di Emanuela Bandini
Consigli di classe. Scuola, democrazia e società,
rubrica a cura di Mimmo Cangiano
La lezione frontale.
Le metodologie didattiche poco attive e inclusive.
Il “classismo” dei licei.
Il primo biennio superiore comune.
Le “passerelle” morattiane mai attivate.
Il voto numerico.
Il canone delle humanae litterae bianco e maschiocentrico.
Conoscenze vs competenze.
La didattica orientativa.
Il latino e il greco.
L’innalzamento dell’obbligo a diciotto anni.
Questi sono, in ordine sparso, alcuni degli argomenti che spesso vengono menzionati nel dibattito sulla “scuola democratica”: pur essendo molto diversi tra loro, mi pare che abbiano due elementi in comune, strettamente connessi fra loro.
Primo: hanno la pretesa di agire quando molti dei gap socioculturali che penalizzano gli studenti e le studentesse più fragili sono ormai consolidati; non è un caso che la quasi totalità di essi si appunti su questioni metodologiche e guardi, in particolare, alle fasi più avanzate del percorso d’istruzione.
Possiamo anche scannarci sul voto numerico o sul maschilismo di Cicerone&co., ma, mentre lo facciamo, il divario tra chi è stato nutrito di una lingua viva corretta e fluente, di un immaginario vasto e vario derivato da narrazioni e letture ad alta voce, dalla visione di film e documentari, dal contatto con diverse forme espressive, e chi invece non ha avuto queste possibilità, si mostra in tutta la sua evidenza. Soprattutto chi insegna nelle classi del I ciclo si confronta ogni giorno con la grandissima eterogeneità dei retroterra socioculturali di bambini e bambine: non serve scomodare La réproduction di Bourdieu per sapere che chi proviene da famiglie con alto livello di istruzione e possibilità economiche di accedere alla cultura (libri, viaggi, mostre, sport, corsi di lingue…) ha la strada spianata verso il futuro. Inoltre, già da alcuni decenni, gli studi sullo sviluppo del linguaggio e sulle competenze di lettura affermano che l’ambiente familiare è fondamentale nelle costruzione di atteggiamenti e abilità di base e trasversali necessarie al successo scolastico; non solo ci dicono anche che la competenza fonologica e quella lessicale all’età di sei anni sono predittive della reading literacy nel percorso scolastico successivo:[1] ciò significa che, già all’ingresso della prima classe della scuola primaria, c’è chi comincia il proprio percorso intravedendo la linea del traguardo e chi non è ancora arrivato ai box di partenza.
Per questo è necessario intervenire prima che le differenze diventino baratri, che si possono certamente superare, ma solo a prezzo di grandi sforzi individuali[2] – magari con l’aiuto di docenti “straordinari” e “devoti alla missione”, quelli che “ti cambiano la vita”, nella narrazione dell’eccezionalità così comune oggi. Perché, allora, anziché dedicare tempo ed energie a discutere di riforma della scuola superiore (su cui tutti i governi, di qualunque colore, ambiscono a mettere il proprio timbro), innalzamento dell’obbligo, passerelle, debiti e recuperi, coloro che davvero credono che una delle funzioni costituzionali della scuola sia quella di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana», non si spendono – ad esempio – per rendere obbligatorio l’intero ciclo (o almeno gli ultimi due anni) della scuola dell’infanzia? Si favorirebbero così la socializzazione, l’esposizione precoce ad un uso corretto della lingua, il contatto con libri illustrati ed albi, l’abitudine all’ascolto, alla manipolazione, all’espressione di sé attraverso l’arte, l’educazione corporea; sarebbero possibili anche la diagnosi e l’intervento precoce in caso di situazioni di disagio o di difficoltà dell’apprendimento (e possiamo immaginare anche quale volano la creazione di un sistema statale di scuole dell’infanzia potrebbe costituire per l’occupazione femminile e la riduzione dei gap di genere nel mondo del lavoro).
