di Pierluigi Pellini
[E’ uscito in questi giorni, nella collana “I Semi – Saggi” dell’editore Siké (Leonforte, Enna), Tre grandi critici, un libretto in cui Pierluigi Pellini raccoglie alcuni scritti su Luigi Blasucci, Remo Ceserani e Francesco Orlando. Per gentile concessione dell’editore, ne proponiamo in anteprima la Premessa e alcune pagine, scritte nel 2020, su Francesco Orlando].
Premessa
Me ne sono reso conto di recente, con stupore e tristezza: le figure intellettuali che hanno contato davvero nella mia formazione italiana sono tutte scomparse. Mi rimane soltanto un anti-maestro francese, Philippe Hamon: per me non ha contato meno, ma è venuto dopo, e con la sua ironia un po’ distante ha soprattutto sgretolato in me qualche facile certezza.
Negli anni scorsi, mi è capitato di scrivere brevi testi in onore, o in ricordo, dei tre critici letterari italiani che mi hanno insegnato più cose: Luigi Blasucci, Remo Ceserani, Francesco Orlando – in un ordine alfabetico, che è anche l’ordine anagrafico, invertito però dalla cronologia della loro scomparsa (rispettivamente: 2021, 2016, 2010). Raccolgo in questo libretto, con poche modifiche di dettaglio, questi testi d’occasione.
Il primo, che è anche il più recente, pur nascendo come omaggio a Blasucci, prova a ricostruire per frammenti e ricordi (ovviamente molto parziali e forse troppo personali – spero non troppo narcisistici) l’ambiente in cui si è svolta la mia formazione: la Scuola Normale e l’Università di Pisa, fra la fine degli anni Ottanta del Novecento e l’inizio del decennio successivo. Ma anche gli altri scritti qui riuniti, ciascuno a suo modo, provano a misurare la distanza – nei metodi critici, nell’atmosfera culturale, e magari anche nell’antropologia accademica, se così posso dire – fra quei tempi relativamente vicini (ma nella sostanza per molti versi remoti) e i nostri. Nella convinzione che le scritture d’occasione e le schegge autobiografiche possano a volte caricarsi di un’intensità capace di parlare a tutti. Questa, almeno, l’ambizione – o la velleità.
C’è, in questi brevi pezzi, qualche riflessione sull’insegnamento scolastico (con, e magari contro, Remo Ceserani), sull’arte del commento (contro, e in realtà con, Luigi Blasucci), sui limiti dell’interpretazione (con, e magari contro, Francesco Orlando). Sono appunti sparsi, niente più. Anche per questo ho relegato in appendice l’unico testo nato con una qualche pretesa “scientifica” (ma a sua volta molto personale); e ho evitato il titolo più ovvio: Tre Maestri. Dei tre, solo uno ha voluto fortemente essere Maestro, senza virgolette ironiche: ovviamente Orlando; proprio per questo i nostri rapporti si sono presto raffreddati. Oggettivamente, però, e in modi molto diversi, tutti e tre sono stati grandi maestri (preferibilmente con la minuscola): da un punto di vista certamente molto limitato, probabilmente a tratti idiosincratico, e privo in ogni caso di pretese sistematiche, provo in queste pagine a dire che cosa mi hanno insegnato, e forse anche perché ci sono ancora oggi indispensabili.
Dieci anni senza Francesco Orlando
Nei dieci anni che ci separano dalla morte di Francesco Orlando (22 giugno 2010), il lavoro appassionato degli allievi ci ha regalato un inedito, costruito a mosaico con saggi pubblicati in vita e registrazioni dei corsi universitari (Il soprannaturale letterario, Einaudi, Torino, 2017), e più di recente ha tentato un ipotetico sviluppo degli abbozzi suggestivi di una teoria dei temi letterari (Valentina Sturli, Figure dell’invenzione, Quodlibet, Macerata, 2020); almeno due libri importanti hanno riconosciuto all’autore di Per una teoria freudiana della letteratura lo statuto che merita, quello di un classico della critica: la monografia di Valentino Baldi (Il sole e la morte, ancora Quodlibet, 2015) e le Sei lezioni per Francesco Orlando (Pacini, Pisa, 2014). L’hanno detto in molti, e conviene ripeterlo: a chi è approdato all’università quando ormai era conclamata la cosiddetta “crisi della critica”, Orlando ha insegnato che fra il grigiore della filologia neopositivista e le approssimazioni disoneste della scrittura saggistica en artiste, o della più fantasiosa Theory postmoderna, tertium datur; e che lo studio delle letterature nazionali è un provinciale anacronismo, perché i classici scritti nelle diverse lingue occidentali devono dialogare sulla pagina di ogni critico serio, come sugli scaffali della sua leggendaria biblioteca. È un debito collettivo: come ha scritto Guido Mazzoni nelle Sei lezioni, non gliene saremo mai abbastanza grati.
