cropped-305009.jpgdi Umberto Fiori

[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la dua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori  del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso.  È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questo intervento è uscito il 9 maggio 2012].

I sette vecchi

Brulicante città, città piena di sogni,
dove lo spettro in pieno giorno ferma il passante!
Dappertutto i misteri scorrono come linfe
dentro i canali angusti del colosso possente!

Una mattina, mentre nella squallida via
le case, che la nebbia rendeva ancor più alte,
mimavano le rive di un grande fiume in piena,
e, paesaggio simile all’anima del guitto,

una nebbia giallastra inondava lo spazio,
io seguivo coi nervi tesi, come un eroe,
discutendo con la mia anima, già stanca,
il viale sconquassato dai pesanti carriaggi.

D’improvviso, un vegliardo i cui stracci giallognoli
avevano il colore di quel cielo piovoso,
e il cui aspetto avrebbe fatto piovere gli oboli
senza la cattiveria che brillava in quegli occhi,

mi apparve. Le pupille parevano inzuppate
nel fiele; le sue occhiate acuivano il gelo,
e la sua lunga barba, dura come una spada,
si protendeva, simile alla barba di Giuda.

Non era solo curvo, ma spezzato, la schiena
formava con le gambe giusto un angolo retto,
tanto che il suo bastone, completando il suo aspetto,
gli dava l’aria sghemba e l’impacciato incedere

d’un quadrupede zoppo, o di un ebreo a tre zampe.
Nella neve e nel fango si impegolava, come
se con le sue ciabatte calpestasse dei morti,
non tanto indifferente, ma ostile all’universo.

Dietro, il suo sosia: barba, schiena, bastone, stracci,
in tutto uguale, uscito dal medesimo inferno,
quel clone centenario; i due spettri bizzarri
procedevano insieme verso una meta ignota.

Di che infame complotto ero dunque in balìa,
quale caso perverso mi umiliava così?
Io contai sette volte, di minuto in minuto,
quel vegliardo sinistro che si moltiplicava!

Colui che si fa beffe della mia ansia, e che
non è preso dal morso di un brivido fraterno,
rifletta che malgrado tanta decrepitezza
i sette mostri avevano l’aria di essere eterni!

Avrei forse io, da vivo, contemplato l’ottavo,
gemello inesorabile, ironico e fatale,
disgustosa Fenice, figlio e padre di sé?
-Ma io voltai le spalle a quel corteo infernale.

Snervato come un ebbro quando ci vede doppio,
tornai a casa, chiusi la porta, spaventato,
malato e intirizzito, con l’anima sconvolta,
ferita dal mistero e dall’assurdità!

Invano la ragione ricercava la barra;
la tempesta giocando annullava gli sforzi,
e l’anima danzava, danzava, vecchia barca
senz’alberi, su un mare mostruoso e senza rive!

Les sept veillards

Fourmillante cité, cité pleine de rêves,
où le spectre en plein jour raccroche le passant!
Les mystères partout coulent comme des sèves
dans les canaux étroits du colosse puissant.

Un matin, cependant que dans la triste rue
les maisons, dont la brume allongeait la hauteur,
simulaient les deux quais d’une rivière accrue,
et que, décor semblable à l’âme de l’acteur,

un brouillard sale et jaune inondait tout l’éspace,
je suivais, roidissant mes nerfs comme un héros
et discutant avec mon âme déjà lasse,
le faubourg secoué par les lourds tombereaux.

Tout à coup, un vieillard dont les guenilles jaunes
imitaient la couleur de ce ciel pluvieux,
et dont l’aspect aurait fait pleuvoir les aumônes
sans la méchanceté qui luisait dans ses yeux,

m’apparut. On eût dit sa prunelle trempée
dans le fiel; son regard aiguissait les frimas,
et sa barbe à longs poils, roide comme une épée,
se projetait, pareille à celle de Judas.

Il n’était pas voûté, mais cassé, son échine
faisant avec sa jambe un parfait angle droit,
si bien que son bâton, parachevant sa mine,
lui donnait la tournure et le pas maladroit

d’un quadrupède infirme ou d’un juif à trois pattes.
Dans la neige et la boue il allait s’empêtrant,
comme s’il écrasait des morts sous ses savates,
hostile à l’univers plutôt qu’indifférent.

