di Sergio Benvenuto

 

1.

 

 Quando rifletto su problemi politici dell’oggi, mi impongo una regola: che non devo farmi turbare dalle narrazioni oggi prevalenti. Penso che occorra guardare a problemi e conflitti con uno sguardo distante, gelido, obiettivo. A differenza di tanta gente comune, che pretende di avere subito giudizi da portarsi a casa.

Spesso, quando qualcuno ti chiede cosa pensi su un certo problema politico, si aspetta che tu gli dirai quale sia, secondo te, la linea buona e quella cattiva. Ogni risposta grigia del tipo “A ha le sue ragioni, ma B ha anche le sue” o simili è considerata un modo subdolo di sfuggire alla domanda e viene accantonata con disprezzo. Pochi ammettono la separazione tra analisi e giudizio. Anzi, di solito non ammettono nemmeno l’analisi.

Questa esigenza di giudicare subito e “prendere partito” è diffusa anche tra molti intellettuali, specialmente hegelo-marxisti. Costoro dicono che “essere neutri” è un atteggiamento capitalista, solo chi domina pensa di essere neutro. Per “essere neutro” intendono di solito “analizzare oggettivamente”. Ma si tratta di una forma di oscurantismo. Assumi una posizione egemonica quando sei capace di un’analisi oggettiva – da qui l’ambizione marxiana di creare un socialismo scientifico. Confondere allegramente la realtà con la tua narrazione preferita è un segno di debolezza storica e un modo sicuro di essere perdenti. Se si vince, chiunque sia colui che vinca, si diventa obiettivi, ovvero provvisoriamente neutri.

 

Le narrazioni che oggi vanno per la maggiore nel mondo occidentale sono poche, anche se abbiamo svariate combinazioni tra esse: la liberista (free-market), la socialista, la nazionalista sovranista, la confessionale, l’anarco-populista, la liberal-democratica. Il pensiero politico, dal XIX° al XXI° secolo, si dibatte sempre tra queste narrazioni. Questo almeno per quel che riguarda l’Occidente – nel quale includo tutti i paesi, anche orientali, di capitalismo avanzato retti da democrazie liberali. Ora, cerco di leggere il mondo e la storia mettendo tra parentesi queste narrazioni. Ma allo stesso tempo so che non si può pensare senza narrazioni… In questo senso sono scisso. La scissione è inevitabile.

Se si vuole avere una visione generale della politica, bisogna costruire comunque un racconto, ovvero, elaborare un modello – si spera il meno rigido possibile – che permetta di leggere i fatti politici. Altrimenti la storia politica apparirà mera successione di eventi opachi, caos. Anche un intellettuale profondamente disorganico come me deve pur avere qualche chiave. Ma dovere non è potere.

 

Oggi molti non trovano affatto negativa la pluralità di narrazioni politiche. Vale per il pluralismo politico la preoccupazione simile di conservare le diversità biologiche e culturali. Oggi tutti vogliamo che ci siano tante specie animali, che si parlino tante lingue diverse, che prosperino svariate culture… E deploriamo la perdita rapida di queste pluralità. Interpretiamo la teoria dell’evoluzione nel senso che la pluralità, rendendo flessibile una specie, aiuta questa specie a sopravvivere. Pensiamo che la pluralità delle filosofie sia una ricchezza. Ma per lo più non si estende questo cantico pluralista alla diversità delle concezioni politiche: vorremmo eliminare, talvolta anche con la forza, le idee politiche che consideriamo nocive. Per esempio, possiamo trovare repellenti narrazioni come il fascismo o il fondamentalismo religioso – perciò in Italia è proibita la ricostituzione di un partito fascista, in certi paesi è un delitto negare l’Olocausto. Ma d’altra parte dobbiamo riconoscere che queste narrazioni repellenti e i regimi corrispondenti sono parte della così encomiata pluralità.