E ciò ci conduce direttamente al secondo elemento: praticamente nessuna delle questioni che infiammano la discussione sulla scuola inclusiva parte dal presupposto che la il sistema d’istruzione non sia una monade autoreferenziale, ma sia immerso in un preciso contesto sociale, economico e politico, dunque pensare che esso possa essere democratico ed inclusivo quando tutto, intorno, tende ad acuire le differenze socioeconomiche e a ridurre la mobilità sociale è miope o velleitario. Ne è la dimostrazione, come ha già sottolineato Marco Maurizi su queste pagine, il fatto che la più importante riforma democratica della scuola italiana, ovvero quella della scuola media unica del 1962 (la sola riforma della scuola attuata per via di elaborazione parlamentare e non per decretazione, tra l’altro), è avvenuta in un momento storico in cui le richieste di maggiore partecipazione democratica interessavano tutti gli ambiti della vita pubblica, e non solo l’istruzione.
Oggi invece sembrano scomparse dal dibattito sulla scuola democratica le istanze che lo hanno caratterizzato fino alla fine degli anni ‘70: il tempo pieno per tutti i bambini e le bambine, i doposcuola, l’accesso gratuito a libri e al materiale didattico, il sovraffollamento e l’inadeguatezza delle strutture, le biblioteche scolastiche, la stabilizzazione dell’organico, i docenti di sostegno (e altre se ne potrebbero aggiungere, oggi, come la cronica insufficienza di mediatori linguistici e culturali e di figure psico-socio-educative).
Potrebbero sembrare battaglie ormai vinte, ma non è così. Proprio l’accelerazione del modello economico tardocapitalistico sta creando nuove ed inattese sacche di povertà ed emarginazione, che non riguardano solo – come molti potrebbero pensare – le famiglie che hanno alle spalle un vissuto migratorio, ma anche le famiglie monogenitoriali, quelle in cui sono presenti persone con disabilità, quelle di chi ha perso il lavoro o ne ha uno precario o sottopagato, quelle in cui si convive con il disagio psicologico o la patologia psichiatrica. Come ieri, chi oggi fa fatica a comprare un libro o a pagare la quota per partecipare ad un’uscita didattica è proprio chi ne avrebbe più bisogno, perché ha un background familiare che non è in grado di garantirne il soddisfacimento dei bisogni formativi e culturali. E come detto sopra, i gap di partenza spesso diventano gap di arrivo, in un inestricabile circolo vizioso.
La scuola democratica, insomma, non si ottiene magicamente smettendo di leggere Platone o Machiavelli, o licealizzando tutti i percorsi superiori, o eliminando la lezione frontale, o imponendo corsi e corsettini di formazione metodologica ai docenti, categoria (anch’essa impoverita, svalutata, burocratizzata) spesso ritenuta responsabile di tutti i mali che affliggono il nostro sistema d’istruzione e di tutte le forme di disagio che emergono sì, nelle classi, ma proprio perché la scuola è il primo contesto sociale formalizzato con cui ragazzi e ragazze si confrontano al di fuori della famiglia, ed è qui che esplodono, per prime, le contraddizioni della società stessa. La scuola democratica, insomma, non si ottiene a costo zero o con pseudoriforme di metodi e contenuti disciplinari, ma solo ritornando ad affrontare l’impoverimento culturale, l’emarginazione e l’esclusione alle loro radici, che sono e restano economiche e sociali.[3]
Note
[1]Si veda, ad esempio il Report Eurydice 2011, Insegnare a leggere in Europa: contesti, politiche e pratiche https://eurydice.indire.it/pubblicazioni/insegnare-a-leggere-in-europa-contesti-politiche-e-pratiche/ .
[2]Supra, p.27.