Son pareil le suivait: barbe, oeil, dos, bâton, loques,
nul trait ne distinguait, du même enfer venu,
ce jumeau centenaire, et ces spectres baroques
marchaient du même pas vers un but inconnu.

À quel complot infâme étais-je donc en butte,
ou quel méchant hasard ainsi m’humiliait?
Car je comptais sept fois, de minute en minute,
ce sinistre vieillard qui se multipliait!

Que celui-là qui rit de mon inquiétude,
et qui n’est pas saisi d’un frisson fraternel,
songe bien que malgré tant de décrépitude,
ces sept monstres hideux avaient l’air éternel!

Aurais-je, sans mourir, contemplé le huitième,
sosie inésorable, ironique et fatal,
dégoutant Phénix, fils et père de lui même?
-Mais je tournai le dos au cortège infernal.

Exaspéré comme un ivrogne qui voit double,
je rentrai, je fermai ma porte, épouvanté,
malade et morfondu, l’esprit fiévreux et trouble,
blessé par le mystère et par l’absurdité!

Vainement ma raison voulait prendre la barre;
la tempête en jouant déroutait ses efforts,
et mon âme dansait, dansait, vieille gabarre
sans mâts, sur une mer monstrueuse et sans bords!

Tra le apparizioni che caratterizzano i Tableaux parisiens, quella che sta al centro di Les sept vieillards è delle più memorabili e inquietanti. Le tre quartine d’apertura la annunciano e le si approssimano grado a grado: nella prima si allude ai sogni, agli spettri, ai misteri di cui è popolata la città, colosse puissant (col termine colossokolossòs: simulacro, doppio- già affiora il tema centrale); nella seconda, tempo e luogo si precisano: un mattino d’inverno, il décor teatrale di un viale parigino invaso dalla nebbia. Nella terza, dal tetro paesaggio emerge il poeta: è teso come un eroe, pronto ad affrontare una minaccia imprecisata, che già sembra covare nel fragore dei carri che scuotono la via (i suoni cupi dell’ultimo alessandrino –le faubourg secoué par les lourds tombereaux- intonano l’avvicinarsi del disastro). Nella quinta strofa la tensione accumulata trova uno scioglimento, annunciato dal Tout à coup iniziale (v.13) come da uno squillo di tromba. Il vieillard prende corpo verso dopo verso, mentre una rete di subordinate lo cattura e lo tiene sospeso; il verbo della principale, m’apparut, arriva soltanto all’inizio della strofa successiva, dopo un arditissimo enjambement. Questo salto fa assumere al termine un peso inusitato: l’apparire non è una fra le tante possibili azioni del soggetto in questione, è ciò che il vecchio sostanzialmente fa, ciò che è. Ma che cosa rappresenta, questa figura che –tout à coup– si manifesta? Che cosa appare a Baudelaire?

*

Anziché concludersi, la descrizione si precisa e si approfondisce per ben quattro quartine. Come in Les aveugles, anche qui si avverte un senso di concitazione, come se il poeta temesse di tralasciare qualche dettaglio di ciò che gli è apparso, come se fosse ansioso -quasi a giustificare la propria reazione- di restituirci integralmente la figura del vecchio, e insieme di liberarsene. Come nella rappresentazione dei ciechi, il suo atteggiamento ricorda quello di un bambino piccolo, turbato e al tempo stesso morbosamente attratto dalle deformità che si trova di fronte. Nella sua descrizione, l’umana pietà non riesce a vincere il ribrezzo. Il personaggio che appare a Baudelaire è un anziano pitocco, i cui stracci e le cui sofferenze –come si dice già nella quarta quartina- farebbero piovere le elemosine, se non fosse per la malvagità che gli brilla negli occhi,  respingendo ogni moto di compassione e raggelando l’aria già fredda. Il suo aspetto, a prima vista, è quello di un povero vecchio oppresso dall’indigenza e dall’infermità, ma tale apparenza è violentemente contraddetta dal suo contegno. Come dimenticare quelle misere ciabatte che –impegolate nella neve e nel fango- sembrano calpestare dei morti? La sua condizione di “quadrupede zoppo”, di “ebreo a tre zampe” (perdoneremo al poeta il pregiudizio antisemita?), il vieillard sembra esibirla con fierezza, quasi con arroganza. Il vecchio è l’Altro: l’animale, l’estraneo. La sua alterità è inaccessibile, inviolabile, assoluta. Non come un essere umano si comporta, ma come un immortale (l’antichissimo Crono? Lo zoppo Efesto?). La sua miseria rabbiosa e deforme si impone come un invincibile numen. Il dèmone che per suo tramite si manifesta è l’ostilità. Non il comprensibile rancore di un diseredato nei confronti di qualcuno, di qualcosa, o il risentimento del misantropo verso l’umanità in genere: ostilità all’universo (v.28).