Oggi pensiamo che una cultura si sviluppi nel conflitto e nella competizione tra narrazioni. E che i paesi che ammettono un florido pluralismo culturale al loro interno siano globalmente avvantaggiati rispetto a paesi politicamente non pluralisti, come la Cina e la Russia oggi. I paesi europei che hanno attraversato sanguinose guerre di religione sono diventati i più ricchi e potenti, mentre paesi come l’Italia e la Spagna, che non hanno sofferto di conflitti religiosi, sono divenuti paesi di secondo piano. Secondo la visione che prevale oggi, i paesi liberal-democratici hanno una marcia in più proprio grazie alla pluralità che li costituisce.

 

Ma questa visione porta a paradossi. Perché se la liberal-democrazia significa dar spazio al maggior numero di visioni politiche, allora essa deve dar spazio anche a visioni che combattono la liberal-democrazia, che sostengono una cultura monodica e non polifonica. Si attribuisce a Voltaire la frase “Non sono in nulla d’accordo con quel che dite, ma mi batterei fino alla morte per darvi il diritto di dirlo”[1]. Ora, avrebbe Voltaire detto la stessa cosa a proposito di qualcuno che avesse avuto come programma politico quello di decapitare Voltaire? Avrebbe dato la vita per dare la possibilità a qualcuno di togliergli la vita? La liberal-democrazia trova il proprio limite sempre in questo paradosso pragmatico.

Allora, quale narrazione mi sono costruito? O meglio: perché di fatto preferisco un certo indirizzo politico?

 

2.

 

Mi sento più vicino alla politica liberal-democratica. Mi convincono di più discorsi e argomenti di leader o movimenti politici che possiamo chiamare liberal-democratici, non infiltrati da missionarismi religiosi, né da egualitarismi socialisti, né da misticismi democratici radicali, né da idealizzazioni della catallassi del mercato. Leader e movimenti liberal-democratici mi sono simpatici, lo devo ammettere, a dispetto del mio impegno ad analisi disinteressate. Preciso subito che per “liberal” non intendo il liberismo come free market theory, ma le libertà civili e politiche care al liberal in senso americano.

Ma sarei teoricamente ingenuo – ovvero, ingannerei prima di tutto me stesso – se pensassi che questa mia simpatia sia il risultato di una visione oggettiva, imparziale. Insomma, non credo affatto che il mio modo di vedere porti a una forma di vita migliore per tutti. Non sono affatto certo che una società liberal-democratica renda più felice tutta l’umanità, e che basti convincere tutti e ciascuno che questo è vero. Temo che non tutti gli esseri umani desiderino vivere in una società liberal-democratica. E se alla fine la storia mostrasse che la maggior parte dell’umanità adottasse questo modello – come auspicava Francis Fukuyama – la cosa mi stupirebbe davvero.

 

In altre parole, affermo che le mie preferenze politiche sono infondate. Non hanno fondamento filosofico. Ma mi pare interessante analizzare filosoficamente questa infondatezza. D’altro canto, delle altre idee politiche respingo la loro pretesa di essere fondate. Concludere che tutte le opzioni politiche sono filosoficamente infondate è, a mio avviso, una conquista filosofica.

 

3.

 

Parto dall’evidenza che noi esseri umani siamo diversi gli uni dagli altri. Pullulano le differenze tra gli umani. In un certo senso ciascuno di noi è un mutante biologico. Un filone di pensiero da oltre due secoli insiste sul fatto che siamo tutti figli della nostra epoca (Hegel), che la pensiamo in modo omogeno agli altri che sono nella nostra stessa posizione sociale (Marx), che ci imitiamo tutti gli uni con gli altri (Tarde), che il nostro essere è sempre essere-con (Heidegger), ecc. Pochi insistono invece sull’evidenza opposta: che tutti, persino due gemelli veri, sono diversi gli uni rispetto agli altri.

