Caro M.,

 

C’è poco da fare e da dire: i libri belli sono quelli che si finiscono a letto. Quelli che si riprendono di mattina presto, dopo che, la sera prima, li abbiamo abbandonati a malincuore, sopraffatti dalla stanchezza. Quelli che riprendiamo in mano, ad occhi appena aperti, prima di ricadere nell’«inganno consueto» (Montale). Nel caso specifico, il libro bello è Adelaida (Nutrimenti, 2024) di Adrián N. Bravi, uno scrittore argentino che, da più di quarant’anni, vive a Recanati. Qui, scegliendo la lingua italiana (« a volte la nuova lingua che apprendiamo si può trasformare in una difesa, ci può offrire l’opportunità di erigere un nuovo sistema protettivo contro i conflitti interni o creare una nuova rappresentazione di se stessi, che possa velare il passato e fissare, per così dire, una sorta di distanza di sicurezza dal tumulto delle vecchie emozioni […] È possibile, mi chiedo ancora, crearsi un altro ritratto di sé stessi attraverso una nuova lingua? »), ha scritto diversi romanzi, segnalandosi  tra le voci più interessanti ed originali della letteratura italiana contemporanea. In questo suo ultimo, in particolare, scritto «con lieve mani» («Con lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare»: come in quella poesia perfetta di Cristina Campo, basso continuo che accompagna questo romanzo biografico), tributa un omaggio, colmo di pudore e pietas, verso quella figura, per tanti aspetti, emblematica che è stata Adelaide Gigli (1927-2010). Una eclettica artista argentina la Gigli – pittrice ceramista poetessa narratrice organizzatrice culturale- con la quale l’autore, a partire dalla comune diaspora recanatese, aveva stabilito una salda amicizia, tessuta con il filo doppio della curiosità e dell’affetto. Adelaida/e («Adelaida la madre, l’artista, quella che ride in faccia al potere, che ospita e protegge i dissidenti; Adelaide, invece, vale a dire il suo vero nome di battesimo, ereditato dalla nonna paterna»), a 50 anni, sbattuta dalla furia di quell’incubo che è la Storia (anche il prof. Stephen Dedalus nel Portrait joyciano affermava che la storia è un incubo dal quale tentiamo invano di risvegliarci) approda proprio tra le mura della città leopardiana, dove vivrà il secondo atto della sua tormentata esistenza, in una minuscola casa-laboratorio. Sarà quella casetta in Piazza S.Agostino il teatro « dove custodire con amore le sue assenze »: fucina, alcova, salotto letterario, bric-à-brac, luogo di ritrovo, buen retiro, pensatoio, replica dello studio di Giacometti a Montparnasse… Un rifugio perfetto per sognatori esuli anime inquiete vagabondi irriducibili. Nel ricomporre il tormentato vissuto  di questa donna, Bravi redige anche un tragico bilancio della storia argentina della seconda metà del 900, stretta nella morsa della demagogia peronista, prima, e la violenza feroce delle dittature militari poi. E per farlo, lo scrittore argentino riparte proprio dal celebre «Sì, posso» della Achmatova. La storia è nota. La poetessa russa viene riconosciuta da una donna, in attesa come lei, presso le carceri di Leningrado. Mesi e mesi di fila al freddo per consegnare cibo e abiti per i propri familiari. Se il pacco non veniva accettato, voleva dire che il detenuto era stato fucilato. C’era Lev, in quella prigione, il figlio della Achmatova. La sconosciuta «dalle labbra bluastre » le chiede: «Ma lei può descrivere tutto questo». « Sì, posso»: la replica netta dell’Achmatova. E «Sì, posso» risponde anche Bravi, che restituisce in queste pagine non solo il travaglio esistenziale ed artistico di Adelaide Gigli, ma anche la lunga interminabile catena di sventure ed orrori che ha fiancheggiato tutta l’esistenza terrena di questa donna straordinaria: sua figlia Mini e suo figlio Lorenzo montoneros che hanno pagato il loro  impegno politico tra le file dell’opposizione rivoluzionario, finendo nel lungo elenco dei desaparecidos, suo cognato Carlos Goldenberg giustiziato da poliziotti ad un posto di blocco, e, in sovrappiù, una serie sconvolgente di violenze soprusi terrore, dalle quale Adelaida fugge nel 1976. Tornò in quella Recanati, da cui era partita a quattro anni, insieme a suo padre, il pittore Lorenzo Gigli, a sua volta esule dall’Italia nel 1931, quando le ombre lunghe della dittatura fascista cominciavano a rendere l’aria irrespirabile per chiunque amasse soprattutto la libertà. Se nella prima anta, intitolata L’inatteso, questo romanzo, con un piede a Buenos Aires e l’altro a Recanati, ritrae un coro di figure che, progressivamente, si sfolla, decimato dalla violenza assassina del Potere costituito , nella seconda – intitolata Il congedo – è Adelaida ad assurgere come protagonista unica ed incontrastata. Sigaretta sempre accesa, macchina da scrivere Silver Read anni ’70, bicchieri di Ferrochina Bisleri quale empirico, alcolico rimedio alla carenza di ferro, la casa sempre piena di amici bottiglie cibo piatti libri fogli appunti, le sculture incompiute, le poesie gettate via, il mobiletto con il giradischi, un 78 giri di Gardel, i primi segni dell’Alzheimer- le agende su cui annotava freneticamente le parole per non dimenticarle, l’accendino usato al posto del pettine, i quadri rovesciati- a causa del quale poi morirà, in una casa di cura. Adelaida assomiglia, in fondo, al protagonista di un racconto L’altro cielo, scritto da una altro grande esule argentino, Julio Cortázar (sul selciato di una piazzetta a Buenos Aires alcuni suoi irriducibili fans avevano scritto, anni fa, a colpi di spray: «Julio, torna; che ti costa, dai?»). In quelle pagine, il protagonista si muove tra due realtà separate, ma sovrapponibili: eccolo entrare nella galleria Güemes di Buenos Aires, ma poi, quando ne esce, si trova d’incanto nella gallerie Vivienne, a Parigi. Così è stato anche per lei, per Adelaida, per questa donna coraggiosa ed affascinante. A ben pensare, in fondo, la casetta nella piazzetta S.Agostino di Recanati era molto più vicina di quanto si poteva pensare alla Plaza Italia di Buenos Aires, là dove si innalza il grande monumento equestre di Garibaldi, vicino a quello zoo di Buenos Aires, dove tutto aveva avuto inizio.

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