*

A colpire Baudelaire –come testimonia l’inquieta accuratezza della descrizione- è innanzitutto la singolarità del personaggio che gli si para di fronte. La sua apparizione improvvisa, gli stracci, l’intensità dello sguardo, fanno pensare all’indimenticabile irruzione di un altro terribile vecchio: l’Ancient Mariner del poema di Coleridge. Come il marinaio della Ballata, anche lo spettro di Baudelaire esibisce la sua terrificante oscurità in pieno giorno. Ma mentre il mariner afferra per un braccio l’invitato a nozze, tra il vieillard e il passante non c’è nessun incontro, nemmeno forzato; l’inviato dell’Altro Mondo, qui, non ha una storia da raccontare, non cerca ascolto, non ha angosce o ammaestramenti da comunicare, maledizioni da formulare: al contrario, sembra sigillato nella sua abissale, torbida, sprezzante unicità. Già questo basterebbe a farne un personaggio da incubo. Ma l’incubo deve ancora incominciare.

*

E’ nell’ottava quartina che la vera apparizione si rivela. La sua mostruosità è potenziata dalla tesa pacatezza con cui si annuncia: Son pareil le suivait. L’inopinata reduplicazione del vieillard, Baudelaire ce la racconta senza sussulti e senza enfasi, come se fosse la cosa più naturale del mondo; proprio la concisione con cui ci informa, tuttavia, trasmette il senso di un evento fatale, ineluttabile.

Il vecchio e il suo doppio (nonché gli altri che seguiranno) vengono –scrive il poeta- dallo stesso inferno (v.30). Non hanno però l’aria di essere dei diavoli, almeno come uno convenzionalmente se li immagina: nessuno di loro cerca di provocare il passante, di tentarlo, di aggredirlo; i replicanti gli sfilano accanto indifferenti, perfettamente concentrati su se stessi, sul metafisico rancore che li anima. Certo sono figure cariche di ostilità, di malvagità; ma non è tanto questo a renderli infernali, quanto la loro perfetta, spaventosa somiglianza, la loro inarrestabile moltiplicazione. Il titolo farebbe pensare a una canonica compagnia di mostri: il numero sette –numinoso quanto il tre, o il nove- rinvia nella nostra memoria ai sette saggi, ai sette nani, alle sette meraviglie del mondo, ai sette peccati capitali, e così via. Il collegamento è ingannevole. In realtà, come scopriamo al v.41, la serie è aperta, anzi spalancata, e non sembra aver termine: l’ottavo vieillard è in arrivo, e dietro di lui –si presume- una schiera infinita di esseri identici.

*

Quella dei vieillards non è l’unica apparizione “plurima” nei Tableaux parisiens: anche i ciechi e le vecchine sono molteplici; ma nel caso in esame non abbiamo a che fare con un insieme di individui diversi uniti da un tratto comune: i vecchi di cui si parla non sono qualitativamente simili, sono materialmente identici. Neanche i ciechi, neanche le vecchine conoscono limiti di numero (non sono nove ciechi, poniamo, o tre vecchine); ma l’infinità dei vieillards (che sette non sono affatto, come si è visto) va ben oltre i limiti della concettualità e della sua logica. I sette vecchi non si limitano a convergere concettualmente, non sono “tutti i mendicanti rispondenti a determinate caratteristiche”: sono infiniti vieillards perfettamente identici al tipo di cui costituiscono insieme la copia e l’originale. A un certo punto (v.37) Baudelaire allenta per un attimo la tensione visionaria del suo racconto per rivolgersi al lettore più disincantato, più refrattario. Con un tono discorsivo che contrasta fortemente con quello delle quartine precedenti, egli argomenta le ragioni della propria inquietudine: i sette vecchi –ma sarebbe più giusto dire gli interminabili vecchi– sono decrepiti e insieme eterni (v.40). Non sono creature generate. E’ di qui che nasce l’orrore: ciascun vieillard è padre e figlio di se stesso (v.43).