Grazie a questa irrimediabile dispersione di differenze, anche le nostre inclinazioni politiche saranno necessariamente diverse. Ovvero, è molto improbabile che gli esseri umani possano convergere verso un modello unico di buona vita sociale. So che tanti esseri umani hanno esigenze del tutto diverse dalle mie, esigenze che spesso trovo aberranti. So che tanti esseri umani preferiscono vivere sotto un despota rassicurante piuttosto che in una democrazia; o che preferiscono vivere in una società minuziosamente regolata da comandamenti religiosi; o che preferiscono vivere superbamente isolati dagli altri popoli, e che vedono negli immigrati una minaccia devastante; o che vorrebbero una vita sociale regolata solo dai rapporti di mercato, privi di vincoli di stato e di solidarietà; o che vorrebbero vivere in una società livellatrice in cui lo stato impedisca a chiunque di emergere dalla massa… Non ho argomenti contro questi esseri umani. Se per argomenti intendiamo la dimostrazione che l’adozione di un certo modello di vita sociale – il mio – ci renderà tutti più felici e contenti, a differenza degli altri modelli.

 

Posso dire ai miei contemporanei solo: questo è il modo di vivere sociale che preferisco. Un modello che mi consenta di dire quel che penso sia la verità, e che mi garantisca – nei limiti del possibile – la maggiore libertà possibile. Verità e libertà sono quel che mi interessa. Ma a tanti altri interessano meno.

Ovviamente, ha senso dire liberamente la verità se ci sono altre persone libere di ascoltarla e di dirla a loro volta. La libertà di parola implica allora la libertà di tutti gli altri? Insomma, la libertà di tutti è il fondamento anche della mia libertà?

            Chi ha vissuto tra i poveri nel mondo economicamente sottosviluppato sa bene che quel che è in cima ai loro pensieri non è affatto la libertà, ma trovare da mangiare per sé e per i figli… E anche nei paesi ricchi, far soldi per tanti o trovare il partner amoroso giusto è molto più importante che avere la libertà d’espressione. Insomma, il bisogno di verità e libertà è per molti un lusso. Ammetto di avere l’impulso a vivere lussuosamente.

 

In questo senso non credo veramente nella verità e libertà. Non credo cioè che le verità siano disinteressate, puramente contemplative; così come non credo che sia possibile giungere a una libertà vera, assoluta, perché la sola libertà degli altri mi limita, ovvero, la libertà di ciascuno è anche la mia servitù. Viviamo asserviti agli altri, da cui peraltro dipendiamo. Volere più verità e più libertà è insomma un bisogno soggettivo che non possiamo mai realizzare del tutto nella società. Ogni società è violenta, perché ha bisogno di falsificazioni e limita la libertà di ciascuno.

Per esempio, nella liberissima Italia chi oserebbe mai difendere i pedofili, elogiare apertamente Hitler, negare che le donne debbano avere gli stessi diritti degli uomini, parlare degli omosessuali come sub-umani, elogiare la guerra come igiene dell’umanità?… Chi lo dicesse forse non verrebbe raggiunto da una denuncia penale, ma certamente verrebbe messo al bando dalla società.

Un filosofo disse che la libertà del mio pugno è limitata dal naso altrui. Appunto, lo spazio sociale è pieno zeppo di nasi, siamo incastrati in mezzo a tantissimi nasi… A stento si può muovere la mano. E tutti questi nasi spesso spingono la mia mano proprio contro il mio naso.

 

4.

 

Stranamente, questo mio bisogno irrealistico, disperato, di verità e libertà non mi impedisce di votare per partiti della sinistra non radicale. E dirò perché questo non è una contraddizione.

Ammetto che il modo di vivere sociale che preferisco – nel senso di meno peggiore degli altri – è proprio quello in cui vivo, e che quindi non credo nel cambiamento radicale. Come disse Jacque Lacan in un suo seminario (Seminario XX. Ancora), rivolgendosi ai gauchistes, a quelli della sinistra radicale che lo veneravano: “volete cambiare il mondo, ma pensando che esso debba cambiare senza arrecarvi il minimo disturbo”. Si pensa che la Rivoluzione la patiscano sempre altri, mentre noi non faremo che approfittare dei suoi benefici.

