di Vanni Santoni
[Questo articolo è uscito originariamente su “Linus”, che ringraziamo].
È ormai ben noto al lettore avveduto come il “pallino del romanzo”, negli ultimi anni, si sia spostato dagli Stati Uniti, evidenti dominatori di fine secolo – si pensi solo al fatto che tra il 1996 e il 1997 uscivano Mason & Dixon di Thomas Pynchon, Underworld di Don DeLillo, Pastorale Americana di Philip Roth e Infinite Jest di David Foster Wallace – all’Europa orientale, o meglio centro-orientale, dato che la Polonia è pensata come un “paese dell’est” giusto da chi pecca di eccesso d’occidentecentricità. Passare dalla Mitteleuropa è del resto necessario per includere Olga Tokarczuk, Nobel 2018, al gruppo del “fronte d’onda del romanzo contemporaneo” formato, assieme a lei, dal romeno Mircea Cărtărescu, dal bulgaro Georgi Gospodinov e dall’ungherese László Krasznahorkai, ma anche per permetterci un passaggio in Germania e usare come “ponte”, per quanto sia autore di tutt’altri temi e modi, W.G. Sebald, oggi a buon diritto considerato il maggior scrittore dell’ultimo trentennio – e il primo a comandare un ritorno in Europa di questo sfuggente “pallino del romanzo”. Volendo, mentre si passa dal centro, si può includere un altro grande irregolare come il ceko Patrick Ourednik, autore dell’inclassificabile, e tuttavia magistrale, Europeana. Ma lasciamo un attimo da parte Sebald e Ourednik per concentrarci sul quartetto dei “nuovi metafisici”: Tokarczuk, Cărtărescu, Gospodinov e Krasznahorkai. Chi, oggi, cerca il nuovo e il potente nell’arte del romanzo, non può che guardare in quella direzione, e il perché di questo shift non è chiarissimo (ipotesi interessante è quella della traduttrice e direttrice editoriale Martina Testa, tra le massime conoscitrici della letteratura americana contemporanea, che durante un panel del festival “Firenze RiVista” ha ipotizzato che la perdita d’egemonia della narrativa USA sia da ricondursi al fatto che ormai tutti gli autori vengono dai master in scrittura creativa delle università, dove le tesi sono i romanzi stessi, un successo nella tesi corrisponde a farsi prendere da una grossa agenzia, e il modo più sicuro perché ciò accada è fare qualcosa che rassomigli molto a qualcos’altro che ha già funzionato), così come non è scontato tracciare una genealogia – capire da dove vengono questi autori.
Si potrà subito apporre a un tale ragionamento ogni obiezione, asserire che quella polacca, quella romena, quella bulgara e quella ungherese sono tradizioni letterarie diverse, scritte in lingue lontanissime tra loro, e che accomunare questi autori è un gesto di appiattimento prospettico, ma sarebbe, io credo, un errore, ancorché fondato su una verità. Questi autori agiscono in contemporanea sullo scacchiere letterario mondiale, hanno temi affini quando non sovrapponibili, tengono alta la bandiera della tecnica scrittoria assieme a quella dell’immaginario e della mitopiesi, e insieme hanno riportato in un’area geografica molto più piccola degli Stati Uniti, ancorché più diversificata, il pallino, anzi la sfera segreta e scintillante e radioattiva, il demon core del romanzo. Anticipati, forse, da un’altra ungherese: una traccia della supremazia a venire può essere riscontrata nell’opera di Ágota Kristóf, per quanto l’autrice della Trilogia della città di K. scrivesse in francese e non nella propria lingua madre.
Attenzione allora a quel titolo. A quella lettera. Lì c’è l’indizio. Per parlare degli autori di cui sopra, c’è chi ha tirato in ballo Borges, e ci sta (soprattutto per Gospodinov, il più metaletterario del gruppo), ma in fondo è una delle tante influenze, come potrebbe essere quella di Pynchon, che pure si riscontra in tutti (ma soprattutto in Cărtărescu). Influenze, non matrici. C’è stato chi è ricorso alla categoria del realismo magico, che oggi tende per lo più a sovrapporsi al suo massimo esponente, Márquez, ma anche qui l’etichetta mostra un bel po’ di corda: di certo è un’influenza, in alcuni casi anche piuttosto evidente (Nella quiete del tempo di Olga Tokarczuk è un romanzo che presenta molte affinità con Cent’anni di solitudine), ma farne matrice apparirebbe forzato. Scartiamo per gli stessi motivi anche Beckett (qua il più vicino è il “maestro dell’apocalisse” Krasznahorkai), e torniamo all’indizio che ci fornisce Kristóf, ben mascherato in virtù dell’iniziale dell’autrice stessa. Quella K… C’è chi ha giocato al medesimo gioco, in modo più smaccato e meno efficace, come J.M. Coetzee, che con La vita e il tempo di Michael K., evocava in modo esplicito… Chi? Non staremo a fare troppo i misteriosi, considerata la copertina del numero di “Linus” che tenete in mano. La vera matrice, la radice primaria di questa nuova letteratura metafisica capace d’imporsi con tanta forza sulla scena, è K.: non c’è neanche bisogno di esplicitare oltre, visto quanto lo stesso Kafka ha usato la sola iniziale per indicare i protagonisti dei suoi romanzi e racconti.
