[Una versione più breve di questo articolo appare in uno speciale sulla poesia tedesca nel numero attualmente in edicola di «Alfabeta2», 19, maggio 2012].

di Italo Testa

Cresciuto nel “ghetto della generazione perduta” della DDR, Durs Grünbein (1962), con il fulminante esordio di Zona grigia, mattina (1988), dava forma alla mitologia negativa di una giovinezza trascorsa a Dresda, “relitto barocco sull’Elba”, tra disillusione storica, distanza cinica e malcelato disprezzo dell’esistente. Trasferitosi dal 1985 a Berlino, dove assiste con soddisfazione sarcastica al crollo di un Impero come ad una rivoluzione passiva che lo coinvolge solo marginalmente ma lascia un profondo segno sul suo corpo-lingua, Grünbein diviene ben presto negli anni novanta l’esponente emblematico della nuova poesia tedesca della post-unificazione, mettendo a punto una formula espressiva che concilia la furia analitica di Benn con le diagnosi epocali sulla metropoli moderna del primo Brecht, il cosmopolitismo occidentale della Repubblica federale con il vento freddo della steppa che scorre sulle piane gelate della Germania Orientale.

A metà partita, titolo della fortunata raccolta con cui Anna Maria Carpi presentava nel 1999 al pubblico italiano un profilo complessivo della produzione di Grünbein sino alla fine del millennio, avevamo incontrato un poeta dotato di una sovrana padronanza della lingua e di una capacità associativa quasi prodigiosa, progressivamente incapsulata, dopo il libro di esordio, che scorreva ancora in una versificazione libera e allegoricamente frammentata, nella potente corazza formale e metrica di una “lingua-panzer”.

Magistero metrico-formale e vertiginosa erudizione connotavano e potenziavano il materialismo linguistico del primo Grünbein, il cui titolo più significativo, Lezione sulla base cranica (1991), denunciava un serrato confronto teorico con Georg Büchner, riguadagnato alla luce della recente rivoluzione neurobiologica. Il corpo quale punto di vista insostituibile, sia fisico che metafisico: un principio di individuazione avente il suo limite inferiore nella idiosincrasia fisiologica e il suo limite superiore nella lingua-corpo idiomatica della poesia.

L’equilibro poetico, paradossale ma fecondo, che Grünbein riusciva così a stabilire tra individuazione lirica e materialismo secolarizzato, lingua-macchina e psiche, concezione galileiana e quantificabile dei fenomeni e visione dantesca della singolarità del corpo-lingua-universo, si riflette ancora nel vasto impianto di Della neve ovvero Cartesio in Germania (Einaudi 2003, a cura di Anna Maria Carpi), il poema in 42 canti di esametri alessandrini dedicato al fondatore del pensiero moderno e alla straordinaria nevicata nella Germania meridionale del 1619: il momento di autoisolamento esistenziale in cui Cartesio, attraversando con lo sguardo il deserto di ghiaccio che si stendeva al di fuori della sua camera, giunse a pensare il mondo come astrazione geometrica.

Celebrazione dell’audacia ma insieme del fallimento teorico del dualismo cartesiano, la cui verità esistenziale può essere raccolta solo dal pensiero poetico quale forma di individuazione completa, Della neve, poema scritto nel corso di un decennio, affonda le sue radici nel lavoro degli anni novanta, ma corre anche in parallelo con la nuova fase della poesia di Grünbein, di cui oggi l’infaticabile ed esatto lavoro di Anna Maria Carpi ci offre una sintesi in Strofe per dopodomani (Einaudi 2011), libro che presenta una scelta tra le principali raccolte degli anni zero.

Se il giovane Grünbein era stato quasi unanimemente celebrato quale figlio delle Muse e nuovo poeta nazionale tedesco, più controversa è la ricezione critica in Germania della più recente produzione, non di rado contrassegnata da insofferenza da parte dei recensori verso la compiaciuta erudizione, la freddezza calcolata, il pathos della distanza, e il decòr neo-antico dei nuovi versi. Un dissenso che in una certa misura umanizza la figura di Grünbein, ma che permette anche di rilevare l’audacia e di misurare il prezzo della calcolata “inattualità” che segna l’evoluzione più recente della poetica dell’autore. Qui infatti a dominare non è più il chiasmo tra scienza naturale e poesia che un titolo come Ode al diencefalo catturava in modo felice: è invece il rapporto tra moderno e antico, colto da un punto di vista trans-storico, ad improntare la poesia delle ultime raccolte già nel registro formale. E’ il salto spericolato dalla “lingua-spada” degli esordi all’aere perennius.