Come posso preferire il voto per la sinistra, che da sempre predica il cambiamento?

 

In realtà non penso affatto che nella società in cui vivo – in Italia, attualmente – tutto vada bene, tutt’altro! In Italia molte cose vanno male, talvolta malissimo. Abbiamo una corruzione ampiamente diffusa (e non solo tra ricchi e potenti, anche e soprattutto tra la gente comune), una potente criminalità organizzata, i privilegi di certi ceti e individui che sfruttano rendite di posizione, l’inefficienza amministrativa e giudiziaria, l’arretratezza del Sud, l’abbassamento del livello culturale della popolazione… E poi ci sono problemi immensi, planetari: il degrado ecologico, il moltiplicarsi degli esseri umani poveri[2], il riscaldamento globale, la proliferazione delle armi atomiche… Insomma, sono profondamente scontento della società e dell’epoca in cui vivo. Eppure…

 

Eppure so che nelle altre epoche non si stava meglio, anche se si stava male per altre ragioni. So inoltre che altri paesi simili al mio – certi paesi del Nord Europa, il Canada, l’Australia… – hanno non dico risolto, ma certamente attutito, i malanni della nostra società. Hanno la maggiore qualità della vita, il maggior indice di sviluppo umano[3]. Penso quindi che il marcio in Italia non sia nel modello a cui il paese si ispira – una società capitalista avanzata con istituzioni liberali e democratiche – ma in problemi specifici della società italiana. Non è possibile che i paesi siano tutti egualmente “riusciti”, come non è possibile che lo siano tutti gli individui.

 

Non che i paesi oggi ottimali siano paesi del tutto felici. Molta gente in un modo o nell’altro sta male in qualsiasi società, anche nella più prospera ed equilibrata. Das Unbehagen in der Kultur, diceva Freud, si vive a disagio nella società, in qualsiasi società. Insomma, non credo che in Italia le cose vadano male perché ci vorrebbe molto più socialismo, o molta più religione, o molta più libertà di mercato, o molta più democrazia di base[4]… In realtà, abbiamo abbastanza di tutto questo. Abbiamo abbastanza socialismo, abbastanza religione, abbastanza libertà di mercato, ecc. Abbiamo problemi atroci, ma essi non sono – come pensano i critici radicali della nostra società – frutto del nostro modello sociale, che è peraltro un modello misto, polifonico. È questa impurità del nostro modello che rende le nostre società, malgrado tutto, vivibili.

 

Il limite delle grandi narrazioni politiche è che esse vorrebbero, nel fondo, eliminare la polifonia, fare della società qualcosa di monodico, di monotono: tutta puramente socialista, o tutta puramente liberista, o tutta puramente religiosa, o tutta puramente populista… E siccome vogliono edificare una società a una dimensione, vedono la società attuale, che combattono, come una società monodica, anche se di fatto non lo è. La vedono come dominata completamente dalla narrazione che detestano: sono convinti che sia del tutto neoliberista, o tutta socialista, o ancora patriarcale e autoritaria, o troppo cosmopolita, o troppo sdivinizzata… Ma le società non sono mai a una dimensione, come non lo è mai l’uomo, a dispetto di quel che pensava Herbert Marcuse.

 

5.

 

Oggi, dirsi fondamentalmente soddisfatti del tipo di società a cui la propria appartiene è quasi scandaloso. Specialmente tra gli intellettuali. Si pensa che l’intellettuale abbia il dovere non di denunciare singole storture, ma di essere radicalmente critico nei confronti del modello di società in cui vive. Dire che il sistema politico-economico in cui viviamo, tutto sommato, è il peggiore sistema politico a esclusione di tutti gli altri (come Churchill disse della democrazia), equivale a fare una figuraccia tra le teste d’uovo. Essere a ogni costo critici radicali del proprio mondo è la conformità corretta. Perché una concezione essenzialmente platonica della politica – ovvero, che i filosofi devono criticare radicalmente il mondo in cui vivono perché devono essere loro a dirigere il mondo – ispira oggi l’intellighenzia dei grandi campus, almeno nella sfera delle discipline sociali e umanistiche.

