di Linnio Accorroni

 

Vocali, rubrica a cura di Linnio Accorroni

 

Caro M.,

 

Che hai fatto dei tuoi fratelli?, libro di Claude Arnaud uscito per Bompiani nel 2023, non è solo uno struggente memoir sulla Francia a cavallo dei formidabili ’60 e ’70 del secolo scorso. C’è in effetti tanto altro, in queste pagine, che paiono rispondere all’appello di Breton, che credeva in una sola forma possibile di Bellezza, quella convulsiva. Così, questo libro è anche una rivisitazione aggiornata del Crollo di Casa Arnaud, annichilita dalle storie di politica, follia, religione, sesso e droghe in cui i tre figli si immolano e dalla malattia della madre, un potentissimo J’accuse contro tutte le istituzioni e tutte le gabbie – prima fra tutti, quella familiare-, un C’eravamo tanto amati- e anche un po’ armati -, una Spoon River che schiva elegantemente l’elegia e il patetismo, un autobiografico Bildungsroman che, attraverso le vicende dell’io narrante, scandaglia ’68 e dintorni. Ma proprio le pagine finali di questa collettiva ed individuale Anatomia di una caduta sono le più belle perché restituiscono il dissonante mood di un’epoca, attraverso la descrizione  della   incandescente ‘scena accademica’ parigina, dominata dalla personalità di intellettuali, il cui crepuscolo filosofico è ancora lontano, quali Deleuze, Guattari, Foucault, Sartre. E soprattutto quando il mesmerico io narrante di questo romanzo generazionale, questa specie di Rimbaud contemporaneo insonne e curiosissimo, ricorda le lezioni tenute dai due supremi e venerati maestri della French Theory: Jacques Lacan e Roland Barthes. Due discorsi sul metodo, due lezioni di stile, due modelli esistenziali assolutamente agli antipodi. Si comincia con Lacan l’oscuro. Il pubblico che assiste agli effervescenti seminari (qui mille virgolette) del guru della psicanalisi  è, già di per sé, uno spettacolo nello spettacolo: c’è il povero dandy che, dopo essere stato investito da un’auto, vive con i soldi dell’assicurazione e sfoggia un bastone, la cui forma sbilenca evoca i sigari che il Maestro fumava sans cesse durante le sue performances accademiche; c’è Daphne, il travestito altissimo che « con la dignità di una giraffa » squaderna dall’alto in basso, con una punta di visibile disprezzo, « i soggetti più astratti »; c’è il coro adorante e petulante  di scrittori professori psicanalisti, che giungono  in clamoroso anticipo per  « posare il loro registratore accanto al Maestro, per avere l’opportunità di mandargli un segno, per raccogliere uno sguardo in cambio ». Così, curiosamente, ma non tanto poi, quell’aula templare diventa il ritrovo ambitissimo di «tutti i marginali e gli oziosi di Parigi». L’entrata dello psicanalista è degna di un Faraone: HM Jacques Lacan incede con la sua giacca a quadri variopinta, assistito da una « fedele schiava ispanica » che, rispettando l’inviolabile protocollo, gli consegna devotamente spugna e gessetto. Con esso, la Pizia-Lacan traccerà sulla lavagna «i suoi nodi borromei», prima di concionare, da par suo, su Reale, Simbolico, Immaginario. La cerimonia incantatoria, tumulata in un religioso silenzio, è «scandita da colpi di tosse repressa e da muggiti laudatori la cui melopea evoca un antico rito bizantino…un’immensa poesia dell’inconscio che cerca di farsi strada tra i dolori del parto…». Dalla liturgica Mise-en-scène lacaniana, il giovane Claude ricava però solo un senso di malcelato ribrezzo e palese disgusto: soprattutto, « per la cortigianeria e l’oscurità » che dominano questi seminari (qui raddoppiare virgolette!), la cui plumbea ritualità evoca inaccessibili Luoghi del Potere, quali il Vaticano o Versailles, più che una facoltà universitaria, come era la facoltà di diritto del Panthéon, popolata dalle vestali adoranti che ascoltano ipnotizzate il dispiegarsi dell’oscuro Verbo lacaniano. Ma Ars Longa etc…; il giovane Claude sa che  «non mi basterebbero tre vite per comprendere tutto quello che si dice lì dentro». Exit Lacan, Intrat Barthes. Anche qui l’atmosfera che impregna