di Barbara Ivančić

 

[LPLC si prende qualche giorno di pausa. Torneremo online martedì 2 o mercoledì 3 aprile. Buone vacanze].

 

“La nostra epoca è caratterizzata da questa contraddizione: da una parte abbiamo bisogno che tutto quello che viene detto sia immediatamente traducibile in altre lingue; dall’altra abbiamo la coscienza che ogni lingua è un sistema di pensiero a sé stante, intraducibile per definizione. Le mie previsioni sono queste: ogni lingua si concentrerà attorno a due poli: un polo di immediata traducibilità nelle altre lingue con cui sarà indispensabile comunicare, tendente ad avvicinarsi ad una sorta di interlingua mondiale ad alto livello; e un polo in cui si distillerà l’essenza più peculiare e segreta della lingua, intraducibile per eccellenza, e di cui saranno investiti istituti diversi come l’argot popolare e la creatività poetica della letteratura.”

 

Così scriveva Italo Calvino nel suo saggio “L’antilingua (in Una pietra sopra, Torino, Einaudi 1980), anticipando con grande acume i tempi in cui viviamo e i dibattiti che li animano. Il saggio risale al 1965, quando le basi per la ricerca sulla traduzione automatica erano già state poste da due matematici, Warren Weaver e Claude Shannon, che nel 1949 elaborarono un modello matematico della comunicazione umana, su cui Weaver costruì poi il suo Memorandum sulla traduzione. Seguì il cosiddetto “Georgetown experiment” nel 1954, con cui l’Università di Georgetown, in collaborazione con l’IBM, riuscì a far tradurre automaticamente sessanta frasi dal russo all’inglese. La coppia linguistica ci ricorda che il mondo era in piena Guerra fredda e tradurre significava decodificare i messaggi del presunto nemico. Il successo dell’esperimento suscitò un’ondata di ottimismo nei confronti di quella che allora veniva chiamata traduzione meccanica, ottimismo che tuttavia andava già scemando quando Calvino formulò le sue previsioni. Il momento di disillusione era dovuto al fatto che la macchina, all’epoca addestrata alla traduzione attraverso una serie di regole concernenti le lingue coinvolte nel processo traduttivo, non portava i risultati auspicati. Per quanto incredibile possa apparirci oggi, in quel momento si era addirittura arrivati a considerare la traduzione automatica un settore senza futuro. Allo stesso tempo però era chiaro che il limite stava proprio in quel sistema basato su regole e dunque, nonostante la disillusione, la ricerca andò avanti, intuendo a un certo punto – siamo agli inizi degli anni Ottanta – che la chiave di svolta potesse essere il calcolo computazionale. Occorreva, in altre parole, raccogliere molti dati linguistici, sulla base dei quali calcolare statisticamente la probabilità di occorrenza di determinate parole e strutture. Fu una svolta a tutti gli effetti, decisiva per la fase in cui ci troviamo oggi, quella dei sistemi di traduzione automatica basati sul cosiddetto deep learning, l’apprendimento profondo, in cui reti neurali artificiali simulano il funzionamento delle cellule nervose del cervello umano. Pur rappresentando, tanto sul piano della programmazione quanto su quello dei risultati concretamente ottenuti e potenzialmente possibili, un passo successivo al mero calcolo computazionale, il meccanismo del deep learning è figlio di quest’ultimo e alcuni dei traduttori automatici cui oggi ricorriamo sono di fatto una combinazione dei due approcci.

