di Agostino Cera

 

Riprendendo a poche ore di distanza una quasi indiscrezione annunciata dal «New York Times» lo scorso 5 marzo[1], la rivista «Science» dava notizia della bocciatura ufficiale dell’Antropocene quale aspirante epoca geologica nei seguenti termini: “a panel of two dozen geologists has voted down a proposal to end the Holocene […] and inaugurate a new epoch, the Anthropocene”[2].

Questa sentenza – “l’episodio più recente della saga”, come mi ha scritto un collega, commentando l’accaduto – certifica un processo lungo e faticoso, cominciato nel 2009: anno in cui la Subcommission on Quaternary Stratigraphy (SQS) – un sottogruppo della International Commission on Stratigraphy (ICS), l’istituzione posta a presidio della Geological Time Scale (GTS) – ha affidato al geologo inglese Jan Zalasiewicz il compito di formare lo Anthropocene Working Group (AWG): un comitato di esperti, non solo geologi, che si occupasse di selezionare e vagliare eventuali prove a favore dell’Antropocene, per sottoporle poi al giudizio dello stesso ICS. Al culmine dell’ingente lavoro svolto dall’AWG – che recentemente aveva individuato persino un golden spike (una sorta di “pistola fumante”, in gergo geologico) per l’ipotesi antropocenica, sul fondale del lago Crawford in Canada[3] –, la recentissima bocciatura sancisce che, dal punto di vista squisitamente geologico, ci troviamo ancora nell’Olocene: la seconda epoca (successiva al Pleistocene) del periodo Quaternario, iniziata poco meno di 12000 anni fa, proposta nel 1850 dal paleontologo francese Paul Gervais e certificata in via ufficiale nel 1882.

 

Mentre il NYT si limitava a prendere atto del “Nope” proferito dalla scienza geologica alla domanda “Are We in the ‘Anthropocene’, the Human Age?”, «Science» titolava il proprio articolo: “The Anthropocene is dead. Long live the Anthropocene”, con ciò rimarcando come, malgrado il rigetto geologico, “the concept is here to stay”. Più che di un’affermazione si tratta di una constatazione, condivisibile/appurabile da chiunque possegga una familiarità anche minima con questo concetto, diventato nel corso dei suoi poco più di due decenni di vita un termine d’uso e di senso comune. Un topos a rischio costante di scivolare in cliché.

Qui di seguito vorrei chiarire brevemente le ragioni per le quali, a mio avviso, il titolo/constatazione di «Science» debba valere non solo in riferimento all’Antropocene essoterico (quello di senso e uso comune, non bisognoso di una particolare legittimazione scientifica), ma anche rispetto all’Antropocene esoterico (la sua versione peculiarmente scientifica). In altri termini, vorrei porre in evidenza quella che ritengo l’inconsistenza scientifica di questa bocciatura geologica[4].

 

La prima valutazione da fare a tale scopo è che la variabile cronologica gioca un ruolo determinante nell’economia di questo discorso. Vale a dire che, se per assurdo, la bocciatura geologica dell’Antropocene fosse avvenuta, ad esempio, nel 2002 o 2003 – cioè, all’indomani della proposta formulata da Paul Crutzen nel 2000, in seno a un altro consesso scientifico istituzionale: lo International Geosphere-Biosphere Programme (IGBP)[5] –, avrebbe avuto un significato assai diverso da quella pronunciata tre settimane fa. Probabilmente, essa sarebbe stata in grado di “soffocare l’Antropocene nella culla”. Nel 2024, invece, quella sentenza racconta una storia del tutto diversa: essa dice molto di più sulla geologia (sulla scienza geologica istituzionalizzata) che non sull’Antropocene ovvero sulla paura – per molti aspetti comprensibile – da parte di una “scienza rispettabile” di accettare una sfida che, da un punto di vista epistemico, avrebbe davvero rischiato di condurla, per citare Crutzen, in una “terra incognita”[6].

