di Luca Mozzachiodi

 

Tragedia è forse una di quelle parole che più spesso ci corrono in bocca quando dobbiamo commentare qualcosa, ad esempio, e per chiuderla in brevissimo, ci sono infiniti articoli, discorsi pubblici e private conversazioni che affermano oggi che l’uccisione di cento persone in fila per aiuti alimentari è una tragedia, ce ne sono altrettante (si spera un po’ meno sinceramente) che affermano che la tragedia non sta nella loro morte, ma nella drammatica situazione del soldato, che ha dovuto sparare perché sicuramente in quella folla di affamati ci sarà stato un potenziale terrorista, talmente senza scrupoli da farsi scudo di centinaia di innocenti, bambini inclusi, e che dunque in questo atto apparentemente ingiustificabile (sparare a sangue freddo su una folla inerme di affamati) sia in realtà concretizzata la difesa dell’ordine e della giustizia.

 

Fuor di metafora e di provocazione, ma nemmeno troppo come si vedrà, è piuttosto evidente come il lessico del tragico e del teatrale facciano parte, probabilmente anche in virtù dell’accresciuta spettacolarizzazione delle notizie, del nostro quotidiano, se però anche un incidente d’auto (paragone non mio) e insomma anche qualcosa di assolutamente fortuito, diventa una tragedia, siamo di fronte a una scelta: o accettiamo questa risemantizzazione del tragico, con il rischio però di cadere nell’assoluto relativismo empirico, se non addirittura in un mondo in cui siccome tutto è potenzialmente tragico allora niente lo è per davvero e la “tragicità” passa ad essere un mero attributo, o recuperiamo una dimensione fatalista dell’esistenza, anche in una certa misura spossessandoci del nostro agire sociale. Questo è in sostanza il quesito che si pone Raymond Williams all’inizio del suo studio Modern Tragedy del 1968, tralasciamo per il momento lo sviluppo del discorso, ma notando che questo studio, così come altri soprattutto di tradizione anglosassone aveva una marcata intenzione pratica: si poneva cioè in sottotraccia un’altra domanda, ovvero: è possibile oggi produrre un’opera tragica, e, se è possibile, a cosa serve politicamente?

 

Al dilemma williamsiano esistono altre risposte e forse la più nota di tutte è quella costituita dalla linea Lukács-Szondi che ha la sua formazione nel passaggio dal giovanile saggio di lukacsiano Il dramma moderno (ma in ungherese è più propriamente storia dello sviluppo formale del dramma moderno) del 1911 e nei due saggi di Szondi Teoria del dramma moderno del 1956 e Saggio sul tragico del 1961, ma che implicitamente riversa le proprie categorie anche sulle pagine dedicate alla tragedia e alla poesia drammatica nelle lezioni sull’estetica di Hegel. La questione non è qui di dimostrare come l’impasse sia apparente, ma come semmai, la forma stessa del dilemma sia nella crescente inconciliabilità tra tragico scenico e tragico filosofico (cioè in sostanza tra concrete poetiche tragiche e filosofia dialettica), corollario di questa inconciliabilità sarebbe l’impossibilità di una storia del tragico che non sia una empirica collazione delle singole opere poetiche tragiche o anche che, detto in una formula sintetica ma efficace: dove c’è storia non c’è tragedia.

 

Questo modo di ragionare, pur avendo notevoli elementi di valore (in primis quello di segnalare una discrasia che effettivamente esiste al di là delle dispute nominalistiche), ha anche alcune zone d’ombra, la prima è quella di riproiettare categorie proprie dell’idealismo tedesco su esperienze formali, ma anche sociali estremamente diverse da quelle ottocentesche (esperienze moderne, ma anche pre-moderne come quelle della tragedia greca letta, come è notissmo, da Hegel, Schlegel, Schelling e, seppure con numerosi distinguo, Hölderlin) la seconda è quella di rendere poco chiara, se non implausibile, la linea di sviluppo che porta alla forma del dramma, cui i due studiosi dedicano i loro sforzi, che apparirebbe in sostanza come una struttura in perpetua crisi e in impossibile difesa della sua assolutezza. L’assolutezza del dramma, il nascere dell’azione dal dialogo e il suo compiersi in quel microcosmo dialettico che la partitura scenica viene a significare è in sostanza la caratteristica fondante del genere per Szondi.

