di Alberto Manconi e Dario Salvetti
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
Introduzione di Alberto Manconi
Il testo pubblicato in seguito è la trascrizione dell’intervento di Dario Salvetti (Collettivo di Fabbrica ex-GKN) nel corso del seminario «Delocalizzazioni e transizione ecologica: il caso GKN», tenutosi Lunedì 26 Febbraio alla Scuola Superiore Sant’Anna, e visionabile per intero qui: https://www.youtube.com/watch?v=q9r1erym83g&t=2038s
La lotta nello stabilimento ex-GKN di Campi Bisenzio continua, dopo quasi tre anni passati dal primo tentativo di licenziamento di tutti i lavoratori e dal loro ingresso nella fabbrica in presidio permanente. Questa vicenda compone molti piani: una estenuante vertenza sindacale, una impressionante mobilitazione di solidarietà della piana fiorentina, una convergenza eco-sociale che ha visto i principali movimenti ecologisti del paese e della regione scendere in piazza al fianco di questi operai. E, infine, uno sforzo congiunto di operai e solidali del mondo della ricerca e della cultura per riportare nello stabilimento una produzione realmente ecologica che ha concepito ben due piani industriali per lavorazioni necessarie e innovative nel settore della mobilità e dell’energia. Un’esperienza dal basso di transizione giusta, che ha attirato le attenzioni ed il sostegno materiale di una fetta significativa del mondo sindacale ed ecologista europeo.
Di fronte a questo complesso esperimento, in un’Italia in continua deindustrializzazione, gli attacchi della proprietà sono sempre più feroci : dopo l’ennesima sconfitta in tribunale per licenziamenti illegittimi a fine 2023, è infatti tornata a non pagare i salari dovuti ai lavoratori. Non solo: in seguito alla data dell’intervento qua riportato, la proprietà ha proposto agli operai un «congedo volontario» dalla posizione lavorativa in cambio di appena 5mila euro lordi. Cioè, significativamente meno di quanto già dovuto ai lavoratori secondo i contratti e le sentenze non rispettate.
Si tratta dunque di un’ennesima prova del ricatto imposto a operai colpevoli di non essersi arresi alla perdita del posto di lavoro e all’abbandono dello stabilimento alla speculazione immobiliare, in un’area industriale tra le più colpite dalla cementificazione e, recentemente, dalla terribile alluvione del Novembre 2023.
Di fronte a un ricatto di tale portata e a una prospettiva di reale transizione ecologica su settori strategici, le parole delle istituzioni nazionali e locali continuano a oscillare tra il timido conforto e la complice indifferenza. Ma le parole non sono più sufficienti, è necessario un intervento pubblico concreto: in particolare, la Regione Toscana è ampiamente in grado di attuare le misure necessarie per rilevare lo stabilimento. Misure rivendicate dagli operai e che seguono ragioni specifiche e storiche legate al contesto territoriale, come evidenziato nell’intervento qui riportato.
Intanto, la mobilitazione a sostegno della reindustrializzazione e per l’intervento pubblico diventa cruciale e generale. Tra i quotidiani momenti di dibattito e lotta organizzati dal Collettivo di Fabbrica, il Festival della Letteratura Working Class che avrà luogo allo stabilimento di Campi Bisenzio dal 5 al 7 Aprile sarà un momento di passaggio decisivo.
«Fino a che ce ne sarà»!