 

L’impressione è che la geologia si sia spaventata prima e irrigidita poi al cospetto di qualcosa che la forzava a mettere in questione: se stessa, le proprie certezze – su tutte la “monumental semiotic of ‘timeless’ geological deep time”[7] – e le proprie regole di ingaggio, a cominciare dai criteri applicati nella costruzione di tassonomie e periodizzazioni. Qualcosa che la spingeva a mutare, almeno in parte, la propria natura e funzione: a cessare di essere una scienza esclusivamente constatativa e descrittiva (che guarda all’indietro), per trasformarsi in una scienza anche predittiva (che guarda in avanti). Almeno per il momento – in effetti, è facile prevedere che la faccenda non sia chiusa, ma soltanto rimandata – la geologia ha ritenuto quella istanza troppo audace, troppo radicale. Vistasi minacciata dalla sfida antropocenica, ha optato per un atteggiamento conservativo, teso anzitutto a preservare il suo “buon nome” in quanto disciplina scientifica.

 

Detto per inciso, questa è la reazione esattamente opposta rispetto a quella assunta sull’altra sponda delle “due culture”. Mi riferisco, in particolare, alla presa di posizione da parte del sapere storico (della “scienza storica”, se si preferisce), il quale sin dal 2009, per bocca di un suo rappresentante eminente quale è Dipesh Chakrabarty, ha scelto di accettare quella sfida. Prendendo atto dell’instaurarsi di un nuovo “climate of history”, ha decretato la conseguente necessità di accantonare definitivamente la separazione tra storia umana e storia naturale[8].

Tuttavia, nel corso di questi quasi 25 anni, ed è questo il punto più interessante dell’intera questione, l’Antropocene ha dimostrato di non avere più bisogno di una legittimazione geologica per esistere. Ciò dicendo, non alludo al fatto che questa idea, e le innumerevoli suggestioni a essa legate o da essa ispirate, abbia gradualmente colonizzato le discipline umanistiche (filosofia, in primis), il dibattito pubblico e persino la cultura popolare, la quale vi ha scorto una fondata possibilità per dare finalmente un nome e un significato alla congiuntura che stiamo vivendo. Per fare dell’Antropocene il métarécit della nostra epoca. Alludo, piuttosto, al fatto che l’Antropocene possa svolgere una tale funzione metanarrativa (ed epocale, politica, culturale, popolare…) non indipendentemente da una sua legittimazione scientifica, bensì proprio – per non dire, esclusivamente – in virtù di essa. Legittimazione scientifica che però, nel frattempo, ha smesso di identificarsi con quella geologica. In altri termini: il dato più evidente e più sorprendente di questa breve ma vivace storia è che l’Antropocene ha costruito/sta costruendo la propria legittimità scientifica con le sue stesse mani, edificando – o quantomeno solidificando – la propria nicchia epistemica. Il riferimento va a quel novero di discipline rubricate sotto l’etichetta, non sempre facile da mettere a fuoco, di Earth System Sciences (ESS)[9], emerse almeno un paio di decenni prima della proposta di Crutzen ma che hanno trovato la propria definitiva credibilità proprio a partire da quella proposta, aggrumandosi intorno a quell’idea.

 

L’ipotesi antropocenica – l’attestazione incontrovertibile che “humankind has become a global geological force in its own right” ovvero che “human activities have become so pervasive and profound that they rival the great forces of Nature and are pushing the Earth into planetary terra incognita”[10] – si è andata via via caratterizzando come la risposta alle domande poste da quelle discipline e che rinviene il suo più immediato antefatto nell’ipotesi Gaia di Lovelock e Margulis (1974)[11], ossia nel definitivo passaggio da una concezione: statica, parcellizzata e reificata a una: dinamica, sistemica e olistica del nostro pianeta. Una concezione ben espressa dalla seguente definizione di “sistema terra” proposta, tra gli altri, da Crutzen e Steffen: “l’insieme di cicli fisici, chimici e biologici su larga scala, interagenti fra loro, e di flussi energetici, i quali forniscono il sistema di supporto vitale per la vita sulla superficie del pianeta […] lo Earth System include gli esseri umani, le nostre società e le nostre attività. In tal modo, gli esseri umani rappresentano una parte integrante dello Earth System”[12].