Baudelaire paragona il suo molteplice vieillard alla Fenice, l’uccello favoloso che si consuma nel fuoco e rinasce dalle proprie ceneri; il mito però –come segnala l’aggettivo, dégoutant– assume qui un significato del tutto opposto a quello originario: non la speranza in una rigenerazione, in una vittoria sulla morte, bensì l’impossibilità della morte, il pensiero di un’immortalità senza scampo, di un’eternità da incubo, simile a quella immaginata in Le Squelette laboureur. La vecchiaia del vieillard non è un’età della vita; nessuna infanzia, nessuna giovinezza, nessuna maturità la precede; non c’è morte che possa metterle fine, darle pace. Ogni vecchio si aggiunge interminabilmente a ogni altro vecchio, che altro in realtà non riesce a essere. Non c’è vicenda, non c’è nascita, crescita, declino: solo ripetizione, replica, moltiplicazione.

*

Il vieillard è singolare, non c’è dubbio: è questo ad avere attratto l’attenzione del poeta, ad aver fatto di una qualunque presenza nella folla parigina un’apparizione; ma –ecco la scoperta nauseante- questo strambo personaggio non è davvero un singolo, un individuo. Baudelaire si trova di fronte la possibilità paradossale, diciamo pure sconvolgente, di un essere marcato da una fortissima identità, terribilmente unico, eppure infinitamente multiplo. Che senso dobbiamo attribuire allo spavento del poeta, al personaggio mostruoso che ci consegna?

Nell’improvviso manifestarsi del vecchio, nella sua infinita ripetizione, potremmo ravvisare un’ulteriore raffigurazione di quell’esperienza dello choc nella quale Benjamin –prendendo spunto da À une passante– individua il nucleo centrale della poetica baudelairiana[1]. L’irruzione del vieillard non ha un prima né un dopo, non genera una storia, non ha un esito: ricomincia, si ripete identica a se stessa come il gesto dell’operaio alla catena, come il lancio di dadi del giocatore d’azzardo. I suoi passi, venuti da chissà dove, procedono verso un but inconnu; più che camminare, in effetti, il vecchio calpesta dei morti. Con lui non c’è incontro: la sua apparizione è un urto casuale che non ha un seguito, se non la fuga inorridita di chi lo ha subìto e l’abissale smarrimento delle ultime quartine.

Nel corteo infernale dei vecchi potremmo vedere un’allucinata rappresentazione della folla urbana come vuota moltitudine; nella loro identità seriale, nella loro intercambiabilità, il carattere di merce che ogni aspetto del mondo viene ad assumere nell’epoca dell’industrialismo e del capitalismo. Come la merce, il vecchio è immagine di se stesso, fantasma (Fantômes parisiens era il titolo originario dei Sept vieillards) di un bene, di un valore che ci viene offerto e sottratto col medesimo gesto.

*

Queste possibili interpretazioni non esauriscono, tuttavia, l’eccesso di senso che sta alla radice dell’orrore prodotto dal vecchio mendicante. Come altre apparizioni delle Fleurs du mal, i sette vecchi configurano una allegoria (“tout pour moi devient allégorie”, scrive Baudelaire in Le Cygne); ma mentre nel caso dei ciechi, della passante e soprattutto del cigno, il significato della figura presentata è relativamente trasparente, a volte addirittura esplicito, quello dei Sept vieillards rimane enigmatico. Qui, l’altrove (alle) a cui la figura rimanda o da cui parla (agoreuo) si sottrae al dominio della ragione (“vainement ma raison voulait prendre la barre”, v.49), è un mare “mostruoso e senza limiti” (v.52). Ancora con un’allegoria, assai più perspicua e convenzionale, Baudelaire ci descrive gli effetti dell’apparizione dei vecchi[2]: la ragione non riesce più a governare ciò che vede, deve arrendersi al suo nauseante “sdoppiamento”; una tempesta si oppone ai suoi sforzi, ma lo fa en jouant, come per gioco; quel gioco crudele sembra contagiare anche l’anima che, invece di opporglisi, si mette a danzare come una vecchia scialuppa senza alberi né vele. L’illimitato conquista la mente, il terrore si scioglie in danza, la ragione rinuncia a governare il rinvio che fermenta nelle apparizioni, si abbandona ubriaca al mare senza rive dell’insensato. Il meccanismo dell’allegoria gira a vuoto, l’immagine non rimanda a nulla di determinato. Eppure, nella nostra memoria, la figura del vecchio e della sua inarrestabile metastasi è sempre più chiara.