Vuole la vulgata – ma in alcuni casi le cose vanno proprio così – che più uno scrittore è influente, più sarà grande l’incomprensione che subirà, e conseguentemente tardiva la sua influenza. Ora, sarebbe sciocco affermare che l’influenza di Kafka arrivi solo adesso, o solo su questi autori – il suo lascito è vastissimo, anche in quel Nordamerica che finora teneva il demon core del romanzo, e lo stesso Borges gli deve molto: si tratta pur sempre del più grande scrittore del Novecento –, ma non lo è dire che solo oggi, a un secolo esatto di distanza, Kafka trova i suoi veri eredi, facendosi appunto da influenza (per tanti) a matrice (per alcuni). Anzi, dopo la sbornia di realismo dell’ultimo secolo, dalla quale siamo a malapena usciti oggi, notarlo ha ancora molto senso.
Prendiamo allora questo demon core del romanzo contemporaneo – a chi non conoscesse ancora gli autori e volesse mettersi in pari, consigliamo, per cominciare, il libro più rappresentativo per ogni autore, e quindi Abbacinante per Cărtărescu, Fisica della malinconia per Gospodinov, I libri di Jacob per Tokarczuk e Satantango per Krasznahorkai –: perché questi autori trovano la loro radice più vera in Kafka? C’è la commistione tra i generi; c’è l’abbandono del realismo senza però cadere nelle facili allegorie o nel pieno fantastico; c’è una ricerca esistenziale che si scontra con l’ineffabile; c’è la riapertura alla metafisica; c’è la necessità di confrontarsi col fatto che nulla, in fondo, è reale.
Ci viene allora in aiuto Roberto Calasso che a Kafka ha dedicato uno dei suoi libri, intitolato inevitabilmente K.: “Quel che certamente non è accaduto,” scrive C., è che “il religioso o il sacro o il divino siano stati sgretolati, dissolti, vanificati da un agente esterno, dalla luce dei Lumi. Ne sarebbe risultato un mondo fatto di funerali laici, nel loro tremendo squallore. È accaduto invece che il religioso o il sacro o il divino, per un oscuro processo di osmosi, sono stati assorbiti e occultati in un qualcosa di alieno, che non ha più bisogno di nominarli perché è autosufficiente.”
Con Kafka un fenomeno nuovo invade quindi la scena: la commistione. E non solo tra generi (pur essendoci anch’essa: collocare Kafka è sempre stato un rompicapo per gli amanti delle tassonomie): non c’è angolo sordido che non si lasci trattare come metafisica. E non c’è metafisica che non si lasci trattare come un angolo sordido. Se a qualcuno, di fronte a simili affermazioni, sembrerà di essere già dentro a una pagina di Abbacinante (o di Solenoide) di Cărtărescu, non gli diremo che si sbaglia.
Ma non c’è solo questo. Diversi critici hanno notato come un territorio privilegiato delle storie di Cărtărescu, Gospodinov, Krasznahorkai e Tokarckzuk (e non solo loro: si pensi anche ad altri grandi contemporanei come Volodine o Saunders, o ancora al recente vincitore del Booker Prize Karunatilaka) è il Bardo, ovvero, per i tibetani, lo spazio interstiziale tra la vita e la morte in cui le anime attendono il loro destino.
“Il processo e Il castello”, ci spiega Calasso, “avvengono all’interno di una stessa vita psichica. Dopo l’esecuzione della condanna, Josef K. riappare sotto il nome K. e si allontana dalla grande città. Il castello è il Bardo di Josef K.”, e forse lo è anche l’America di America, così come potrebbe essere l’approdo successivo di quell’anima.
Di che cosa parlano le storie di Kafka, si chiede Calasso, e noi con lui. Sono delirî? Sogni? Visioni? Sono allegorie? Sono simboli? Sono cose che succedono ogni giorno? Non sono, in fondo, niente? È un mistero che non bisogna cercare di dissipare, se si vuole provare a illuminarlo. Esso non chiede di essere spiegato: è nella sua natura offrire risposte (più o meno vaghe, come un oracolo), ma anche causare ulteriori domande. È qui che Kafka si mostra diverso da ogni altro autore: il suo corpus, non a caso dominato da tre romanzi sublimi eppure tutti e tre incompiuti, funziona come un mito. Non sente, perché non può sentire, la necessità di spiegarsi, e non trova, perché non può trovare, un compimento, un termine. Potrebbe prolungarsi all’infinito, se ce ne fosse bisogno. Ci sono autori che hanno creato mondi e anche mitologie artificiali, ma solo Kafka ha creato una mitologia allo stesso modo in cui lo hanno fatto, e lo fanno, le civiltà. Per questo la sua influenza è così vasta, e per questo siamo solo all’inizio del confronto con la sua eredità.
Inoltre, Kafka ci parla di un mondo “precedente a ogni separazione e denominazione”. Non è un mondo sacro o divino, né un mondo abbandonato dal sacro o dal divino. È un mondo che deve ancora riconoscerli, distinguerli dal resto. O che non sa più riconoscerli e distinguerli. C’è una sola compagine, che è solo potenza. Il bene nella sua pienezza, ma anche il male nella sua pienezza vi sono compenetrati. “L’oggetto di cui Kafka scrive è la massa della potenza, ancora non dissociata, sceverata nei suoi elementi”: praticamente un’indicazione di poetica e di metodo per chi scrive, e vuole farlo con ambizioni d’efficacia, dopo l’ennesima “fine della storia” e l’ennesima “morte del romanzo”.
In tutta onestà le classifiche primo, secondo, terzo le trovo piuttosto adolescenziali.
Gli Stati Uniti sono semplicemente in declino e per sapere perché l’est Europa stia diventando il nuovo Heartland basta accendere la tv.
Per il resto voglia di leggere il quartetto menzionato. Grazie di questo