 

Il recente libro di Luca Marangolo La nascita del dramma moderno (Mimesis, 2023) si muove in un certo senso proprio in queste due zone d’ombra, intende cioè provare non tanto come una simile forma sia costantemente in tensione interna, ma piuttosto come una tale forma assoluta abbia potuto manifestarsi e, per fare ciò, lo studioso ha bisogno di confutare parzialmente la stessa teoria szondiana della non storicizzabilità del tragico, implicitamente dunque scontrandosi con la necessità di dover riarticolare un discorso sullo sviluppo del concetto che fosse libero da quella che Marangolo chiama «la suggestiva lente» dell’idealismo tedesco.

Il terreno medio scelto per questa operazione è quello del genere letterario: «sapere che esiste una concatenazione formale fra le varie stagioni del genere, inteso come atto discorsivo, significa già creare una tensione ermeneuticamente feconda, sul piano storico, fra la natura linguistica e materiale del genere e i vari modi in cui essa è stata interpretata nel tempo».[1] C’è poi un’altra forte premessa metodologica in questo studio e cioè che, come sostiene Fowler, richiamato da Marangolo in una dotta e densa introduzione, fare la storia del genere (doppio incubo dei crociani) non significhi classificare gli esemplari, ma individuare i nessi strutturali che pertengono a una determinata forma e storicizzarne le riarticolazioni. In senso evolutivo aggiunge implicitamente l’autore di questo libro, il cui titolo alternativo potrebbe essere “La nascita del dramma moderno dallo spirito della tragedia”, perché essenzialmente a questa forma fa riferimento, articolando la ricerca come una esposizione progressiva dei modelli tragici di Shakespeare, Calderón e Racine.

 

Recuperando la nozione hegeliana di drammatico come sintesi, «crasi» dice suggestivamente il libro, di epico e lirico Marangolo ci mostra come in realtà questa crasi sia prodotto della situazione storica di composizione delle opere tragiche a partire dalla tragedia greca: «Per capire la tragedia greca dobbiamo immaginare una formazione che crea una crasi, per certi versi scandalosa, in cui si mescola ciò che culturalmente non dovrebbe essere mescolato, in un momento in cui la cultura mitica stava cedendo, e le soglie e le barriere imposte dal mito descritte dalla civiltà vengono “ripensate” dalla cultura civica ateniese» (p. 65).

La cosmologia interconnessa che per Marangolo, sulla scia di una messe di studi, a cominciare da Vernant, caratterizza l’epoca mitica è alla radice della tragedia greca dove la colpa hamartìa dell’eroe tragico è caratterizzata dalla «contaminazione implicita che, all’interno della tragedia, significherebbe l’attraversamento indebito di una soglia simbolica invisibile, eppure culturalmente connotata». Le letture che il libro fa dell’Antigone e dell’Edipo re, tendono a mostrare come i protagonisti delle tragedie si macchino inevitabilmente e senza una diretta responsabilità di questa colpa, riproiettandola come un contagio sulla comunità, tanto la colpa quanto il contagio però esistono come tali solo in virtù della saldezza della totalità etica, che sulla scena è rappresentata dalla fusione tra elemento epico (impersonalità dei personaggi, rilevanza collettiva dei temi narrati) e elemento lirico (la presenza del coro che commenta la vicenda), arrivando a concludere, in modo suggestivo, che la città sia la vera protagonista della tragedia. Quindi, in conclusione, l’autore ci dice che la celebrazione dei riti tragici è una autorappresentazione (storicamente falsa, ma vera nel suo essere una rappresentazione) della comunità come totalità etica compiuta.

 

Un’altra, quella a mio avviso più convincente e innovativa, tesi strutturante di questo lavoro è che una simile picture di totalità compiuta è una tensione costante del teatro tragico dell’età dell’assolutismo, ma, poiché, come Marangolo mostra con dovizia di fonti politico-giuridiche e teologiche, sussistono diverse e potenti pressioni sociali che agiscono sulla struttura della forma tragedia (termine medio di questa tensione è quella che Marangolo chiama «ideologia del drammaturgo») la storia della tragedia si rivela in sostanza come storia dello svuotamento dall’interno di questa sua ricercata compiutezza.

La lettura delle tragedie di Shakespeare ci mostra un crescente conflitto tra will e reason che spesso diventa tra natura o natura prassico-sociale dell’uomo (il protagonista diveniente sempre più soggetto e sempre meno metafora, cioè coincidente sempre più con una microrappresentazione del modello valoriale del drammaturgo) e cultura, un ordine sociale che non è natura, ma che per sopravvivere sul lungo periodo (saremmo tentati di dire “per divenire cultura”) deve naturalizzarsi. Non a caso le tragedie shakespeareiane prese in esame nel libro sono tutte tragedie di successione o di stasis, di guerra civile.