[1] W.Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1976, p.100 e sgg.

[2] L’immagine presenta non poche analogie con un passo di De Quincey sulla “tirannia del volto umano” che Baudelaire cita nei Paradisi artificiali: “Allora sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli; la mia agitazione diventò infinita e il mio spirito balzò e rotolò con le onde dell’Oceano”. Ancora De Quincey racconta la allucinante “moltiplicazione” di un Malese nella sua mente (I paradisi artificiali, Milano, Guanda, 1980, p.118).

4 thoughts on “Lettura di “Les sept vieillards” di Charles Baudelaire (“Les fleurs du mal”, XC)

  1. BAUDELAIRE, DE QUINCEY, E “LE SEPT VEILLARDS” DI EFESO. Una nota a margine…

    SE E’ VERO, COME E’ VERO, CHE IL SEGNIFICATO della figura dei “Sept vieillards” rimane “enigmatico”
    +
    “[…] Qui, l’altrove (alle) a cui la figura rimanda o da cui parla (agoreuo) si sottrae al dominio della ragione (“vainement ma raison voulait prendre la barre”, v.49), è un mare “mostruoso e senza limiti” (v.52). […] Baudelaire ci descrive gli effetti dell’apparizione dei vecchi [2]: la ragione non riesce più a governare ciò che vede, deve arrendersi al suo nauseante “sdoppiamento”; una tempesta si oppone ai suoi sforzi, ma lo fa en jouant, come per gioco; quel gioco crudele sembra contagiare anche l’anima che, invece di opporglisi, si mette a danzare come una vecchia scialuppa senza alberi né vele”,
    +
    E’ ALTRETTANTO VERO CHE (COME E’ DETTO NELLA “NOTA 2”) “L’immagine presenta non poche analogie con un passo di De Quincey sulla “tirannia del volto umano” che Baudelaire cita nei Paradisi artificiali:
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    “Allora sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli; la mia agitazione diventò infinita e il mio spirito balzò e rotolò con le onde dell’Oceano”.
    +
    MESSO A FUOCO QUESTO LEGAME E, AMPLIANDO LO SGUARDO SULLO SPAZIO LETTERARIO E STORICO, A CUI RINVIANO PER LA LORO STESSA FORMAZIONE SIA BAUDELAIRE SIA DE QUINCEY, FORSE, E’ IL CASO DI RIAPRIRE LA DISCUSSIONE SUL TEMA E RIPENSARE ALLA LEGGENDA DEI “SETTE DORMIENTI DI EFESO” (https://it.wikipedia.org/wiki/Sette_dormienti_di_Efeso).
    +
    PROBABILMENTE, un indizio per la risoluzione dell’enigma del significato della figura dei “Sept viellards” è da rintracciarsi nella sintesi “storiografica” (e “teologico-politica”) dello “chá timent de l’orgueil” (“L’orgoglio punito” di “Les Fleurs du Mal”) e, al contempo, al ‘fatto’ segnalato già da De Quincey, che “sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli”.
    +
    GIOVANNI MACCHIA: “Baudelaire aveva ragione. La nostra epoca è divenuta sempre più «baudelairiana». E’ divenuta baudelairiana senza che noi siamo tornati indietro d’un passo” (Charles Baudelaire, “Poesie e Prose”, Milano 1973).
    +
    Federico La Sala

  2. I “PARADISI ARTIFICIALI” E IL “RIDUZIONISMO” CRITICO DELL’INDAGINE DI ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (KANT) REALIZZATA DAL “VISIONARIO” THOMAS DE QUINCEY DA PARTE DI CHARLES BAUDELAIRE. Un “invito” alla ri-lettura delle opere dell’uno e dell’altro…

    Alcuni “appunti” dai “Paradisi artificiali”:

    A) “UN FALSO EPILOGO”. Nella seconda parte dei “Paradisi artificiali”, dedicato a “Un mangiatore d’oppio”, in un capitoletto intitolato “un falso epilogo”, Baudelaire così scrive: “De Quincey ha stranamente abbreviato la fine del suo libro, così come, almeno,
    apparve nell’edizione primitiva. Ricordo che la prima volta che lo lessi, molti anni fa (e
    non conoscevo la seconda parte, Suspiria de profundis, che non era stata d’altronde
    pubblicata), mi chiedevo di tanto in tanto: Quale può essere la conclusione di un libro
    simile? […] mi dicevo: Robinson alla fine può lasciare la sua isola; una nave può approdare a una riva, per quanto ignota, e riportarne il solitario eremita; ma quale uomo può uscire dall’impero dell’oppio? Così, continuavo a pensare tra me e me, questo libro singolare, confessione veritiera o puro parto della fantasia (quest’ultima ipotesi era del tutto improbabile per quell’aura di verità che aleggia su tutto l’insieme e per l’inimitabile accento di sincerità che accompagna ogni dettaglio), è un libro senza conclusione.
    +
    -[…] mi ricordavo che il mangiatore d’oppio aveva annunciato da qualche parte, all’inizio, che era finalmente riuscito a sciogliere, anello per anello, la catena maledetta che vincolava tutto il suo essere. Dunque, la conclusione mi era del tutto inattesa, e confesserò con franchezza, che, quando la conobbi, malgrado tutto l’apparato di minuziosa verisimiglianza, istintivamente ne diffidai. Non so se il lettore condividerà la mia impressione a questo proposito; ma dirò che l’espediente sottile, ingegnoso, attraverso cui l’infelice esce dal labirinto stregato dove per sua colpa s’era perduto, mi parve un’invenzione in favore di un certo cant britannico, un sacrificio in cui la verità era immolata per onorare il pudore e i pubblici pregiudizi. Ricordate quante
    precauzioni ha preso prima di cominciare il racconto della sua Iliade di mali, e con quale
    attenzione ha rivendicato il diritto di procedere in confessioni addirittura salutari. Un
    popolo vuole epiloghi morali, un altro epiloghi consolanti. […]

    +
    De Quincey ha forse pensato allo stesso modo e vi si è adeguato.[…] Sia come si voglia, ecco l’epilogo. Dopo parecchio tempo, l’oppio non faceva più sentire il suo potere con incantesimi, ma con tormenti, e tali tormenti (il che è perfettamente credibile e in accordo con tutte le esperienze relative alla difficoltà di rompere con le vecchie abitudini, a qualunque genere appartengano), erano cominciati con i primi sforzi per liberarsi di questo quotidiano tiranno. Tra due agonie, l’una dovuta all’uso continuo, l’altra al regime interrotto, l’autore, ci narra, preferì quella che comportava una possibile liberazione […].

    -[…] La morale del racconto si rivolge solo ai mangiatori d’oppio. Che imparino a tremare, e che sappiano, con questo straordinario esempio, che è possibile rinunciare a questa sostanza, dopo diciassette anni di uso e otto di abuso dell’oppio. Possano, egli aggiunge, riporre una
    maggiore energia nei loro sforzi, e raggiungere alla fine il medesimo successo!
    +
    «Jeremy Taylor suppone che forse ugual dolore è nel nascere come nel morire.
    Credo che sia molto probabile; e durante il lungo periodo dedicato alla diminuzione
    dell’oppio, provai tutti i tormenti di chi passa da una regola di vita a un’altra. Il risultato
    non fu la morte, ma una specie di rinascita fisica… Mi resta ancora come un ricordo della
    mia prima condizione; i miei sogni non sono perfettamente calmi; il temibile turgore e
    l’agitazione della tempesta non si sono perfettamente placati; le legioni di cui erano
    popolati i miei sogni indietreggiano, ma non tutte sono partite; il mio sonno è tumultuoso,
    e, simile alle soglie del Paradiso quando i nostri primigeni genitori si rivolsero a
    contemplarle, è sempre, come dice il verso terrificante di Milton:
    +
    Gremito di facce minacciose e di braccia fiammeggianti».
    +
    -L’appendice (che data dal 1822) è destinata ad avvalorare più minuziosamente la
    verisimiglianza di questo epilogo, a offrirle per così dire una rigorosa fisionomia medica. […]”.

