandonato una narrazione centrata sul sé per aprire lo sguardo al resto del mondo, in modo sempre personale, non dovendo per forza “trascendere il genere” come lamenta Chris Kraus in I Love Dick. L’intelligenza con cui Jessa Crispin ha parlato di industria della prima persona, con cui Lauren Berlant ha scritto di “cultura femminile” e Angela McRobbie di “individualizzazione femminile” rappresentano le basi teoriche senza le quali avrei avuto più difficoltà, se mai ci fossi riuscita, a individuare nodi e trappole, lusinghe e fascinazioni che costellano i nostri cammini. In Comunione bell hooks scrive che è la ricerca dell’amore che l’ha portata al femminismo e il femminismo che l’ha liberata dal peso del passato: a me il femminismo, soprattutto quello più collettivo e dei movimenti, mi ha portato anche a una visione più ampia e sistematica delle strutture in cui viviamo, a cercare modi più generosi e politici di dire il mondo.

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