 

Di questo parliamo dunque quando parliamo di traduzione automatica: di una delle concrete applicazioni di quella che tecnicamente si chiama elaborazione del linguaggio naturale, in cui informatica, linguistica computazionale e intelligenza artificiale interagiscono nell’analizzare e processare il linguaggio umano, allo scopo di replicare il comportamento linguistico degli esseri umani. Fra le tante possibili applicazioni di un tale approccio alla lingua, la traduzione automatica rientra certamente tra quelle di più vasta portata e di più profonde conseguenze. Sul piano pratico le viviamo e sperimentiamo quotidianamente: ci affidiamo ai traduttori automatici per leggere, almeno a grandi linee, un articolo che ci interessa ma che altrimenti ci rimarrebbe inaccessibile se non conosciamo la lingua in cui è redatto, per farci tradurre velocemente una mail o un messaggio che vogliamo inviare in una lingua che non padroneggiamo abbastanza, o anche solo per tradurre una parola che non conosciamo o che vorremmo saper dire in un’altra lingua.

 

Per chi traduce, le applicazioni dell’elaborazione del linguaggio naturale non rappresentano certo una novità, ma fanno anzi parte della quotidianità lavorativa da ben prima dell’avvento dei traduttori automatici. I dizionari elettronici e le banche dati terminologiche, per esempio, sono strumenti pressoché scontati, cui se ne aggiungono molti altri, più o meno a portata di mano, come i programmi per la creazione e/o consultazione di corpora, le memorie di traduzione, i concordancer e altri ancora. Si chiamano strumenti di traduzione assistita e, assieme alla traduzione automatica, hanno radicalmente cambiato la professione di chi traduce testi di tipo specialistico, vale a dire testi caratterizzati dall’uso di terminologia tecnica e da strutture piuttosto ricorrenti e standardizzate. Molti studi sono stati fatti sull’uso e le implicazioni di questi strumenti, e la ricerca continua, senza però appassionare più di tanto i non addetti ai lavori.

 

Tuttavia, da quando i traduttori automatici sembrano entrare in maniera sempre più decisa anche nella sfera della traduzione letteraria – parliamo di un paio di anni –, l’interesse per l’argomento cresce e, a seconda della prospettiva, il tema appassiona, stimola, divide, preoccupa, inquieta, annoia. Non c’è ormai manifestazione letteraria che conti dove non sia all’ordine del giorno. Alla recente Fiera del libro di Francoforte, per esempio, quattro esperte del settore dell’editoria e della traduzione letteraria hanno discusso sulle possibilità e le impossibilità di utilizzo dei traduttori automatici nel campo della traduzione letteraria. Bologna Children’s Book Fair, la Fiera dell’editoria per l’infanzia di Bologna, punto di riferimento mondiale per questo ambito letterario, se ne era occupata già nell’edizione del 2021, invitando alcuni dei maggiori esperti del settore a riflettere sul rapporto fra traduzione automatica e creatività umana.

 

La questione di fondo è proprio questa: Può un software proporre soluzioni creative paragonabili a quelle di cui – nella migliore delle ipotesi – è capace il cervello umano? E prima ancora: La traduzione letteraria è un’attività creativa, proprio come lo è la scrittura letteraria? Domande complesse, perché è molto complicato definire il concetto stesso di creatività, come dimostra il fatto che solo in tempi piuttosto recenti è diventato oggetto di studio e ricerca scientifica. Senza entrare nel merito del dibattito, che ci porterebbe in altre direzioni, possiamo affidarci a quello che in fondo ci dice il senso comune, e cioè che sono creative quelle opere che dimostrano originalità attraverso aspetti innovativi, talora anche sorprendenti, che in ogni caso si inseriscono all’interno di un dato contesto, intercettandone il gusto, il senso estetico, i bisogni e le aspettative. Nel contesto della traduzione letteraria, sono creative le proposte che colgono i significati, le caratteristiche e le potenzialità del testo originale e danno loro forma e voce nel corpo dell’altra lingua, offrendo così un’analoga esperienza di lettura anche a chi legge il testo tradotto. Se adottiamo questa prospettiva, non vi sono dubbi che l’opera tradotta possa essere altrettanto creativa quanto lo può essere la scrittura letteraria. Non solo, ma la stessa attività traduttiva rappresenta allora un “laboratorio di pensiero critico e creativo”, come recita il sottotitolo di un bel libro di Franco Nasi, che molto ha scritto sull’argomento (cfr. Franco Nasi, Tradurre l’errore. Laboratorio di pensiero critico e creativo, Macerata, Quodlibet 2021).