[3]È ciò che viene indicato anche dal Report Eurydice 2023 Promoting diversity and inclusion in schools in Europe https://eurydice.eacea.ec.europa.eu/publications/promoting-diversity-and-inclusion-schools-europe, che infatti elenca, in ordine di importanza, una serie di fattori: innanzitutto normativa non discriminatoria, accessibilità degli istituti scolastici, supporto economico, assistenza sociale, collaborazione con le famiglie (capitolo 4), e solo successivamente revisione dei curricoli (capitolo 5) e bisogni socioemotivi degli studenti (capitolo 6).
Articolo molto sensato e più che mai condivisibile. Il sospetto è però che chi ha il potere esecutivo effettivo sull’istruzione non sia intenzionato a ridurre davvero il gap, ma solo a far finta, mettendo “Sulla strada” di Kerouac e “La storia dell’ancella” di Atwood al posto dei “Promessi sposi” di Manzoni. Perché la retorica cambia, ma il potere deve andare agli stessi.
Una lettura lucida e centratissima, sono totalmente – e inutilmente – d’accordo
L’articolo è condivisibile, almeno in linea di massima. Nei dettagli non saprei perché non entra nei dettagli e non spiega come fare, concretamente. Osservo però due limiti della logica a cui si attiene, non in contrasto ma a completamento e come richiamo al realismo pragmatico.
1) Il gap di base non sempre è superabile. Gli individui nascono e crescono diversi, con diverse tendenze, inclinazioni, talenti, vocazioni, capacità ecc. Fra i meno favoriti ci sono anche casi di successo, nonostante tutti gli ostacoli; come ci sono casi di fallimento fra i più favoriti, sempre nonostante tutto, tutte le spinte e le agevolazioni. La scuola, fosse anche la migliore possibile, non riuscirà mai a rimediare a tutto e tanto meno a tutte le differenze naturali. Bisogna tenerne conto per elaborare adeguate strategie educative.
2) La scuola europea (ma direi praticamente quella mondiale, di tutti i Paesi), ha alle spalle due modelli di cui risente ancora pesantemente. Quello del collegio gesuita del Cinquecento e quello della caserma austro-prussiana del Settecento. Il modello antico, greco e romano, era migliore ma è fuori discussione perché inapplicabile a una scuola di massa. Occorrerebbe passare a un modello nuovo, completamente diverso, di cui le esperienze delle scuole attive hanno dato qualche parziale saggio solo su scala ridotta (scuole sperimentali, scuole private e frutto di particolari programmi educativi). Ma oggi nessuno, in nessuna parte del mondo, ha in programma una scuola completamente diversa, non più strutturata in classi e in percorsi chiusi, non più sottoposta al regime delle promozioni e bocciature ecc. ecc. La scuola di oggi, con le strutture che ha, consolidate da secoli, non è riformabile. Intendo dire che ogni riforma può modificare qualche dettaglio ma non cambiarne l’impatto complessivo sugli studenti, docenti e società nel complesso. Pensare il contrario è pura utopia. La «rivoluzione» necessaria perché la scuola si ponesse all’altezza della riflessione pedagogica e ne realizzasse le dottrine già mature da tempo e in continuo aggiornamento anche rispetto al mondo digitale, dovrebbe essere davvero radicale, tanto che non riesco a immaginare nessuna forza politica odierna capace anche solo di proporla, e tanto meno di attuarla.