Dico che invece un intellettuale dovrebbe avere finalmente il coraggio di trovarsi d’accordo, se se ne dà il caso, con il sistema attuale.

 

Oggi il voto per i partiti di sinistra non-radicale è sempre più il voto di chi, per una ragione o per l’altra, preferisce lo statu quo. Quindi, so che il voto che do a certi partiti di sinistra non radicale esprime la mia sostanziale soddisfazione per il modello di società in cui vivo. Parlo del voto per Biden (e non per Bernie Sanders) in America, per il Labour moderato o per l’Alliance in UK, per la socialdemocrazia tedesca (e non per la Linke), per Macron (e non per Mélenchon) in Francia, per i socialisti (e non per Podemos) in Spagna, per il PD (e non per il M5S) in Italia…

Come mostrano le statistiche, il voto genericamente di sinistra è sempre più il voto dei ceti non dominanti, ma che chiamerei running ahead, di chi corre in avanti: delle persone più colte, più giovani, di chi abita nelle grandi città, di chi guadagna meglio senza essere necessariamente ricco, di chi viaggia di più… In Italia lo si chiama il voto ZTL. Mentre il voto dei left behind, dei lasciati indietro, tende ormai a polarizzarsi sull’estrema destra o su varie forme di populismo anti-partiti. Tutti sanno ormai che in quasi tutti i paesi liberal-democratici l’elettorato della destra sempre più estrema è costituito essenzialmente da chi ha un livello d’istruzione basso, vive in piccoli centri, è anziano. In America, le zone più democrat sono le grandi capitali industriali della West ed East Coast, insomma, il grande capitale GAFAM[5] regge la sinistra americana.

 

Per esempio, è risultato che, a seguito della guerra in Ucraina, l’elettorato italiano più atlantista e filo-NATO, più favorevole al riarmo, più ostile a Putin… è l’elettorato della sinistra moderata.

Un tempo il tipico voto “di sistema” era quello conservatore, oggi è il voto di sinistra.

Mi chiedo perché il mio voto, proprio perché di sinistra, sia tipico voto di un ceto che si sente privilegiato. Non di un ceto che detiene il potere (ammesso che ormai ne esista solo uno di potere), ma di un ceto comunque privilegiato rispetto alla maggioranza della popolazione.

 

Mi sento privilegiato non perché non abbia conosciuto la povertà o perché io sia ricco (dato che ricco non sono), ma perché sono cresciuto e sono stato educato in una società liberal-democratica. Anche chi si dice comunista o rivoluzionario è parte di questa società liberal-democratica di cui condivide essenzialmente i valori e i privilegi, anche se non lo ammette. E cioè: la democrazia pluralista, le libertà individuali (i diritti civili), la tutela di tutte le minoranze (linguistiche, politiche, sessuali, religiose…), l’eguaglianza sostanziale uomo-donna, l’a-confessionalità dello stato, il cosmopolitismo…

 

Non mi sentirei affatto a mio agio in una società come quella cinese, per esempio. In questa società sarei un dissidente e rischierei di essere perseguitato. Perché sin dalla mia infanzia ho imparato a dissentire dal potere, a discutere liberamente le opinioni di chiunque, anche dei nostri massimi leader, a scegliere tra media con opinioni divergenti. La democrazia liberale, insomma, è il mio focolare, anche se credevo, da giovane, di essere un sovversivo comunista.