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Trascrizione intervento Dario Salvetti (Collettivo di Fabbrica GKN)
Seminario «Delocalizzazioni e transizione ecologica: il caso GKN»
Scuola Superiore Sant’Anna
Pisa, 26.02.2024
Salvetti: Grazie a tutte e tutti per questa occasione; per questa opportunità per noi preziosissima. Chiaramente non è mai facile tenere in equilibrio il racconto di un caso specifico – GKN – e le considerazioni generali che pure attengono a quel caso specifico. Vorrei comunque partire, visto quello che è successo venerdì, dando la solidarietà alle studentesse e agli studenti che sono stati manganellati qua a Pisa. Anche a Firenze in realtà e anche a Catania. La riflessione che facevamo è questa: il manganello è spesso il terminale periferico della paura. Quello più evidente. Però, di solito, quando arriva ad alzarsi è perché dietro ha un iceberg di conformismo. È il terminale periferico di un Paese che non sa più dire di no. Non sa più dire di no perché affonda in 30 anni di bassi salari, affonda nel conformismo ideologico, affonda nell’autocensura. E spesso non è capace di dire di no per paura, ma anche perché non riesce più a immaginare un’alternativa. La paura si compone del ricatto e della pressione ideologica verso il conformismo, verso l’idea che se porti avanti qualcosa di nuovo sei un po’ naïf. Sei un po’ strano… perché nulla cambierà e l’unica cosa che si può fare è gestire l’esistente. La storia delle lavoratrici e dei lavoratori dell’automotive è una storia che contiene questo. Perché contro le lavoratrici e i lavoratori dell’automotive in questo Paese si sono abbattute le sconfitte di ricatto: quelle dell’80-81 o dei famosi referendum con la pistola sul tavolo, portati avanti dalla direzione Fiat sotto Marchionne, che ti dicevano «rinuncia ai tuoi diritti se vuoi il lavoro», e poi si è visto com’è andata. Com’è andato Grugliasco, che era uno di quelli stabilimenti dove ci fu quel referendum. Grugliasco oggi è chiusa, ed è un edificio che puoi trovare in vendita da un’agenzia immobiliare che si occupa di questo settore. Sono i reparti confino a Nola, ed è un certo tipo di intervento pubblico che ha accompagnato tutto questo. Il settore dell’automotive in questo Paese è un settore di intervento pubblico. Io non ricordo qual era l’ultima cifra che lessi, ma si parlava addirittura di lire: dal 1973 al 2005 230.000 miliardi di lire dati sotto vari forme.
Moderatrice: 220 miliardi [di euro] dal 1975 al 2012.
Salvetti: Ok, ti ringrazio. Alla Fiat. E ancora oggi, se voi googlate «Tavares costi», oltre a lamentarsi il fatto che i costi industriali in Italia sono troppo alti – tuttavia non mi risulta che il costo del lavoro rispetto alla Spagna, ad esempio, sia fondamentalmente diverso – è evidente che si riferisce ai costi infrastrutturali e dice che il Paese è indietro di 9 mesi nel dare incentivi per lo sviluppo dell’auto elettrica, perché l’auto elettrica costa troppo. Nel dire questo che cosa ci sta dicendo? Che esistono alcuni prodotti che, correttamente, tu non puoi misurare soltanto in marginalità privata, cioè nel profitto che tu fai a livello privato. Perché quando chiedi degli incentivi per un prodotto piuttosto che un altro, ammetti che quel prodotto ha una marginalità sociale. Ha un profitto sociale, ammetti cioè che un determinato mezzo di trasporto [elettrico] vorrà dire ad esempio meno malattie respiratorie, e quindi un vantaggio magari per il sistema sanitario oltre che per la nostra salute. Quindi esistono alcuni prodotti che sfuggono al mercato, dove il mercato è incapace di portare innovazione. E quando lo fa, lo fa in forma contraddittoria: troppo tardi, e di solito chiedendo al pubblico di sganciare gli incentivi. E allora, se dobbiamo immaginare, la prima vera domanda è: «Perché no l’intervento pubblico reale, diretto sulla transizione ecologica?».
Consideriamo poi che su questa transizione e sulla ristrutturazione dell’automotive in questo paese c’è una dismissione della funzione imprenditoriale privata che si trasforma in un ricatto. Non da oggi, eh: «O mi date i soldi pubblici oppure io, oppure io…» «Io cosa?» «Niente, farò comunque come voglio io». Perché, tra l’altro, non c’è nemmeno uno scambio di reciproco controllo.
La storia di GKN è questa storia. Quando c’è da fare ristrutturazioni ci sono dei professionisti delle ristrutturazioni: i fondi entrano in gioco, sono entrati in gioco sulla storia di Magneti Marelli, sono entrati in gioco con GKN. I fondi finanziari traggono dalle ristrutturazioni «lecita marginalità finanziaria», ed è quello che ha fatto il fondo. La prima volta che noi fummo qua [alla Scuola Superiore Sant’Anna][1] si ipotizzava che ci avessero chiuso con una lunga preparazione, bollendo apposta lo stabilimento. Come forse sapete, poi è uscita anche una piccola inchiesta che dimostra che questa ipotesi era vera, cioè che da tempo preparavano la chiusura. Cosa evidente per chiunque mastichi un po’ di industria… E l’hanno fatto continuando a comprare nuovi macchinari, forse prendendo sgravi fiscali sull’industria 4.0.