 

Come si inserisce l’automazione in questa idea di traduzione letteraria? È/sarà ancora possibile concepire l’attività traduttiva come un laboratorio di pensiero creativo e critico se la traduzione dell’opera letteraria viene/verrà delegata a un software, chiedendo a chi traduce di revisionare o – per usare un termine che proprio la tecnologia impone – posteditare una bozza di traduzione? Prima di azzardare qualche risposta, stiamo ai fatti, o meglio, agli studi sull’argomento, che in questo momento proliferano, a conferma dell’attualità del tema.

Gli studi si concentrano fondamentalmente sulle variabili tempo e qualità. Il tempo è uno degli argomenti chiave di qualsiasi riflessione sul ruolo della traduzione automatica, e dunque anche sulla sua applicazione in ambito letterario. Nella logica del capitalismo liberista nel quale viviamo e con il quale dobbiamo fare i conti, a prescindere dalla nostra opinione in merito, la cosa ha senso se implica un risparmio di tempo rispetto all’analoga attività umana. Il senso, in questa logica, è da intendersi in termini economici: l’eventuale riduzione di tempo si traduce in un risparmio di soldi per chi paga l’attività traduttiva. Allo stato attuale, non ci sono studi dai quali emerge un sostanziale risparmio di tempo se la traduzione letteraria viene affidata interamente al traduttore automatico, riservando agli esseri umani la fase della revisione della bozza generata per mezzo di calcoli e predizioni del software. Anzi, semmai si può già intuire che la fase del postediting può addirittura richiedere più tempo e implicare un maggiore sforzo cognitivo da parte di chi traduce. Questo alcuni studi già lo dimostrano, peraltro anche per la traduzione tecnica.

 

Si tratta di un punto molto interessante su cui la ricerca dovrebbe concentrarsi e su cui occorre stare in guardia, perché il termine postediting, che non a caso è entrato in voga con l’avvento della traduzione automatica, suggerisce una gerarchia piuttosto chiara sul piano delle mansioni: il grosso lo fa la macchina, mentre al dopo ci pensa il traduttore umano e il post – proprio perché arriva dopo – non può che consistere in un qualche ritocco qua e là. Insomma, se in futuro ci saranno editori che affideranno la traduzione di un’opera letteraria al calcolatore – ammesso che già non accada –, allora è sulla parola postediting che dobbiamo riflettere. Un termine tutt’altro che neutrale, la cui definizione ha conseguenze dirette sul piano della percezione sociale della professionalità del traduttore/della traduttrice e del valore stesso del suo lavoro, che già non godono di buona salute.

E poi c’è il discorso qualità del testo, che va di pari passo con la variabile tempo. Automatizzando e posteditando, si può raggiungere un livello linguistico e stilistico paragonabile a quello di una traduzione fatta da un essere umano? Che certo non è di per sé garanzia di qualità, ma può esserlo. Gli studi ci dicono che sul versante qualità c’è ancora molta strada da fare per i traduttori automatici, il che suona sempre rassicurante per chi teme per il futuro della traduzione letteraria. Dagli studi emerge però anche un aspetto che ci riporta al postediting e ai rischi che implica, questa volta sul piano linguistico: la fase della revisione di un testo tradotto automaticamente aumenterebbe la tendenza a standardizzare, normalizzare, appiattire la lingua letteraria, che per definizione invece trasfigura, gioca, osa.