    B) “IL GENIO BAMBINO”. Le Confessions portano la data del 1822, e i Suspiria, che le seguono e le completano, sono stati composti nel 1845. Anche il tono, di conseguenza, è, se non completamente diverso, almeno più serio, più triste, più rassegnato. Scorrendo più e più volte queste singolari pagine non potevo impedirmi di fantasticare sulle diverse metafore di cui si
    servono i poeti per raffigurare l’uomo che è ritornato dalle battaglie della vita, è il vecchio
    marinaio dalle spalle curve, dal volto solcato da un viluppo inestricabile di rughe, che
    riscalda davanti al suo focolare un’eroica carcassa scampata a mille avventure […]
    +
    -L’Introduction dei Suspiria ci insegna che per il mangiatore d’oppio vi è stata una
    seconda e una terza ricaduta, malgrado tutto l’eroismo dimostrato nella sua paziente
    guarigione. È ciò che egli chiama a third prostration before the dark idol. […].
    +
    Le Confessions ci hanno narrato gli eventi giovanili che avevano potuto render legittimo l’uso dell’oppio. Ma ci sono ancora due importanti lacune, l’una che include le fantasie generate dall’oppio durante il soggiorno dell’autore presso l’Università (è ciò che chiama le sue Visioni d’Oxford); l’altra, il racconto delle sue impressioni d’infanzia. Così, nella seconda parte come nella prima, la biografia servirà a piegare e a verificare, per così dire, le misteriose avventure del cervello. Ed è negli appunti che si riferiscono all’infanzia che troveremo la causa delle strane fantasie dell’uomo adulto, e per meglio dire, del suo genio. […]”
    +
    C) “L’opera (Confessions of an english opium-eater, being an extract from the life of a scholar) è divisa in due parti: l’una, Confessions, l’altra, che la completa, Suspiria de profundis. Ognuna
    è ulteriormente suddivisa in differenti parti […] Il mangiatore d’oppio aveva da tempo interrotto i suoi studi […] la sua vera vocazione, la filosofia, era del tutto trascurata. […] È nel 1804 che per la prima volta ha conosciuto l’oppio. Otto anni sono passati, felici e nobilitati dallo studio. Siamo adesso nel 1812. Lontano, molto lontano da Oxford, a una distanza di duecentocinquanta miglia, confinato in un eremo alle falde dei monti, cosa fa, ora, il nostro eroe (certo, merita proprio questo titolo)? Prende oppio, ovviamente! E che altro? Studia la metafisica tedesca; legge Kant, Fichte, Schelling […] Il mangiatore d’oppio aveva da tempo interrotto i suoi studi.
    +
    -[…] La filosofia e la matematica richiedono un’applicazione costante e continua, e adesso la sua mente indietreggiava di fronte a questo compito giornaliero con un’intima e desolante
    coscienza della sua debolezza. Una grande opera, a cui aveva giurato di sacrificare tutte le
    sue forze, e il cui titolo gli era stato suggerito dalla reliquiae di Spinoza: De emendatione
    humani intellectus, non veniva portata a termine, abbozzata e sospesa, con l’aspetto
    desolato di quei grandi edifici intrapresi da governi prodighi o da architetti imprudenti.
    +
    -[…] Tuttavia un amico di Edimburgo, nel 1819, gli inviò un libro di Ricardo, e prima d’aver terminato il primo capitolo, ricordandosi che egli stesso aveva
    profetizzato la venuta di un legislatore di quella scienza, esclamò: «È lui!». Lo stupore e la
    curiosità erano resuscitate […]
    +
    – Il nostro sognatore, pieno di entusiasmo, ringiovanito, riconciliato con la riflessione e il lavoro, si mette a scrivere, o meglio detta alla sua compagna. Gli sembrava che l’occhio scrutatore di Ricardo avesse lasciato sfuggire qualche importante verità, la cui analisi, ridotta dai procedimenti algebrici, poteva diventare argomento di un interessante volumetto. Il risultato di questo sforzo di malato furono i Prolegomeni a tutti i futuri sistemi di economia politica. Aveva preso accordi con un tipografo di provincia, che abitava a diciotto miglia dalla sua casa; al fine di stampare più in fretta l’opera, aveva assunto, addirittura, un tipografo supplementare; il libro era già stato annunciato due volte; ma, ahimè! restava da scrivere una prefazione (la fatica di una prefazione!) e una magnifica dedica a Ricardo; che fatica per un cervello debilitato dai piaceri di un’orgia permanente! O umiliazione di un autore nervoso,
    tiranneggiato dall’interiorità! L’impotenza si levò, terribile, invalicabile, come i ghiacci del
    polo; tutti gli accordi furono disdetti, il tipografo licenziato, e i Prolegomeni, vergognosi, si
    adagiarono a lungo, vicino al loro fratello maggiore, il famoso libro suggerito da Spinoza. […]
    (cfr. Charles Baudelaire, “Paradisi artificiali”: http://www.writingshome.com).
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    Federico La Sala