Hanno perso, però, la prima sfida sui licenziamenti che sono stati dichiarati illegittimi nel settembre 2021, con un combinato di mobilitazione sociale e di difesa legale, grazie al vecchio Statuto dei lavoratori. Vecchio nel senso bello, cioè che… che regge!
Dopodiché, la disconnessione tra funzione produttiva e funzione imprenditoriale è continuata. Perché i licenziamenti non c’erano più, ma non ci hanno ridato il lavoro, non ci hanno ridato i volumi produttivi, per poi discutere con calma di che cosa fare della fabbrica.
Tant’è che nel dicembre 2021, insieme al contributo di ricercatrici e ricercatori del Sant’Anna tra gli altri, noi produciamo una bozza di progetto industriale. Nel piano diciamo che la dismissione di Stellantis potrebbe essere l’occasione [per rilanciare l’industria italiana autobus – pubblica!]; e non per «l’arrivo di un secondo produttore» come ha detto [il ministro] Urso. Tra l’altro sono definizioni bizzarre, perché se uno «apre a un secondo produttore» significa che prima c’era il monopolio. Io non lo sapevo, però ne prendo atto… E prendo atto anche che lo Stato può aprire o non aprire: «Apriamo al secondo produttore!».
Moderatrice: Come se ci fosse uno che produce veramente…
Salvetti: Appunto. E nel frattempo la crisi di Industria Italiana Autobus si è avvitata nonostante la partecipazione di Invitalia. Perché? Perché l’intervento pubblico di un settore dell’economia si tira dietro, e si deve necessariamente tirare dietro in modo virtuoso, tutta la filiera. Se tu [Stato] fai una partecipazione in un’azienda ma dopo non costruisci una filiera pubblica conseguente, sugli approvvigionamenti, sulla ricerca, sull’innovazione, è evidente che anche l’intervento pubblico rimane, oltre che parziale come lo è in quel caso, assolutamente immobilizzato, impantanato.
Come sapete, poi nel nostro caso arriva un proprietario, uno che firma un accordo quadro e ci promette che entro 8 mesi porta gli investitori. E che «farà qualsiasi cosa». Perché loro possono sempre “fare qualsiasi cosa”, noi invece quando facciamo piani industriali dobbiamo essere molto chiari e precisi.
Il nuovo proprietario aggiunge che se non arrivano questi investitori – che nel frattempo non sono mai arrivati – capitalizzerà e re-industrializzerà lui. Questo era l’accordo quadro.
Infine, nel settembre 2022 ne risulta una proposta di accordo di sviluppo che su 50 milioni circa 35 ce li doveva mettere il pubblico.
Nel frattempo, vengono attivate svariate casse integrazioni, anche retroattive e senza causale perché, se tu non hai una funzione produttiva, non sai nemmeno come giustificare l’ammortizzatore sociale. Il risultato è che da 2 anni io sono un poverissimo dipendente INPS, perché di fatto ricevo la cassa integrazione per non fare nulla, senza nessuna causale.
600 euro, eh, non vi immaginate si faccia una bella vita, perché nel frattempo ci fanno anche dimagrire con una cura dimagrante di 8 mesi senza reddito. E così, proprio quando finalmente stiamo per avere il nostro reddito, il governo produce una cassa integrazione retroattiva. Non sapevo esistessero le casse integrazioni inventate a partire da 8 mesi prima [di quando sono state approvate], solo per poter coprire la possibilità dell’azienda di non pagarci le stipendi.