Tutti gli studenti che hanno avuto il privilegio di seguirli, ricordano con emozione i suoi corsi universitari. Eppure, se mi capita di ripeterne intere frasi, vertiginosamente perfette nella loro stupefacente ipotassi orale, sento Francesco allontanarsi verso il secolo cui interamente appartiene: il Novecento. La sua proposta teorica, oggi, può tornarci utile solo per frammenti: e lui non ammetteva adesioni parziali o eclettiche, né deroghe ai suoi postulati più radicali, come quelli che identificano valore estetico e coerenza del testo, o letterarietà e tasso di figuralità. I pochi che non irridono, derubricandole a cattiva filosofia, le domande cui non sappiamo rispondere (perché un testo è bello? che cos’è la letteratura?) sono oggi inclini a ritenere la complessità dei capolavori più spesso centrifuga e contraddittoria che coerente; e il criterio della densità figurale, anche se opportunamente riformulato, negli appunti studiati da Sturli, come scarto rispetto a un’«alternativa virtualmente percepita», sempre meno sembra in grado di circoscrivere storicamente lo spazio della comunicazione letteraria. Soprattutto, appare inattuale in Orlando un habitus mentale, mutuato dalla tradizione idealista (e forse anche da Marx), prima che dalla linguistica strutturale e da Lévi-Strauss: ogni suo ragionamento, ogni suo libro, si costruisce per antitesi binarie – la formazione di compromesso essendone le sintesi a-dialettica. Due e solo due sono sempre le istanze che si fronteggiano nella psicomachia che il testo letterario, ai suoi occhi, inscena.
Paradossalmente, proprio Illuminismo e retorica freudiana, il libro che propone nel 1982 (e poi, con l’aggiunta del barocco nel titolo, nel 1997) un modello complesso di frazione simbolica a tre livelli, in cui repressione e represso possono scambiarsi le parti, mostrando come la formazione di compromesso possa essere una manifestazione semiotica in grado di dar voce simultanea a più di due istanze inconciliabili, segna anche la promozione a modello teorico di Ignacio Matte Blanco, che progressivamente sostituisce non solo Lacan, ma anche lo stesso Freud. Anziché aprire la teoria orlandiana – non sarebbe stato impossibile, tutt’altro – al dialogo con gli esiti migliori della coeva riflessione post-strutturalista, Illuminismo l’ha così ingabbiata nell’opposizione fra logica simmetrica e asimmetrica; anziché accogliere una formazione di compromesso polifonica, fra tre o più elementi in tensione, l’ha ricondotta al canto rigidamente amebeo della bi-logica.
Non stupisce perciò che Orlando, sempre più spesso negli ultimi anni di vita, abbia eletto Bachtin a bersaglio polemico prediletto. Né che i suoi saggi più belli e convincenti abbiano illuminato testi nati in epoche di conflitto poetico e di transizione storica: il Grand Siècle francese, fra barocco, classicismo e avvisaglie illuministiche, nella Phèdre e nel Misanthrope; l’Ottocento romantico e simbolista, cui sono dedicati gli splendidi articoli su Baudelaire e Mallarmé, confluiti nel 1983 ne Le costanti e le varianti, e il libro su Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici.
Un grandissimo critico, dunque. E un teorico inattuale (ma non meno grande). Insistere su questo dualismo – in larga misura innegabile – non sarebbe però soltanto ingeneroso. Sarebbe sbagliato. Perché l’antitesi, al solito, polarizza la complessità del reale. Perché fra ermeneutica e teoria si stabilisce, fin dagli anni Sessanta, un circolo virtuoso: la teoria freudiana risponde agli interrogativi suscitati dall’analisi dei testi. Soprattutto, perché non c’è critica degna di questo nome che possa fare a meno di quella domanda teorica elementare e decisiva che risuona, implicita o esplicita, in ogni pagina di Orlando: in che rapporto, il testo letterario, con il mondo – con la storia collettiva e con la psiche umana? Nel fioco dibattito odierno, non è in gioco la prevalenza di questa o quella idea della letteratura, ma la legittimità stessa della teoria letteraria. Per questo l’eredità di Orlando è più che mai preziosa. Per questo i critici migliori, anche se non hanno mai seguito le sue lezioni, non possono non dirsi suoi allievi: e difenderlo sempre e comunque dalla cuistrerie, dal feroce buon senso del comune avversario.