 

L’Antropocene sta dimostrando sul campo di essere una sorta di “iper-oggetto epistemico”: qualcosa che stressa radicalmente la tenuta dei saperi tradizionali che gli si fanno incontro; qualcosa che per venir compreso e indagato necessita di una prospettiva scientifica che sappia porsi al di là delle consuete barriere settoriali; di un approccio genuinamente interdisciplinare, multidisciplinare. Non una fusione a freddo di saperi già costituiti, ma un’osmosi degli stessi che ne superi le singole identità e rigidità di partenza. Proprio per questo una tale sfida può essere vissuta anche come una minaccia, da parte di questi saperi. Secondo Clive Hamilton il carattere spiccatamente inter- e multidisciplinare delle ESS “incorporates, and threatens to swallow, geology”[13]. Di qui quella che Hamilton giudica la sua diffidenza pregiudiziale e il conseguente arroccamento su posizioni conservative.

È questo il motivo di fondo per il quale, oggi, la geologia non è (più) in grado di intercettare, da sola, la questione antropocenica nella sua interezza; di risolverla – in un senso o nell’altro – all’interno dei propri confini disciplinari. Il suo giudizio rappresenta senz’altro un parere vincolante, tuttavia non una sentenza definitiva. Per produrre qualcosa del genere occorre ascoltare anche le voci di: ecologia, climatologia, biologia, geografia, chimica, storia naturale, paleontologia, archeologia…

 

La saga antropocenica suggerisce, tra le altre cose, che forse più che di epoche (o periodi, ere, età…) geologiche sarebbe ormai il caso di parlare di epoche ecologiche: panoramiche complessive di sistemi complessi, dei quali quello geologico rappresenta una delle componenti. A onor del vero, le partizioni geologiche non sono mai state soltanto geologiche; si tratterebbe, perciò, non di una vera riforma o cambio di paradigma, quanto della definitiva presa d’atto di uno stato di cose già vigente. La prassi geologica dimostra di essere più avanti del suo apparato teorico-istituzionale.

Dopo tutto, l’ipotesi antropocenica è stata formulata da Paul Crutzen, il quale non è stato certo un geologo puro, ma piuttosto un chimico dell’atmosfera. La sua proposta è il frutto dei suoi lavori degli anni Settanta, dedicati all’ozonosfera e alle sue fragilità. È come se, per “scoprire” l’Antropocene, Crutzen avesse effettuato dei carotaggi non verso il basso (sottoterra), ma verso l’alto (in cielo). Un metodo non propriamente consueto, dal punto di vista geologico. Più in generale, molti degli scienziati di riferimento negli Anthropocene Studies non sono geologi puri. Ciò posto, ci si potrebbe azzardare ad affermare che la stessa maniera, alquanto eterodossa, con cui essi fanno scienza – la modalità, del tutto peculiare, del loro essere scienziati – rappresenti una significativa prova a favore dell’esistenza dell’Antropocene. Al cospetto di oggetti – e soggetti – tanto nuovi, occorrono metodi e approcci parimenti inediti. Nella cornice antropocenica, anche quella epistemica promette di trasformarsi in una “terra incognita”.

 

Per le ragioni appena espresse – ovvero non solo per ciò che l’Antropocene è, ma per ciò che esso è nel frattempo diventato – ritengo che la bocciatura geologica dello scorso 5 marzo arrivi troppo tardi e il suo significato suoni perciò ben diverso da quello di una sentenza definitiva. Come detto, l’impressione è che essa racconti più della geologia, delle sue attuali tensioni interne, che non dell’Antropocene. Parafrasando un noto proverbio: qui si tratta non solo di “aver chiuso il recinto quando i buoi sono già scappati”, ma di aver scoperto che quelli ormai fuggiti non erano mai stati dei buoi[14].