 

La più moderna, sostiene convincentemente Marangolo sulla scia di Moretti, nella sua assolutezza è il Re Lear poiché i due termini del conflitto sono riassunti in una sola figura e l’elemento motore del tragico è solo l’azione interna alla tragedia stessa, che è si affermazione della soggettività e libertà, ma al contempo è negazione dell’ordine, così che re Lear è tanto il giusto oppresso quanto il tiranno.

In Calderón e in Racine il problema non è tanto quello dell’affermazione dell’assolutismo come totalità quanto, implicitamente, la posizione che di fronte a esso tengono i sistemi valoriali e materiali incarnati dall’aristocrazia defeudalizzata e dalla nascente borghesia. Beninteso né l’uno né l’altro dei drammaturghi avrebbero potuto parlare in questi termini, ma il processo è evidente nella evoluzione progressiva dei loro stili compositivi e della caratterizzazione dei personaggi per come rappresentata da Marangolo. Una totalità sociale che necessita di conferme e adesioni di gruppi particolari non è compiuta e d’altra parte occorre trovare un collante ideologico tale per cui ciascun gruppo possa immaginare che lo sia e riconoscervi il proprio impianto valoriale, funzione che nel pieno Seicento è stata anche della religione (motivo, per inciso, per cui le guerre tra regni compaiono nella forma di guerre di religione e alla fine si deve concludere con la formula cuius regio eius religio, come l’unica nella quale il principio di regalità possa salvarsi).

 

Marangolo allestisce così un confronto speculare nella Spagna del Siglo de Oro e nella Francia del Re Sole. Da un lato le opzioni “estremistiche” di un Juan de Mariana: ristabilimento del corretto foedus vassallatico garantito dalla chiesa se il re diventa tiranno anche mediante il regicidio e di un Barcos, (principio della grazia sufficiente interpretato come rifiuto del mondo) dall’altro quelle a vario titolo “rinunciatarie” (da un Quevedo che interpreta la corretta tenuta dell’istituto monarchico essenzialmente come sottomissione a un dato di natura a un Arnauld che riforma essenzialmente le prassi liturgiche, cioè risantifica il “mondo” invece di negarlo). I drammaturghi scelgono spesso una via media: «Le posizioni del giovane Arnauld e di Pascal, infatti, svolgono all’interno della visione tragica raciniana un ruolo analogo a quello svolto dalle posizioni di Mariana e Saavedra Fajardo nella forma della tragedia siglodorista. Ovvero, quello di rinegoziare il mito che tiene insieme l’eroe e la totalità organica». (p. 307) Il re sarà così buon re se si domina, se vince le proprie passioni cristianamente e le varie opere calderoniane prese in esame ne mostrano la casistica; il personaggio raciniano è invece ingiusto perché la giustizia gli è mondanamente preclusa, ma può scegliere di rifiutare il mondo o alternativamente lottare con le proprie passioni fino all’autodistruzione (molte delle tragedie raciniane finiscono del resto con dei suicidi più che con degli omicidi come la maggior parte delle altre).

 

La totalità concreta, l’ordine si deve tenere, ma è sempre più evidente al soggetto moderno come questo ordine sia anche di carattere oppressivo e non solo una garanzia della possibilità di esistenza e azione, quale in un certo senso la polis era per il cittadino greco, e può tenersi solo a patto di una subalternità assiologica del soggetto che invece sempre più occupa la scena come portatore di significati autonomi.

Ecco dunque che nel Samuel Henzi di Lessing Marangolo giustamente individua un prototipo dell’avvenuto rovesciamento per cui la tragedia non è più la messa in scena della rottura e ricomposizione di un ordine naturalizzato attraverso il rovesciamento che i protagonisti subiscono ma è la distruzione del protagonista e del suo mondo di valori (progressivi, rivoluzionari, o anche conservatori, se non addirittura reazionari) in un ordine che è inevitabilmente storico.