Se ciò che l’articolo dice venisse realizzato interamente, ma all’interno della scuola di oggi, certo sarebbe meglio di niente ma gli effetti di miglioramento complessivo continuerebbero ad essere deludenti. Il cane si morde la coda, ma non cambia natura. Menziono solo due aspetti metodologici della didattica attiva, impossibili da attuare nella scuola di oggi: a) l’insegnamento individualizzato; b) l’insegnamento di gruppo (non come espediente interno ai confini carcerari della classe, ma come rottura di quei confini). E c’è poi la rottura dei percorsi programmatici. Oggi, agli studenti, è richiesto di essere a un determinato livello in tutte le materie e attività (in prima, in seconda, in terza, ecc.) mentre sarebbe molto più naturale, educativo ed efficacie che si trovasse ai livelli per lui più reali e possibili, ad esempio in prima in una materia, in seconda in un’altra, in terza in un’altra ancora ecc. È tutta la struttura delle classi, dei percorsi didattici, del rapporto con i docenti e con la gestione dei programmi che andrebbe cambiata completamente. E insieme tante altre cose, come la gestione delle valutazioni, che oggi sono un pasticcio mostruoso e antiscientifico che mescola e confonde gli aspetti didattici, quelli relativi alle conoscenze, quelli giuridici, quelli della «condotta», e altro ancora (fra cui gli aspetti umorali, vizi e virtù degli insegnanti). La docimologia ha una storia ormai di un secolo di ricerche scientifiche, ma nella scuola italiana è completamente assente. In genere gli insegnanti non hanno chiaro né che cosa valutano né perché, cioè in relazione a quale progetto educativo. Si valuta per forza di inerzia in base a un generico e confuso progetto educativo che si adagia sulla realtà sgangherata della scuola di oggi. Negli anni ’90, ero allora preside in un liceo scientifico di Milano (ora sono in pensione da molti anni), ho fatto un esperimento: ho fotocopiato un tema in classe di italiano e un compito in classe di matematica e ho distribuito le fotocopie a diversi docenti chiedendo di valutarle e attribuire un voto. Sono risultati voti molto diversi, variabili da 3 a 8!!! È evidente che il carattere soggettivo del docente ha un enorme peso nella valutazione, più dell’oggettività di avere in mano un compito determinato e identico.
***
I problemi della scuola italiana sono gravissimi, visti dall’interno della scuola. Si aggravano ancora di più visti dall’esterno, nel rapporto scuola-società. La stessa identica struttura sociale può dare risultati molto diversi se cambia il rapporto scuola-società, in termini di motivazione allo studio, di prospettive di lavoro, di formazione e selezione dei docenti, di disciplina sociale (non scolastica, ma quella dei giovani rispetto all’ambiente sociale in cui vivono), di rapporti fra scuola e famiglie, di rapporti fra scuola e mondo del lavoro, di gestione autoritaria o sociale della scuola, ecc.
Troppe cose da cambiare per avere una scuola all’altezza dei suoi compiti. E una società troppo restia a cambiare, sia a sinistra sia a destra sia al centro.
@luciano aguzzi
I dettagli sono semplici: DATECI I SOLDI.
Soldi per i docenti di sostegno, le figure socio-educative, gli psicologi e i medici scolastici.
Soldi per i libri in comodato d’uso e per costruire le biblioteche scolastiche e di classe.
Soldi per la mensa gratuita, il doposcuola gratuito, le uscite didattiche gratuite.
Soldi per avere classi da 15 persone.
Soldi per aule ed edifici non fatiscenti.
Soldi per il trasporto pubblico scolastico.
Poi, solo poi, cominciamo a discutere di metodologie, curricoli, valutazione e tutto il resto.
(i soldi ci sono, eh: sarebbe bastato investire diversamente quelli del PNRR)
@Emanuele Bandini
Non è semplice questione di soldi. Ho insegnato alle elementari e nei licei e ho poi fatto il preside nei licei e spesso i soldi c’erano, ma non la capacità e l’effettiva possibilità di usarli. Fra l’altro, ho insegnato sempre e solo a Milano in scuole di recentissima costruzione, dove nulla era fatiscente, dove gli spazi non mancavano, dove la biblioteca d’istituto era ben fornita e dove le richieste dei docenti e degli studenti di nuovi libri segnalati venivano subito soddisfatte. Tutto quello che lei elenca corrisponde largamente a un programma di assistenzialismo scolastico che sicuramente potrebbe produrre miglioramenti, ma non in misura adeguata alle risorse finanziarie impegnate. La scuola di oggi, per molti aspetti, è anche uno spreca risorse: non sa impiegarle nel modo migliore né conservarle. Gli esempi possono essere infiniti: quanti laboratori nuovi, costosi, di strumenti informatici per lo studio delle lingue e per svariati usi didattici vengono vandalizzati e messi fuori uso in pochissimo tempo? Quante strutture nuove si riducono in poche settimane a pareti, bagni, aule degradate? Quanti strumenti didattici vengono acquistati e poi mai, o molto raramente, usati? La scuola soffre di malattie che non guariscono con un po’ più di soldi, perché oltre ai soldi serve la possibilità di utilizzarli bene.