Anche in chiave scientifica, dunque, quella antropocenica è una partita tutt’altro che chiusa. Una sfida ancora aperta, che attende “solo” di essere (r)accolta fino in fondo. La saga continua…

 

Note

 

[1] R. Zhong, “Are We in the ‘Anthropocene,’ the Human Age? Nope, Scientists Say.” The New York Times, published March 5, 2024 (updated March 8, 2024) https://www.nytimes.com/2024/03/05/climate/anthropocene-epoch-vote-rejected.html

[2] P. Voosen, “The Anthropocene is dead. Long live the Anthropocene: Panel rejects a proposed geologic time division reflecting human influence, but the concept is here to stay.” Science, March 5, 2024 (https://doi:10.1126/science.z3wcw7b).

[3] Cfr. A. Witze, “This quiet lake could mark the start of a new Anthropocene epoch.” Nature 619, 2023, pp. 441-442 (https://doi.org/10.1038/d41586-023-02234-z).

[4] Al netto della bocciatura geologica dell’Antropocene, avvenuta poche settimane fa, le posizioni qui espresse – in forma, per forza di cose, assai sintetica – riprendono quelle più estesamente argomentate in: A. Cera, A Philosophical Journey into the Anthropocene: Discovering Terra Incognita. Lanham: Lexington Books 2023. È pertanto a questo lavoro, particolarmente ai primi due capitoli, che mi permetto di rimandare il lettore.

[5] Come è noto, l’atto di nascita ufficiale di questa ipotesi è il manifesto antropocenico firmato da Paul Crutzen ed Eugene Stoermer. “The ‘Anthropocene’.” Global Change Newsletter 41, 2000, pp. 17–18.

[6] Cfr. W. Steffen, P. Crutzen, J. R. McNeill, “The Anthropocene: Are Humans Now Overwhelming the Great Forces of Nature?” Ambio 36 (8) 2007, pp. 614–21 (https://doi.org/10.1579/00447447(2007)36[614:TAAHNO]2.0.CO;2).

[7] Cito questa espressione, tratta da una conversazione privata con Bronislaw Szerszynski.

[8] Cfr. D. Chakrabarty, “The Climate of History: Four Theses.” Critical Inquiry 35 (2) 2009, pp. 197–222 (https://doi.org/10.1086/596640). Una versione aggiornata delle sue quattro tesi in: Id., The Climate of History in a Planetary Age. Chicago and London: The University of Chicago Press 2021.

[9] Che il fenomeno antropocenico coincida pressoché interamente con il cambio di paradigma epistemico delle ESS è la posizione sostenuta da Clive Hamilton (cfr. Id., Defiant Earth: The Fate of Humans in the Anthropocene. Cambridge and Malden: Polity Press 2017).

[10] W. Steffen et al., “The Anthropocene: Are Humans…”, cit., p. 614.

[11] J. Lovelock, L. Margulis, “Atmospheric Homeostasis by and for the Biosphere: The Gaia Hypothesis.” Tellus 26 (1–2) 1974, pp. 1–10 (https://doi.org/10.3402/tellusa.v26i1-2.9731).

[12] W. Steffen et al., “The Anthropocene: Are Humans…”, cit., p. 614.

[13] Citazione da una conversazione privata.

[14] Secondo Hamilton, una metafora ancor più efficace del rigetto geologico sarebbe quella dello “shutting the doors to keep alien invaders from contaminating the home”.

1 thought on “The Anthropocene Saga. Gli esami, anche quelli geologici, non finiscono mai

  1. Tre parole sono la condotta del mio pensiero; “ IL CAOS, Il CASO è La NECESSITÀ’ “

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