 

Insomma da tragedia della comunità a dramma dell’io, da coro ad azione e da monologo a dialogo: è il percorso che questo studio traccia, e certo non si tratta di un percorso solo stilistico formale se, ad esempio, il primo soggetto borghese romanzesco, ovvero il Werther di Goethe, finisce suicida proprio con una copia di Emilia Galotti (per Marangolo il primo esempio della nuova forma del dramma moderno) aperta sulla scrivania. La rottura dell’identità di natura e cultura significa anche il venir meno di ogni garanzia di senso per un soggetto che non riesce ad affermarsi.

Questo di Marangolo è, lo si sarà visto, un libro eminentemente teorico e “tedesco”, non gli interessa tanto la lettura delle singole opere, che pure non mancano e anzi sono numerose le analisi puntuali di scene, soprattutto dalle tragedie sofoclee e da Shakespeare, né lo preoccupa poi molto il dramma come fatto scenico (se anzi ci è concesso un unico appunto è forse il pubblico e il teatro con la sua materialità l’assente di questa ricerca che privilegia soprattutto l’esperienza letteraria e teorica della tragedia) e punta, con ottimo fiuto critico, ai casi che meglio rappresentano gli snodi storico-culturali centrali che sono il movente del volume, evitando la messe di opere che invece, in fondo, rappresenterebbe più una testimonianza della natura contrastata e lenta di questi mutamenti e della sopravvivenza a lungo termine di controspinte e vie parallele, che non la falsificazione della teoria, ammettendo tuttavia con prudenza che un allargamento del corpus avrebbe dato l’idea di un trapasso più graduale e meno monodirezionale.

 

È un fatto però, e in ultima analisi una conferma della solidità della teoria di Marangolo, che la teatrologia più aggiornata e comprensiva (penso ad un’opera recente e capitale come Tragedy and Dramatic Theatre del teatrologo recentemente scomparto Hans Thies-Lehmann)[2] pur partendo da premesse metodologiche diverse se non addirittura antitetiche a quelle della comparatistica letteraria (fatte proprie dall’autore) arrivi, in buona sostanza, a una scansione cronologica analoga della cultura drammaturgica: un’epoca della tragedia pre-drammatica (corrispondente grossomodo alla tragedia greca), un’epoca della tragedia drammatica ( in formazione dal teatro del Rinascimento e poi compiutamente tra Sette e Ottocento) e infine anche un’epoca postdrammatica (sostanzialmente emergente nel tardo Ottocento e poi compiutamente sviluppata nel secondo Novecento).

 

Tornando al dilemma williamsiano, a quella che per semplicità vorremmo chiamare “la via inglese al tragico” varrà ora la pena ricordare che un terzo del suo studio sulla tragedia moderna era in realtà una tragedia di pugno dello stesso Williams, intitolata Koba (soprannome giovanile di Stalin) e dedicata allo stalinismo. Scopriamo poi che, allineando i titoli, Williams produsse tra metà Cinquanta e Sessantotto tre volumi sul problema del verso, del dramma moderno e della tragedia contemporanea, che la stessa linea a cui Marangolo, orgogliosamente direi, appartiene, si determina tra il 1956 di Teoria del dramma moderno e il 1967 della riproposizione del capitolo iniziale del giovanile saggio di Lukács, aggiungiamo poi nel 1955, Il dio Nascosto di Goldmann (altro importante riferimento alla base, ovviamente, del capitolo raciniano di Marangolo, che pure non esita, giustamente, a criticarlo per cercare un’interpretazione in grado di connettere il tragicismo pascaliano all’evoluzione formale del genere) e nel 1961 La morte della tragedia di George Steiner, che fa in un certo senso il percorso inverso a quello che Marangolo traccia nel suo libro. La domanda potrebbe essere dunque: perché gli anni Cinquanta-Sessanta sono ossessionati dal tragico e dal tentare di definirlo? O ancora, perché in un momento di generale prevalenza di istanze progressive e di massa ci si rivolge con così tanto interesse a un genere elitario e, come del resto Marangolo mostra, tendenzialmente ispirato a istanze conservatrici oltre che non borghesi? Se prendiamo l’asse portante di questo volume, ovvero la considerazione di come la tragedia rappresenti una costante tensione alla ricomposizione di una totalità la cui incompiutezza diviene tanto manifesta nella modernità da mettere capo a un nuovo genere, il dramma, borghese come dramma delle forze sociali soggettivate sulla scena, può non apparire così peregrino che i tentativi tragici di Williams (e aggiungeremmo di Salvatore, di Pasolini, di Weiss, di Barker, di Müeller, di Sinisterra, e di moltissimi altri autori del Novecento) guardino alla storia del socialismo, a Stalin, a Trockij, che un liberale come Steiner considera il protagonista perfetto per una tragedia contemporanea, a Guevara. Se certo sopravvive formalmente il modello di quella che Marangolo chiama «tragedia del rovesciamento» e forse persino, ben oltre i confini cronologici di questo lavoro, una certa tensione all’impossibile unificazione di epico e lirico nella scelta di personaggi aristocratici di rilevanza pubblica (nel 2005 The wolfpit di Maxwell su Maria Stuarda, nel 2014 King Charles III in blank verse di Bartlett tragedia di ambientazione contemporanea) è evidente che ancora qualcosa si gioca, anche nel senso del ludus scenico e del play, sull’orizzonte di totalità aperta che il socialismo intendeva rappresentare.