 

Il fenomeno non è certo nuovo né imputabile all’avvento della traduzione automatica: da tempo negli studi traduttologici si osserva e indaga, infatti, la tendenza a ricalcare strutture della lingua di partenza, che spesso è l’inglese, rinunciando così a sfruttare e a esplorare il potenziale della lingua di arrivo. Lingua che in questo modo si riduce e perde la sua linfa vitale, lasciando alle lettrici e ai lettori quel retrogusto di traduttese, che ci capita di avvertire delle volte leggendo un libro tradotto. Il traduttese esiste da ben prima dei software di traduzione automatica, complici i traduttori umani e, forse ancora di più, i revisori editoriali. Non c’è quindi da stupirsi se lo ritroviamo anche nella traduzione automatica, che in fondo può essere vista come una potente cassa di risonanza delle nostre pratiche linguistiche. Basti pensare a come ripropone certi stereotipi presenti nella comunicazione umana, quasi a ricordarci che la macchina riproduce fedelmente le strutture sociali e linguistiche nell’ambito delle quali sono nati i testi con cui viene tenuta in vita.

 

Le recenti ricerche ci dicono però che l’attività di postediting rende ancora più fertile il terreno per questa sorta di omogeneizzazione linguistica, proprio perché a quel punto si ha a che fare con un testo il cui ritmo è già preconfezionato dai calcoli predittivi, mentre viene meno la fase in cui il testo originale passa per le mani, la mente, il cuore, lo stomaco, i piedi (sì, anche i piedi) di chi traduce, prima di trovare un ritmo nell’altra lingua. Questi risultati sono strettamente connessi con quello che le stesse traduttrici e i traduttori letterari dicono riguardo alla revisione di un testo letterario tradotto automaticamente, ovvero che in quelle condizioni avvertono maggiori limiti alla propria libertà espressiva e in definitiva alla propria creatività. Sentono cioè la mancanza di quel corpo a corpo con il testo, da cui derivano determinate scelte linguistiche e testuali. Scelte su cui si può sempre discutere, ma che sono frutto di un’interpretazione e dunque anche espressione di un vissuto e di un sentire individuale. Affidare tutto il testo alla macchina è, dicono sempre le traduttrici e i traduttori, ben altra cosa rispetto a usare la tecnologia in funzione di aiuto alla traduzione umana.

 

La presenza o assenza di un corpo e di un soggetto sono espressione di due modi diversi, per molti aspetti diametralmente opposti, di concepire la traduzione letteraria. Nel momento in cui ci troviamo è difficile capire come farli dialogare e immaginare che strade prenderà la professione nei prossimi decenni. Anche perché, ad ascoltare i programmatori impegnati nella creazione dei software, tutto pare possibile. I giochi di parole sono uno degli aspetti più difficili nella traduzione letteraria? Si faranno, anzi già si fanno, software appositamente addestrati alla traduzione di giochi di parole nell’ambito di una coppia linguistica. Lo stile di un autore/un’autrice pone sfide particolari alla traduzione? Si può pensare di addestrare un software solo su quel nome della letteratura e le relative traduzioni. Vale altrettanto sull’altro versante: la voce di una traduttrice/un traduttore ci piace in particolar modo? Si può pensare di progettare un software solo con le sue traduzioni, rendendo a quel punto quella voce traduttiva indipendente dalla sua fonte corporea. Non per forza è fantascienza se, precisano sempre i programmatori, aumentiamo la potenza di calcolo delle macchine neurali, diamo loro più testi, selezioniamo testi più mirati, e se c’è qualcuno pronto a investire in queste cause.

 

In termini scientifici, il futuro non si può prevedere ed è questa, io credo, l’origine di quel senso di disorientamento e smarrimento che oggi si avverte spesso fra le traduttrici e i traduttori letterari. Sensazioni che hanno naturalmente e legittimamente a che fare con la paura per il futuro della professione stessa e dunque anche per il proprio di futuro, ma che non vanno liquidate come atteggiamenti di chiusura difensiva, perché toccano corde e questioni ben più profonde. Provo a individuarne alcune, che mi sembra incalzino, senza trovare ancora una risposta:

Chi traduce l’opera letteraria se la affidiamo a un software di traduzione automatica? La macchina fa riferimento a traduzioni umane, si sente dire spesso, ma non è una risposta sufficiente, perché il cosiddetto output, come viene chiamato il prodotto della traduzione automatica, è frutto di algoritmi predittivi fatti su traduzioni umane come anche su testi tradotti automaticamente e non può essere ricondotto a una persona in carne e ossa. Motivo per cui si potrebbe anche discutere della stessa denominazione traduttore automatico. A chi attribuire questi calcoli: a un’entità sovraindividuale? A un’industria? A un apparato tecnico che si richiama a una cultura traduttiva e a determinate politiche linguistiche? E ancora: Chi firma quella traduzione? Chi è responsabile della sua qualità e delle eventuali critiche al testo tradotto? Come funziona il diritto d’autore del traduttore nel caso in cui la persona in carne e ossa subentra solo nella fase della revisione?

 

Sono questioni importanti, vitali per chi traduce, così come è fondamentale per tutte e tutti noi occuparci anche delle moltissime questioni etiche che lo sviluppo dell’IA solleva, a cominciare dall’impatto delle tecnologie, quindi anche della traduzione automatica neurale, sull’ecosistema. È curioso che quando si parla di traduttori automatici, l’accento venga posto quasi esclusivamente sul loro possibile apporto al superamento di barriere linguistico-culturali, sorvolando sull’enorme consumo di risorse non rinnovabili, come anche sullo sfruttamento del lavoro umano, che questi strumenti implicano. Ce lo ricorda con dovizia di argomenti e dati Kate Crawford, nel suo bel libro Atlas of AI. Power, Politics and the Planetary Costs of Artificial Intelligence, edito dal Mulino nel 2021 con il titolo Né artificiale né intelligente. Il lato oscuro dell’IA (tr. it. di Giovanni Arganese). Nello specifico della costruzione delle banche dati di cui i software hanno bisogno per imparare, Crawford ci ricorda, per esempio, come la raccolta di dati, iniziata ben prima dell’IA, avvenga spesso in maniera tutt’altro che affidabile e con conseguenze fortemente discriminatorie. Ed è un bene che in tempi in cui la violenza di genere sale prepotentemente e tristemente alla ribalta, si ricordi come le donne siano pochissime negli ambienti in cui l’automazione cognitiva viene progettata e sviluppata.

 

La questione degli sguardi e dei profili umani e professionali cui viene affidata l’elaborazione del linguaggio naturale è centrale, perché si ripercuote direttamente sulla qualità dei dati con cui vengono sviluppati i modelli linguistici. Da questo punto di vista sarebbe auspicabile che esperte e esperti di lingua, letteratura e traduzione partecipassero alla progettazione dei software di traduzione. Credo siano ancora una netta minoranza, anche se c’è una maggiore consapevolezza riguardo al tema, il che è un bene, e allo stesso tempo chiama in causa chi si occupa della formazione universitaria di questi profili. Scelte di questo tipo sono e saranno decisive per il futuro della traduzione letteraria, come anche delle stesse lingue, rispetto alla possibilità di tenere insieme i due poli di cui parlava Calvino.

Riflettendo ancora sulle ragioni dello smarrimento, si pone non da ultimo il tema del nostro rapporto con la lingua, ed è questa, a mio parere, la questione più intima e profonda che la tecnologia chiama in causa e sfida.

 

“We die. That may be the meaning of life. But we do language. That might be the measure of our lives.” (‘Moriamo. Forse è questo il significato della vita. Ma produciamo il linguaggio. E forse è questa la misura delle nostre vite.’), diceva la scrittrice Toni Morrison nel discorso pronunciato in occasione del conferimento del Premio Nobel, assegnatole nel 1993 (cfr. https://www.nobelprize.org/prizes/literature/1993/morrison/lecture/). Quel discorso era una favola su una vecchia cieca ma saggia, che ben conosce il potere della parola. Parola che, quando si nutre del nostro vissuto e della verità dell’esperienza, è generativa, dice ancora Morrison: “produce significato che conferma la nostra differenza, la differenza umana – quella che ci contraddistingue da tutte le altre forme di vita.” (tr. it. di Silvia Fornasiero e Maria Luisa Cantarelli, cfr. L’importanza di ogni parola, Milano, Frassinelli 2019)