Certo anche nelle nostre società molte cose sono proibite o imposte per spirito paternalista. Per esempio, è proibito consumare legalmente certe droghe, non usare i caschi in motocicletta, denudarsi in pubblico, ecc. Ma queste proibizioni sono senza comune misura con quel che i regimi cinese o russo o iraniano proibiscono o impongono. I miei genitori e nonni, tutti antifascisti, mi hanno raccontato dettagliatamente come si viveva sotto il fascismo; e so come si viveva sotto lo stalinismo in Russia. So che non riuscirei a sopportare l’impossibilità di discutere liberamente in entrambi i regimi. Anche se per molti questo mio bisogno essenziale è come quello di chi rifiuta di bere qualsiasi vino che non sia champagne.

 

Anche nelle dittature ci sono bar o pub o luoghi simili in cui si possono esprimere idee dissidenti. A molti basta questa libertà di parlare tra amici davanti a un bicchiere di birra. Ebbene, questa libertà non mi basta. Voglio godere del diritto di gridare dai tetti quando non sono d’accordo col governo. Sono stato viziato alla libertà di poter dire quel che secondo me è la verità. Se mi si dimostrasse che devo rinunciare alla mia libertà di discussione per il bene dei più poveri e dei diseredati, direi “peggio per i più poveri e diseredati!”

Mi si obietterà che un regime dispotico potrebbe dare a me il diritto di esprimermi a titolo grazioso, ma proibire questo diritto a tutti gli altri. Sarebbe accettabile per me? No, perché la libertà di discutere implica anche la libertà degli altri di entrare nella discussione. Farmi ascoltare implica il fatto che altri possano replicare liberamente a quello che dico.

 

Certo, un regime dispotico potrebbe dare il diritto di esprimersi a una élite di cui io faccio parte, e privare la massa di questo diritto – cosa alquanto vicina alla realtà di certe dittature, nelle quali una certa libertà di critica è riservata a una Nomenklatura e resta confinata al suo interno. Non sarei d’accordo con questa limitazione. Semplicemente perché non vedo per quale ragione bisogni impedire di partecipare alla discussione a certe persone piuttosto che ad altre. Anche se so che non tutti vogliono partecipare alla discussione. A tanti altri non interessa discutere, interessa sapere che cosa credere e che cosa pensare grazie a un’autorità che detti “la verità”. Già nel XVI° secolo Etienne de la Boétie aveva ben visto che l’asservimento può essere volontario. In società fanatizzate non c’è nemmeno bisogno di una repressione del dissenso dall’alto: il dissenso è bloccato dal basso. Chi dissente dalla massa compatta della polis viene emarginato, tacitato, talvolta perseguitato. La condanna a morte di Socrate, decretata democraticamente a maggioranza in Atene, è il paradigma di questa oppressione a opera del popolo, che liberamente scelse di uccidere Socrate. La libertà di poter dire la propria verità per me va assicurata nel doppio senso: questa limitazione non deve venire dall’alto ma nemmeno dal basso. Questo pone il problema, però, di limitare la democrazia, limitare insomma il potere della maggioranza quando essa finisce con l’opprimere qualche minoranza.

La libertà di espressione implica che chiunque desideri discutere possa farlo. Ma non bisogna confondere “chiunque” con “tutti”.  Una cosa è dire “chiunque può sposarsi”, altra cosa è dire “tutti si devono sposare”. Ed è qui che dissento dalle narrazioni egualitarie, in quanto utopiche: l’importante è che chiunque possa partecipare alla libera discussione, ma questo non significa che tutti vogliano parteciparci.

 

6.