 

 Nelle parole dello studioso marxista, ma in fin dei conti anche nella dialettica storica sottesa a La nascita del dramma moderno, esiste una indubbia affinità tra il percorso della tragedia e quello di una rivoluzione: «the tragic action in its deepest sense, is not the confirmation of disorder, but its experience, its comprehension and its resolution. In our own time, this action is general, and his name is revolution. We have to see the evil and the suffering, in the factual disorder that make revolution necessary, and in the disordered struggle against the disorder»[3]. Parole che spiegano il perché di quel montante interesse “in that time”.

Tempi non più nostri, ma che un’esperienza del tragico (nel senso storico e non essenzializzato che vogliono concordemente Lehmann e Marangolo) faccia parte del nostro dominio lo mostra non solo il bisogno di quei termini per continuare a definire il nostro essere sociale, ma che essa debba continuare a celebrare implicitamente il funerale di un ordine cercandone  esplicitamente la conferma non solo quando è assoluto e garanzia del senso (come nella Elizabethan world picture, ma in fondo anche nei processi staliniani), ma anche quando esso è una tensione tutta da realizzare e, in un certo senso, la nostra migliore speranza di liberarsi da ingombranti garanzie esterne: ecco perché vediamo un filo rosso tra la scena in cui re Duncan viene sgozzato nel sonno e le scene finali di Claw, in cui lo spettro del socialismo si dissolve nei monologhi di un ex-aiuto boia e di un militante dell’IRA in un ospedale psichiatrico. Dagli altari e dai troni ai wc maleodoranti può essere un percorso lunghissimo, ma certamente il libro di Marangolo è un prima necessaria pietra per provare a percorrerlo in maniera critica e, finché possibile, scientifica. Non ci addita un’immediata risposta al dilemma iniziale ma ci può invitare a non colorare di tragico (cioè di ineludibile e necessaria ambiguità) situazioni su cui il giudizio dovrebbe essere netto, se nella letteratura segnano un contrastato e problematico progresso spesso fuori di essa le parole della tragedia sono il segno di una nostra arretratezza.

 

Note

 

[1] L. Marangolo, La nascita del dramma moderno in Shakespeare, Calderón, Racine, Lessing, Milano-Udine, Mimesis, 2023, p. 350.

[2] Hans Thies-Lehmann, Tragedy and Dramatic Theatre, London, Routledge, 2016.

[3] Raymond Williams, Modern Tragedy, Chatto & Windus, 1992 [1968], p. 93.

 

[Immagine: Re Lear e Cordelia].

1 thought on “Le parole della tragedia. A partire da “La nascita del dramma moderno” di Luca Marangolo

  1. Articolo molto interessante e argomento abbastanza negletto in Italia. Il dibattito sul tragico è inesauribile perché ci sono stati 100.000, o forse nessuno, modi di scrivere tragedie. Per cominciare, ci si può chiedere se gli ateniesi avessero coscienza di un essenza del tragico al di là delle definizione puramente formale data, a tragedia defunta, da Aristotele e fondata innanzitutto su una opposizione all’epica – opposizione che non potrebbe calzare a tanti Shakespeare o Lope.
    Prima i fondamenti dionisiaci, poi quelli di lotta col destino sono stati anch’essi messi in dubbio, sebbene le osservazioni di Steiner sulla morte del tragico come conseguenza dell’antifatalismo rousseauiano/romantico mi sembrino piuttosto luminosi. Eppure, paradossalmente, si potrebbe dire che il tragico quale lo si concepisce oggi, sia grosso modo una creazione concettuale del romanticismo tedesco (Hölderlin, Hegel). Forse perché l’accento è da porre su tedesco e non su romanticismo

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