Nel suo libro dedicato alla figura dello straccivendolo, fra microstoria e immaginario (Les Chiffonniers de Paris, Gallimard, 2017), Antoine Compagnon dedica alcune pagine velenose a Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, il capolavoro di Orlando uscito nel 1993 e riportato in libreria da Einaudi nel 2015, per le cure di Luciano Pellegrini, dopo essere stato tradotto in inglese e francese (Yale UP, 2006; Classiques Garnier, 2010). Organizzando in dodici categorie un corpus enciclopedico di brani letterari che rappresentano Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (così il sottotitolo), Orlando mostra come il fascino esercitato sulla letteratura occidentale dalle immagini di oggetti non funzionali s’intensifichi in misura esponenziale dopo la svolta storica di inizio Ottocento, in coincidenza con la rivoluzione industriale. Se la ricchezza delle società in cui domina il modo di produzione capitalistico si presenta, con le parole di Marx, come una «immane raccolta di merci», la letteratura di quelle stesse società assomiglia, in uno specchio rovesciato e deformante, a una «immane raccolta di antimerci». Se l’arte non è rispecchiamento diretto di una struttura economica (come voleva Lukács), è pur sempre legata alla storia da un rapporto indiretto, secondo una logica del rovesciamento che dà voce a un ritorno del represso. Gli oggetti desueti, sublimati in letteratura, contestano l’imperativo funzionale, l’efficienza razionale e produttiva che domina le società moderne.
Ora, l’obiezione di Compagnon, storicamente esatta e teoricamente pretestuosa (come sempre le obiezioni dettate da cuistrerie), è questa: negli anni in cui i vari Balzac e Dickens (e Baudelaire) offrivano per la prima volta cittadinanza letteraria, in descrizioni sottratte all’ipoteca del comico, al bric-à-brac confus della metropoli moderna, nella realtà l’oggetto desueto non esisteva. Tutto, o quasi, si riciclava: il lavoro degli chiffonniers restituiva agli scarti una seconda vita non meno funzionale della prima. Il tramonto di quest’economia circolare arcaica, cui oggi guardano con nostalgia i profeti di una rivoluzione ecologica, ha una data precisa: 1884. In quell’anno, il prefetto Eugène Poubelle organizza a Parigi una (quasi) moderna raccolta dei rifiuti, guadagnandosi una poco lusinghiera immortalità: poubelle, da allora, è “pattumiera”. Né il mito letterario dello straccivendolo né le antimerci di Orlando si presterebbero perciò a un’ermeneutica freudiana.
Compagnon legge Gli oggetti desueti con gli strumenti messi a punto in quella brillante reductio ad absurdum della stagione (post-)strutturalista che è Il demone della teoria (1998), dove portando alle estreme conseguenze alcune tesi del suo maestro, Roland Barthes, ha gioco facile nel mostrarne l’aberrante stravaganza agli occhi del «senso comune». Di questo parricidio perfetto, per ironia della sorte, Orlando coglieva l’aspetto liberatorio, capace di dissolvere (credeva) i fumi autoreferenziali della decostruzione; trent’anni prima, del resto, non aveva esitato a schierarsi con Raymond Picard, contro Barthes, nella celebre querelle su Racine e la Nouvelle Critique. Dimenticando che la reazione degli eruditi sorbonardi, all’antica o à la page, come quella dei filologi pisani che gli hanno attossicato la vita accademica, non ha mai per bersaglio l’inesattezza del dato storico, o l’errore logico e gli estremismi capziosi dell’elaborazione concettuale, ma la legittimità stessa della teoria, di ogni tentativo di astrarre un significato non tautologico dalla lettura dei testi.
Nel caso specifico, la tesi di fondo degli Oggetti desueti regge, eccome. Gli imperativi funzionali della razionalità borghese non hanno aspettato gli editti di Poubelle per screditare con disprezzo, e perciò votare a una redenzione artistica, tutte le cose che non risultano immediatamente utili; e davvero la grande letteratura riscatta spesso (non sempre) ciò che l’ideologia dominante inibisce, o respinge ai margini del lecito, del dicibile, del presentabile: la poesia degli odori, per fare un solo esempio, nasce con Baudelaire e Zola precisamente quando l’igienismo positivista induce un altro prefetto, Haussmann, a bandire i miasmi proletari da Parigi. La letteratura è conoscenza mediata (dalla lingua e dalla forma): conoscenza del mondo, della storia, della psiche degli uomini. Nella cultura italiana del secondo Novecento, nessuno meglio di Francesco Orlando lo ha saputo mostrare.