Un altro esempio pratico che traggo dai decenni della mia esperienza. Lei dice «Soldi per avere classi da 15 persone». Anche in questo caso, classi con meno numero di studenti potrebbero, in generale, funzionare meglio, ma non è sempre vero. Io ho avuto, in quinta liceo scientifico in particolare, sia classi di 15 sia classi fino a 32 studenti, in anni lontani (anni Settanta e Ottanta): la classe migliore che ricordo, per ottimo funzionamento didattico, per ottimi risultati degli studenti agli esami di maturità, per ottima solidarietà fra gli studenti, amicizia e collaborazione, aveva 28 studenti. Una delle peggiori ne aveva 15: peggiore per individualismo, per rivalità fra i ragazzi, per indisciplina, per difficoltà didattiche ecc. ecc. È il progetto educativo complessivo e il materiale umano di cui si dispone (studenti e docenti e, naturalmente, le famiglie degli studenti) che incidono più della disponibilità di qualche soldo in più.
Questo in generale. Poi, ovviamente, se la scuola è sconquassata da tutti i punti di vista, se è in ambiente sfavorevole ecc. ecc., occorrono anche massicci investimenti finanziari, ma sull’intero ambiente. Per questo ciò che lei dice assume più verità nelle zone dove c’è maggiore degradazione da ogni punto di vista, cominciando dalla mancanza di lavoro, dalle precarietà economiche, dalla mancanza di abitazioni e così via. Ma è meno vero a Milano e in città analoghe. E anche nelle zone degradate se gli investimenti nel settore scolastico non sono accompagnati da analoghi investimenti migliorativi dell’ambiente, produrranno poco risultato e spesso solo effimero. La scuola non è mai una realtà isolata e nel rapporto scuola – società è la realtà sociale che pesa maggiormente, non il viceversa.
Se non fosse così non si spiegherebbe un semplicissimo fatto storico: io, negli anni 1950-1955 ho frequentato un’ottima scuola elementare con un ottimo insegnante e ne conservo ricordi molto positivi. Sa in quanti ragazzi eravamo in classe? 38! Oggi ho conoscenti insegnanti alle elementari con classi con meno di venti alunni e sono contenti se riescono a tenerli in classe, a non doverli rincorrere fuori. Poi, lo studiare, svolgere un programma, fare attività didattiche piacevoli e interessanti, diventa cosa secondaria quando l’insegnante deve preoccuparsi di mantenere un minimo di disciplina e dedicare tutte le sue energie a questo scopo.
Il degrado complessivo della scuola non consiste nella mancanza di soldi, ma nella mancanza di un senso di utilità e di fiducia nella scuola, cioè di un basso rapporto positivo fra scuola e società. È noto che in relazione alla spesa dobbiamo esaminare quattro livelli:
1. Quanto si spende
2. Dove si spende
3. Chi spende
4. Come si spende
L’aumento quantitativo della spesa, senza un corrispondente miglioramento qualitativo della stessa, non potrà mai produrre in proporzione alla spesa stessa. Lo dimostrano anche le statistiche: in Italia la qualità della scuola, nelle varie regioni e città, mostra spesso delle sfasature rispetto alla quantità della spesa. Non sempre dove si spende di più si ha la scuola migliore, anche se è vero che spendere di meno favorisce una scuola di più basso profilo.