le lezioni dell’autore di Miti d’oggi al College de France è attraversata – noblesse oblige –  da un palpabile snobismo. Anche qui si assiste, prima della lezione di Barthes (siamo dalle parti del College de France, in cui il semiologo francese può sfuggire alla morsa dei suoi ‘favoriti’ che spadroneggiavano all’École pratique des hautes études) a feroci combattimenti tra i possessori di mini-registratori che si accalcano nelle prime file. Visto l’enorme afflusso di persone, vengono aperte altre sale circostanti, dotate di altoparlanti. Ma l’atmosfera pare meno rigida e cristallizzata, in un certo senso più umana ed affabile, rispetto a quella che dominava la funzione lacaniana. Il ductus docendi di Barthes è agli antipodi della bizantina incomprensibile melopea sfoggiata dallo psicanalista. La voce è calda, i gesti sono placati ed ovattati, la carnagione pallida: « è l’immagine stessa dell’abbondanza e dell’umanità … Il suo gozzo può tradire la borghesia provinciale, ma evoca prima di tutto la dispensa naturale del pellicano, piena di cose buone per i suoi discendenti ». Barthes incanta e seduce con le sue formulazioni ‘sinuose’, ma implacabili, l’eleganza ‘congenita’, ma senza affettazione, la fluidità ‘ammaliante’ dei suoi ragionamenti, come se tutto fosse già pronto per la stampa, senza la minima cancellatura o ripensamento, attingendo a « quel tatto del nulla che è il fascino del suo discorso » per dirla con Henri de Régnier di Mallarmè. Il giovane Claude prova un sentimento di autentica riconoscenza davanti alle lezioni luminose che provengono dalla figura poco appariscente di quest’uomo abitudinario, la cui età avanzata è sottolineata dalle sue giacche di tweed e dai suoi maglioni dolcevita anni sessanta. Un buon borghese lontano anni luce dal narcisismo luciferino di Lacan. Barthes come un tardo, impacciato epigono di Montaigne, che si muove dentro una sua biblioteca ideale, disdegnoso dei riti di un Novecento, ancora immaturo e confuso. La forza dei seminari di Barthes sta nel fatto che «questo uomo poco mascolino, ancor meno femminile, che non deve essere stato molto richiesto e che, rassegnandosi, ha finito per non desiderare niente» si affida interamente ai suoi uditori, come se appartenesse personalmente a ciascuno di loro, come se l’interpretazione del testo sembrasse aver in lui sostituito completamente, e senza troppo soffrire, la vita. Tanto che, paradossalmente, in un curioso gioco del rovescio, è proprio Claude, questo allievo immaturo – in tutti i sensi -, che vorrebbe assumere un ruolo protettivo nei confronti del Maestro, poiché lo sente talmente ‘armato nella mente’, quanto inerme nei confronti della vita. E questi è proprio quel Barthes che nei Frammenti di un discorso amoroso compie un vertiginoso excursus sulle forme e i modi del ‘delirio amoroso’ di cui possiede una conoscenza vastissima, ma esclusivamente letteraria, tanto che poi, a lezione terminata, « entra ogni sera  in lenzuola fredde a due passi dalla stanza in cui lo aspetta sua madre ». Barthes è dunque l’uomo nato per descrivere, in maniera incomparabile, ciò che non gli accadrà mai. Non per caso, una sua ricorsiva citazione era una frase di Brecht che gli poteva valere come stemma araldico: «Pensava in altre teste, e, nella sua, altri pensavano come lui». Un giorno, l’ istinto salvifico dello studente verso colui che  si era definito con la triade : ‘folle non posso, sano non degno, nevrotico sono’, lo induce a seguire il Maestro per scambiare qualche parola. Raccoglie e subito nasconde, con il cuore in gola, un foglio caduto inavvertitamente dalla cartellina di Barthes. Torna a casa, convinto di aver trafugato chissà quale prezioso tesoro. In realtà, sul verso, Barthes ha annotato semplicemente gli orari dei treni da Parigi a Bayonne- ultima fermata prima della sua casa ad Urt, nei paesi baschi. Sul retro, in inchiostro blu: «il testo volgare ed il testo borghese mi piacciono, il testo imbecille mi affascina».

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