Contemporaneamente, indagando su una serie di giochi e di scatole societarie emerge sempre di più il controllo delle società immobiliari sull’azienda. Fino ad arrivare alla beffa che l’ultimo anello della catena è una fiduciaria del Monte dei Paschi di Siena, che controlla le quote dell’attuale ex-GKN e che evidentemente nasconde a sua volta un terzo soggetto che noi non conosciamo. Ad ogni modo, formalmente le quote sono del Monte de Paschi di Siena, che è al 64% partecipato dallo Stato. Allo stato attuale quindi il mio stipendio, o quel che ne rimane, arriva da casse semi-pubbliche. Insomma, l’azienda è formalmente controllata da un’azienda controllata dallo Stato – una banca – ma gli unici che non possono parlare di intervento pubblico siamo noi! Noi che chiediamo l’intervento pubblico per realizzare la transizione ecologica!
Non solo lo chiediamo. Ma creiamo, dato che ci dobbiamo basare sulla singola fabbrica, un nuovo piano industriale, questa volta meno generale, che cerca di individuare dei prodotti finiti, le cargo-bike e i pannelli fotovoltaici. Il nostro intervento si vorrebbe articolare così: controllo operaio tramite la cooperativa che fa appello alla legge Marcora, con un intervento nel proprio capitale del pubblico per dare una mano alla cooperativa; l’azionariato popolare, che può controllare fino a un terzo, che forma controllo sociale; la Società Operaia di Mutuo Soccorso, che crea un legame mutualistico col territorio, per esempio come ha fatto quando c’è stata l’alluvione a Campi Bisenzio – perché in tutto questo degli 880.000 mq di stabilimento non si sa cosa ne vogliono fare, in quello che è stato il terzo comune per maggiore consumo di suolo nel 2022 e dove c’è stata l’esondazione il 2 novembre. Se su quel terreno ci fosse stata un’area verde invece di una fabbrica e del centro commerciale “I Gigli”, del multisala e di tutto il resto della zona industriale creata negli ultimi 7-8 anni, forse alcune delle case dei nostri colleghi sarebbero salve. Forse oggi avrebbero ancora la macchina e tutti i loro ricordi, perché non hanno soltanto perso gli elettrodomestici, hanno perso in alcuni casi i ricordi di una vita. E, forse, qualcuno avrebbe anche salva la vita perché ci sono stati anche dei morti tra gli abitanti.
Ricapitolando: l’abbiamo chiamata fabbrica socialmente integrata dove il bene pubblico non è pubblico solo perché c’è capitale pubblico che noi chiediamo ci sia, ma è pubblico in quanto è a disposizione dell’utilità pubblica, quindi del territorio, ma ovviamente anche della transizione ecologica nella sua produzione – dove esiste una marginalità, un profitto che è sociale, non è soltanto privato.
E cosa scopriamo una volta che ci caliamo nel fare il piano industriale? Beh, scopriamo che il mercato proprio non ce la fa a fare questa transizione, perché per esempio quando abbiamo iniziato questa discussione e avevamo la prima bozza del piano industriale il pannello fotovoltaico monocristallino in silicio classico veniva 27 centesimi al watt. Nel frattempo, l’industria cinese si è attrezzata per un’enorme sovrapproduzione dei pannelli e oggi vengono venduti a 13 centesimi al watt. Ed ecco perché leggete gli articoli sui primi fallimenti della nascente industria fotovoltaica europea, che si pone il grande obiettivo pubblico di quadruplicare la propria produzione. Ma evidentemente non ce la fa. Perché anche in questo caso ci vorrebbero una catena di fornitura diversa, ecologie alternative, una rete con l’industria e con la ricerca pubblica per poter studiare le tecnologie alternative reali.
Oppure si scopre che il mercato delle cargo-bike è stato “drogato” da incentivi pubblici post-Covid con i ringraziamenti dei grandi fornitori, come Shimano ad esempio, che hanno avuto un enorme picco. Ora il mercato drogato dagli incentivi si ritira, falliscono tutti i piccoli e i grandi salgono. In una situazione in cui potrai controllare ancora meno di questa transizione.
Noi siamo a creare un piano industriale in queste condizioni. E quindi che cosa chiediamo oggi? Beh, innanzitutto facciamo la nostra lotta sindacale per il pagamento degli stipendi. Sì, perché intanto siamo di nuovo da due mesi senza stipendio e nessuno accende una cassa integrazione a questo giro, perché vogliono che ci licenziamo, che ci licenziamo tutti.