 

Non condivido quindi la critica d’obbligo alla società neoliberale, critica che oggi distingue l’intellettuale di sinistra come un distintivo da portare all’occhiello. Innanzitutto perché – come ho detto – le società in cui viviamo non sono solo liberali nel senso di liberiste, raramente una società è una cosa sola. Le società UE di oggi applicano delle istanze liberiste (gli stati non devono favorire le aziende nazionali), socialiste (il welfare state), religiose (varie forme solidariste, come il volontariato), nazionaliste (il patriottismo), istanze libertarie (libertà di religione e di orientamento sessuale), ecc. La società in cui viviamo è anche l’effetto di una lunga storia di critica socialista al liberismo. Abbiamo così visto, dopo la crisi del 2008, che governi che si dicevano liberisti sono di fatto intervenuti massivamente nell’economia, salvando l’intero sistema economico del loro paese. Quando l’Italia fu sulla via della bancarotta nel 2011, essa fu salvata dalla BCE. Insomma, quando tanti criticano la società neoliberale, non si rendono conto che questa società che criticano è anche il prodotto della loro critica.

 

La critica anti-neoliberale è espressione di coloro che, sulla scia di Hegel, vengono oggi chiamati “anime belle”. Nel senso di oggi, l’anima bella è chi non si rende conto di quanto essa stessa sia parte e causa di quell’assetto sociale che lei denuncia. Così, l’anti-neoliberale non si rende conto di quanto il mondo che denuncia è in gran parte il proprio stesso prodotto.

Per esempio, quando critica “l’ideologia della meritocrazia” l’anima bella non si rende conto di quanto il principio di valutare secondo il merito sia proprio il frutto dell’abolizione di quei privilegi che anteponevano al “merito” altri criteri – la classe sociale, la religione di appartenenza, il sesso, la parentela, ecc. – e questa abolizione era parte essenziale del proprio programma emancipativo. Per esempio, l’emancipazione femminile ha significato una grande espansione della meritocrazia, in quanto ha reso possibile a donne meritevoli l’accesso a posizioni di lavoro o di potere che prima erano loro di fatto sbarrate. I critici del neoliberalismo non si rendono conto quanto la loro sia anche un’auto-critica.

 

7.

 

Come intellettuale mi assegno il compito non tanto di criticare l’assetto politico esistente, piuttosto quello di criticare l’argomentazione politica. Quando gli intellettuali hanno cercato di dire alla gente che cosa fare, e la gente ha creduto loro, di solito si sono prodotti disastri. Lo si è ben visto col bolscevismo, il quale non era affatto un partito di operai ma di intellettuali.

Le soluzioni ai problemi storici non vengono date dagli intellettuali ma dalla storia, e gli intellettuali partecipano alla soluzione solo in quanto parte di questa storia. È questo il paradosso: l’intellettuale deve ricostruire una storia di cui egli stesso fa parte, la totalità del suo oggetto lo comprende come parte di questa totalità. Per cui c’è sempre rischio di paradossi russelliani.

 

Insomma, mi penso come un liberal-democratico perché sono me stesso. Si dirà: è invece dovere di ogni intellettuale pensare contro sé stesso. È vero, ma è proprio perché penso contro me stesso che non mi azzardo a voler dimostrare l’eccellenza del mio modo di essere e di vedere i rapporti umani.

In effetti, non credo affatto, come tanti storicisti – hegeliani, marxiani, comtiani, pragmatisti… – che la storia umana sia una marcia verso la libertà o l’eguaglianza. Per la semplice ragione che anche se la storia avesse un senso unico, una direzione fondamentale, non la potremmo conoscere. Non mi pare che la storia abbia un senso generale – a parte quella dello sviluppo tecnologico, che si è accelerato in modo parossistico nell’ultimo secolo e mezzo. Insomma, non credo nel progresso. Il “progresso” è un fatto limitato nello spazio e nel tempo, dipende da che cosa, in ogni epoca, si prenda per fattore positivo che dovrebbe progredire.

 

Per esempio, possiamo vedere la pittura europea dal XIII° al XIX° secolo come storia del progresso della prospettiva e della verosimiglianza, che ha raggiunto altissimi livelli già nel XVII° secolo. Poi, a fine Ottocento, la pittura ha smesso di occuparsi di prospettiva e di verosimiglianza, ha cominciato a deformare le figure o a concentrarsi su cerchietti e quadratini. Si sono quindi imitate forme estetiche primitive, maschere africane, sculture cicladiche… Il criterio del progresso artistico è insomma del tutto cambiato. Si progredisce sempre e solo all’interno di un dato paradigma.