  3. P.S. – MEMORIA POETICA, STORIOGRAFIA, E FILOLOGIA. “IL DANTE D(E)I CAPRONI”, “LES FLEURS DU MAL” DI BAUDELAIRE, E WALTER BENJAMIN:
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    “[…] L’intreccio fra Dante, Leopardi, Baudelaire, Caproni, si fonda su un’immagine mentale, su un’icona emozionale: e l’alternativa «Enfer ou Ciel» sintetizza, annullandola immediatamente («qu’importe?»), l’opposizione fra «ire in giù» e «com’altrui piacque» […].
    Già in Baudelaire d’altronde si era costituita una fondamentale linea tematica di memoria poetante, in cui la Commedia esercita un ruolo che definirei di asse di rotazione. La lirica di chiusura delle Fleurs sembra davvero rileggere come in uno specchio la conclusione della Commedia. Baudelaire dovette avere luminoso negli occhi e nella memoria il fulgore, l’éclair della visione finale di Dante (così rendevano il vocabolo le versioni francesi del poema, e così anche Walter Benjamin tradurrà il verbo aufblitzen traducendo le sue Tesi di filosofia della storia, per indicare «il lampo in cui l’immagine dialettica balena») […]”(cfr. CorradoBologna, in «Tutti riceviamo un dono». Giorgio Caproni trent’anni dopo, a cura di Corrado Bologna, EDIZIONI DELLA NORMALE, 2024, pp. 148-149: https://www.insulaeuropea.eu/wp-content/uploads/2024/10/Tutti-riceviamo-un-dono.pdf ).

  4. P. S. – 2. CULTURA E SOCIETA’: LA BORIA DELL’ASTUZIA DELLA RAGIONE E “L’ORGOGLIO PUNITO”. Una breve sintesi critica della “fenomenologia dello spirito” europeo da parte di Charles Baudelaire.
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    L’ORGOGLIO PUNITO (“CHÂTIMENT DE L’ORGUEIL”):
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    Nella felice età in cui la Teologia /
    era fiorente, forte per linfa ed energia, /
    si racconta che un giorno un illustre dottore /
    dopo aver incrinato i più scettici cuori /
    e smosso dal profondo i più tetri pensieri, /
    dopo essersi sospinto nei celesti sentieri /
    aprendovi passaggi intricati ed oscuri, /
    transitabili solo dagli Spiriti puri, /
    come chi per l’azzardo è afferrato dal panico, /
    gridò, caduto in preda di un orgoglio satanico: /
    “Piccolo mio Gesù, t’ho levato assai in alto! /
    Se al punto tuo più debole avessi mosso assalto, /
    la tua vergogna pari sarebbe alla tua gloria /
    e saresti soltanto un feto derisorio”.
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    Ecco che in lui di colpo disparve la ragione, /
    di lutto si velò quell’abbagliante sole, /
    e dilagò un grande caos in quella mente /
    ch’era un tempio sfarzoso, ordinato, opulento, /
    nei cui spazi regnava il lusso e lo splendore. /
    Il silenzio e la notte invasero il suo cuore, /
    come in una cantina ch’è fatta inaccessibile. /
    A una bestia randagia allora parve simile, /
    privo di percezioni, per i campi disperso, /
    brutto, inutile, sporco, oggetto vecchio e perso, /
    non sapeva distinguere l’estate dall’inverno, /
    per i ragazzi segno di risate e di scherno.
    +
    (Charles Baudelaire,”I Fiori delMale”, XVI: “Poesie e Prose”, Milano 1973).
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    Federico La Sala

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