 

Nella lingua o nelle lingue che parliamo ci sono i nostri vissuti emotivi e percettivi, c’è la nostra persona, di cui la parola che scegliamo è espressione. La scrittura letteraria ci restituisce idealmente proprio questa idea di lingua come individuazione umana, e chi traduce sa che il suo compito non è quello di cancellare l’individualità, che è sempre anche estraneità e alterità, come ricordava George Steiner in Dopo Babele, ma è al contrario quello di creare lo spazio affinché possano entrare in dialogo. Paradossalmente, ma è un paradosso solo apparente, la traduzione letteraria ci confronta con l’inafferrabile che c’è nella parola dell’altro, e dunque con l’intraducibile.

In un saggio di qualche anno fa, l’autrice e traduttrice canadese Canan Marasligil, descrive il fastidio che prova quando, pubblicando qualcosa su una qualche piattaforma social in una lingua diversa dal dominio della pagina, il testo viene automaticamente tradotto. Poco importa che la scelta linguistica sia espressione di un bisogno personale di dire quella cosa in quella determinata lingua. Non in una lingua qualsiasi, ma in quella lingua. Certo, il servizio di traduzione automatica si può anche disattivare e tornare all’originale, se lo si desidera, ma la funzione in sé è espressione dell’imperativo di immediata traducibilità cui Calvino alludeva già nel 1965, e che sottende anche all’idea dell’automazione del mestiere della traduzione letteraria. Per questo è difficile non avere la sensazione che da un certo punto di vista si torni a quella vecchia idea di decodifica del messaggio da cui tutto è partito nel Secondo dopoguerra. Una decodifica che deve essere rapida e possibilmente affidabile, sollevando la persona umana dallo sforzo cognitivo e dall’esperienza della diversità che la traduzione implica. Che ai traduttori letterari tutto ciò piaccia, che sia vitale, come ricordava la traduttrice Silvia Pareschi in un recente articolo apparso sulla “Stampa”, interessa ben poco.

 

Ecco, è proprio questo, il piacere della traduzione, il piacere della lingua come esperienza esistenziale, ciò di cui sento maggiormente la mancanza in tutti i dibattiti, nelle analisi, anche nelle stesse ricerche sulla automazione del processo traduttivo. Di tutto si parla, tranne che di questo. Sono argomenti superati, visioni novecentesche, dicono in molti, eppure colpisce vedere il grande interesse che gli incontri pubblici con traduttrici e traduttori in carne e ossa suscitano, il fascino che il loro rapporto con il testo e la lingua esercita. Colpisce e dà speranza vedere il piacere con cui le mie studentesse e gli studenti universitari, figlie e figli del nuovo millennio, si sporcano le mani – l’immagine, bellissima, è di Angelo Morino (cfr. https://rivistatradurre.it/le-mani-sporche/) –, provando a tradurre.

“Sage mir, was du vom Übersetzen hältst, und ich sage dir, wer du bist”, ‘Dimmi cosa pensi del tradurre e ti dirò chi sei’, scriveva Martin Heidegger in un celebre passo di una conferenza dedicata all’inno Der Ister di Friedrich Hölderlin (tr. it. di Chiara Sandrin e Ugo Ugazio, L’inno Der Ister di Hölderlin, Milano, Mursia 2003). Alludeva, Heidegger, al rapporto intimo, e per tanti versi unico, che chi traduce instaura con quella che nel titolo della conferenza il filosofo chiama l’essenza della parola e la dignità della lingua. Chissà se oggi avrebbe detto “Dimmi cosa pensi della traduzione automatica e ti dirò chi sei.”

 

Nota: L’immagine di apertura è stata realizzata dalla “intelligenza artificiale”. Ecco l’indicazione (prompt) data a Dall-E: “A photographic image that depicts AI struggling to understand the tricky complexities of a literary novel”.

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