*
E ripeto ciò che ho scritto nel mio precedente intervento. Una scuola male organizzata, male diretta, in contrasto con le tendenze sociali, non potrà mai funzionare bene né in senso didattico-formativo né in senso politico-amministrativo. Aumentare la spesa è doveroso (in Italia siamo al 4,6% del Pil mentre la media Ue è del 5,00 e la Danimarca, che spende di più, è all’8,3), ma non sufficiente. Ci sono problemi che non dipendono dalla spesa e riforme da fare che non costerebbero niente, salvo un nuovo e più adeguato orientamento culturale, politico e sociale, di tutti gli interessati, cioè di tutti i cittadini, della classe politica, della classe dirigente, dei partiti, dei sindacati. Se dal 4,6% la spesa pubblica per l’istruzione in Italia salisse improvvisamente al 6,00, il miglioramento – mantenendo fermo tutto il resto – potrebbe risultare di poco conto nell’immediato ma anche di scarsa incisività nel medio e lungo termine.
La maggiore spesa va unita a una autentica rivoluzione nel campo scolastico, o servirà a poco risolvendosi in ulteriore assistenzialismo spicciolo.
Gentile Preside Aguzzi, di solito queste argomentazioni servono a giustificare la carenza di fondi. Ma compito della politica è quello di erogare fondi minimizzandone lo spreco. Per realizzare norme stringenti in tal senso occorre coinvolgere non solo dirigenti scolastici, ma anche associazioni di insegnanti, avviando processi di studio e implementazione graduale. Aumentare i fondi senza queste condizioni non serve a nulla, ma non ciò non vuol dire che i fondi non debbano essere aumentati. A cominciare dalla vergognosa retribuzione degli insegnanti, accompagnata a maggiore selezione in ingresso e sul controllo loro operato in classe (non dei progetti pomeridiani…).
Volevo dire “al controllo”
@ Piero
Mi pare che lei dica ciò che ho sostenuto: l’aumento di fondi è utile, spesso necessario, ma solo se li si spende bene. Altrimenti è come mettere acqua in un secchio bucato: non si arriva mai al livello desiderato. Però il problema più grave su cui ho insistito e insisto è la situazione complessiva della scuola che ha bisogno di una radicale riforma. Se si mantiene l’attuale modello di scuola – caserma unito a uno svaccamento generale dal punto di vista della disciplina e della motivazione, ogni cambiamento di dettaglio cadrà nel vuoto. Dalla realizzazione della media unica, a partire dal 1° ottobre 1963, a oggi, le leggi di riforma della scuola sono parecchie decine, tuttavia la scuola continua a peggiorare. Leggi sbagliate? Non tutte. Però tutte leggi settoriali, di piccolo cabotaggio. La scuola italiana ha avuto, nella sua storia, solo due leggi di riforma complessiva: la Legge Casati del 1859 e la riforma Gentile del 1923. In seguito le moltissime nuove leggi adottate hanno stravolto l’organizzazione che la legge del 1923 aveva dato alla scuola, ma non hanno mai dato vita a un modello complessivo nuovo. Hanno più distrutto che costruito, lavorando sull’effimero e il provvisorio nel tentativo di adeguarsi ai mutamenti sociali e politici. Così oggi abbiamo una scuola ancora, per molti aspetti, legata al modello del 1923, ma senza più la logica del 1923 né nessuna altra logica sostitutiva. Abbiamo una scuola che ha accumulato, ad antiche deficienze, tutte le nuove. Il pedagogista Graziano Cavallini nel 1975 pubblicava un libro intitolato «La fabbrica del deficiente». Questa era la scuola allora, e oggi è peggiorata. Se qualcosa di buono c’è, se qualche eccellenza si ha, non è grazie a questa scuola ma nonostante questa scuola. Per fortuna le persone hanno, a volte, risorse intellettuali, morali e professionali proprie che la società, con le sue “agenzie” scuola compresa, non riescono ad azzerare.
Errata corrige
Per fortuna le persone hanno, a volte, risorse intellettuali, morali e professionali proprie che la società, con le sue “agenzie” scuola compresa, non riesce ad azzerare.