La varietà delle scelte espressive di Grünbein si allarga e differenzia ulteriormente, a testimonianza di una duttilità ed inventiva formale fuori dell’ordinario, con una progressione retrograda e un allungamento del verso, dominato da esametri (variamente rimati), alessandrini, blank verse, e spesso organizzato in odi ed elegie. Il sarcasmo satirico aggressivo degli anni novanta è ora temperato dalla compostezza di un tono elegiaco. La socializzazione biopolitica nella zona grigia della DDR – la “pedagogia della paura” (Cancro nostalgico) esercitata in un paese descritto come grande carcere all’aperto (Congedo dalla quinta era), o come una grigia vasca per l’allevamento di pesci (Panini osceni) – diventa così la mitologia della Quinta era, con un frequente ricorso all’autocitazione della maniera degli esordi, come nel seguente cammeo, che riprende dalla Lezione sulla base cranica l’immagine del giovane poeta come “cane di confine”: Chi parla qui a suo tempo si levava presto. Scivolava sbarbato e sanguinante / fuori di casa, pullover infeltrito, giovane lupo con la criniera, / annusante estate e inverno”.

Lo sguardo postumo, che nel primo Grünbein era soprattutto post-storico, nelle Strofe per dopodomani tende ad evolvere in una visione museale del mondo, con il poeta saldamente installato nella MuseumInsel di Berlino a fare da testimone (“[…] trasformato in zona di musei / d’arte astratta, risplende il mondo”). Laddove questo moto è troppo insistito e diventa un imperativo poetico (“Adesso devi respirare a fondo. Fa’ come il giorno / per te fosse defunto e il mondo postumo. / E’ il momento per qualche pittura di paesaggio”), incontriamo alcuni degli esiti meno convincenti, come nelle poesie di viaggio – con una passione sin troppo tedesca per il viaggio in Italia e tra le vestigia della romanità – o nelle poesie in costume antico o medievale, dove appunto la “pittura di paesaggio”, le “scene di genere”, gli insistiti richiami alla mitologia greca e romana e i “medaglioni” anacronistici rischiano qualche scivolata pompier, e certi preziosismi miniaturiali potrebbero suonare stucchevoli (“Steso sul dorso mi dimenticavo: / ‘Ero un tapiro, un tempo sulla riva dell’Orinoco’”),  se non si percepisse all’ultimo istante un tocco d’autoironia (così nella chiusura di una poesia italiana sui Calamaretti, Grünbein scrive: “[…]E’ il mio verso / che vi porta alla luce, prima che tocchiate il mio palato”).

Sempre prigioniero della città (“l’uomo della metropoli, eccitato, pappagallo di se stesso, / si diverte a becchettare le sbarre della gabbia”, scrive in Transit Berlin), il poeta di Strofe per dopodomani, proprio nel momento in cui assume una posa classica che vorrebbe sfidare il tempo, ci sorprende applicando a se stesso quel pathos della distanza che alcuni gli hanno rimproverato. Questo autodistanziamento ironico rappresenta una delle principali novità tonali dell’ultimo Grünbein e anima con un soffio di leggerezza i migliori versi di questa raccolta, in particolari i testi autobiografici, come gli indimenticabili ritratti del nonno macellaio e della nonna “quaglia”, o certe poesie d’amore e sentimentali (Autostrada in Toscana, ‘L’origine du Monde’) segnate da un erotismo e da un’affettività matura e quasi divertita, profondamente umana. Il motivo della caducità, da amore barocco per il mortuum, diventa così a tratti palpitante fragilità creaturale. E’ nella consapevolezza di una perdita, della ferita che lo scorrere del tempo ha inflitto e che investe la sua stessa poesia, che Grünbein, proprio nel momento in cui sembra confessare un’impasse lirica, raggiunge fulmineamente un nuovo vertice espressivo: “E un bel giorno tu emergi dal tuo far poesia / come un iceberg dal mare e sul giornale di bordo / c’è: mattina, cambio di rotta, direzione nord-nord-est. / Il cuore si è adeguato. L’acqua si fa blu balena. // Nelle remote regioni del cervello diventa un imperfetto / ciò che era partenza e sensazione e viaggio d’esplorazione. / Come il pack s’avvicina la mezza verità – la prosa. / E congela, sulle labbra secche, il canto.”

[Immagine: Macellaio tedesco con colleghi, 1917 (mg)].

2 thoughts on “Il pack della prosa s’avvicina. Durs Grünbein

  1. Ottimo spunto su un poeta a mio avviso decisivo, il “passaggio” alla fragilità creaturale cui accenna Italo è un nuovo indirizzo, una scelta oltre misura e oltre l’impasse nichilista che ci sommerge. L’ultimo Grünbein va studiato con pazienza e attenzione.

  2. Sono arrivato a questo articolo da una lettura di un testo recente di G. Steiner (La poesia del pensiero) dove ho scoperto l’esistenza di Durst Grunbein.
    Mi interessa molto l”operazione” di questo poeta tedesco.
    cordiali saluti Walter Sarfatti

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