Oltre a questo, noi crediamo che ci siano le basi perché la Toscana possa fare un Consorzio Industriale Regionale che intervenga non solo su di noi, ma anche sui casi dell’automotive che replichino questo meccanismo: nel consorzio possono entrare i Comuni, le Fondazioni, le Università, oltre ovviamente la Regione. Possono così predisporre l’acquisizione di stabilimenti, che possono essere magari gli edifici abbandonati – la TRV di Livorno, ad esempio, non so se è ancora abbandonata, io tempo fa vidi il filmato in cui era ancora uno scheletro. Si possono sottrarre alla speculazione immobiliare per fare reindustrializzazione dal basso. Queste leggi esistono. Tra l’altro la Toscana è una delle poche regioni che credo abbia già una legge sul Consorzio Industriale Regionale pubblico. Possono fare quello che più amano, un misto di pubblico e privato dove si danno anche incentivi a chi si mette nei condomini industriali, ma sotto la direzione di una transizione ecologica. Possono creare a Campi Bisenzio, e non solo, un polo delle energie rinnovabili, della mobilità leggera, della reale economia circolare – perché in tutto questo abbiamo anche scoperto dopo l’alluvione che c’è un flusso enorme di elettrodomestici recuperabili cioè di tutti i RAEE (Rifiuti da Apparecchiature Elettrice ed Elettroniche) in realtà il 56% può essere rimesso sul mercato con piccole riparazioni. Tutto ciò potrebbe entrare in fondi di perequazione, in fondi di redistribuzione sociale, andando ovviamente a sostenere, tramite gli stessi Comuni, i redditi inferiori. Insomma, c’è un mondo immaginabile. E non così lontano.
A tutti «i nostri», e non saprei come definire questo «nostri», dove inizia e dove finisce… A tutti coloro che si sono opposti o che si sono indignati per i manganelli ricordiamo che noi non possiamo avere verso quei manganelli solo la dialettica dell’indignazione.
Noi dobbiamo avere la dialettica dell’alternativa e l’alternativa si costruisce tutti i giorni. E sarebbe bello se questa regione non si ricordasse solo ogni tanto di essere stata l’avanguardia dell’abolizione della tortura o di essere la regione che, insieme ad altre “regioni rosse”, rischia di soccombere a qualche tornata elettorale – messa in difficoltà da un Governo che elettoralizza il proprio rapporto con i territori.
Sarebbe tanto bello se questa regione indicasse qui e ora un intervento pubblico in grado di costruire un’alternativa sull’automotive e di creare una spirale virtuosa che, dalle macerie di questo settore – visto che il processo di crisi inizia almeno dagli anni 80 – ci dia la possibilità di creare intervento pubblico, per utilità pubblica con fabbriche socialmente integrate.
Tra l’altro queste sono le vere tradizioni storiche del nostro territorio, perché quando ci minacciano o denunciano per le attività della Società Operaia di Mutuo Soccorso denunciano la storia ormai secolare delle «SMS», che esistono ancora su questo territorio più che in altri posti. Tra le prime Società di Mutuo Soccorso bruciate dai fascisti ci furono quelle di Rifredi, ad esempio. Oppure ci fu il caso della Fonderia alle Cure [a Firenze] che nel 1955 veniva chiusa per fallimento, e fu occupata dagli operai, poi requisita dal comune e data alla cooperativa dei lavoratori. O ancora, la «Flog» – non so quanti di voi nella propria vita hanno mai visto un concerto alla Flog – quella esperienza fu creata nel 1945 dagli operai della Galileo che ritennero che un’attività di rigenerazione del Paese passasse anche dal fatto che una comunità operaia si prendeva una collinetta e diceva la sua, ponendo lo sguardo di classe anche all’interno della sfera culturale e ricreativa. Così come proviamo a fare noi attraverso il Festival della Letteratura Working Class che si terrà subito dopo Pasqua, tra il 5 ed il 7 Aprile, anche quello sotto minaccia di denuncia.
Insomma: contro la paura, contro il ricatto, si resiste solo se si riesce a immaginare qualcosa di alternativo. E noi, con le ultime energie che ci rimangono, dopo due anni e mezzo di lotta, continuiamo a provarci.
[1] AA.VV. Un piano per il futuro della fabbrica di Firenze, Fondazione Feltrinelli, Dicembre 2022.