Il mio modello di intellettuale è simile all’idea del cristiano secondo la teologia antica, di un essere umano che è nel mondo ma non è del mondo. Mentre invece, troppo spesso, l’intellettuale è troppo del mondo ma anche fuori del mondo. Molti intellettuali impegnatissimi nel sociale sono infatti semplicemente fuori del mondo, anche nel senso che ignorano molte cose di cui parlano. Seguono schemi concettuali, non capiscono e non vogliono capire la complessa realtà che li circonda.

Ma allora, se non spero di convincere gli altri sul tipo di relazioni umane che preferisco, a cosa serve scrivere, esprimersi?

 

Credo che bisogna pubblicare per fare pubblicità alla propria forma di vita.

Ovvero, l’intellettuale può cercare di rendere convincente la preferibilità del proprio modo di vedere le cose. Porta esempi e prospettive che possano allettare gli altri, e quindi persuaderli. E questo non solo con saggi teorici, ma anche attraverso romanzi, video, poesie, atti pubblici… Chi crea opere non detiene la dimostrazione definitiva dell’eccellenza della propria visione, ma può dare il buon esempio. Non gli basta ragionare bene, deve anche far propaganda al proprio modo di vivere e di vedere le cose. Non basta argomentare per persuadere. Deve rendere appetibile la propria forma di vita, farle réclame. Nel mio caso, pubblicizzare una società liberal-democratica. È l’unica vera arma nelle mani di chi ha studiato e scrive.

 

Note

 

[1] Va detto che la frase è apocrifa, Voltaire non l’ha mai pronunciata, pare. Ma rende bene la sua visione.

[2] Contrariamente a quel che dice una certa propaganda, la povertà assoluta arretra a poco a poco in tutto il mondo. È vero però che i paesi più poveri sono anche quelli più prolifici, quindi oggettivamente nascono più poveri che ricchi. È un paradosso che i demografi conoscono benissimo.

[3] Secondo il Quality of Life Index del 2022 del World Population Review, tra i primi 12 paesi (su 87) per qualità della vita, figurano 10 paesi del Centro e Nord Europa (Svizzera, Danimarca, Paesi Bassi, Finlandia, Islanda, Germania, Austria, Norvegia, Svezia, Estonia), l’Australia e la Nuova Zelanda. Ovviamente si potrà sempre dire che questa classifica è stata fatta privilegiando categorie e criteri nord-europei.

[4] Non abbiamo più società liberiste pure, le società capitaliste – sopratutto europee – hanno integrato forme di socialismo: il welfare state, l’intervento talvolta massiccio dello stato nell’economia (come durante la crisi del Covid), l’istruzione obbligatoria e semi-gratuita per i giovani, in molti paesi il salario minimo, l’assistenza sanitaria pubblica, le pensioni di invalidità, gli assegni familiari, ecc.

[5] Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Le aziende di punta dell’industria di punta oggi, legate all’informazione e a internet.

2 thoughts on “Fare una scelta politica? A cosa serve esprimersi

  1. In altre parole, affermo che le mie preferenze politiche sono infondate. Non hanno fondamento filosofico. Ma mi pare interessante analizzare filosoficamente questa infondatezza. D’altro canto, delle altre idee politiche respingo la loro pretesa di essere fondate. Affermare che tutte le opzioni politiche sono filosoficamente infondate è, a mio avviso, una conquista filosofica.
    Fa piacere trovarlo scritto chiaro e preciso. Sono totalmente d’accordo.
    Grazie per l’articolo.

  2. I neo-liberali hanno questa tranquilla sovrastima di sé perché sono neo-liberali o sono liberali perché hanno questa sovrastima di sé?

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