a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo

 

[Nona puntata dell’indagine sulla sulla valenza sociale della poesia contemporanea a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo. Qui tutte le altre uscite].

 

– Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?

 

Anche quando scrivo “io” sto sempre parlando di una collettività. L’io poetico è una classe sempre più inclusiva mano a mano che ci si addentra nella multidimensionalità del testo, e forse questo vale per ogni poetica, per lo meno moderna. L’io potrebbe già essere quindi una tecnica collettiva, ma ve ne sono altre, più specifiche. Lo stesso uso, ricorrente, meditato, del noi. Alle volte, molto semplicemente, scrivo “io” all’inizio e poi decido di cambiare con “noi”. La funzione grammaticale dei pronomi è una delle possibili chiavi della questione, perché il linguaggio non appartiene al soggetto, il linguaggio è sempre il frutto di una collettività, di una stratificazione storica, di una rete di relazioni. La poesia implementa e incrementa queste stratificazioni, queste reti. È la parola stessa, proprio in quanto ontologicamente, oltre che grammaticalmente, slegata da un soggetto fisico, a contenere la possibilità di una dimensione collettiva. A maggior ragione, ovviamente, quando si usa coscientemente il pronome “noi”. Un altro modo per intensificare tale consapevolezza è quella che, altrove, ad esempio in relazione alla poesia di Antonio Porta, ho chiamato “terza persona impersonale”, ovvero delle azioni verbali senza soggetto: “vedeva”, “entrano”, ecc. L’italiano, oltretutto, a differenza del francese o dell’inglese, permette di omettere il pronome, il linguaggio si concentra interamente sull’azione, il soggetto identitario si perde nell’avvenimento del gesto come parola. Per me anche questo è un “noi”, perché “noi” significa anche, e forse soprattutto, per lo meno in poesia, fluidificare le identità ed espandere, se non decostruire, la vicenda individuale in qualcosa di molto più grande, che ha a che vedere, come avete scritto anche voi nella vostra presentazione, non solo con l’umano ma anche con il non-umano, con il reale tutto. Quindi in un certo senso la riduzione, anche linguistica, anche stilistica, del soggetto in poesia, è anch’essa un modo di dire “noi”. Infine, una tecnica che si incontra spesso nel mio lavoro testuale è la sovrapposizione di parole, sovrapposizione quantistica di stati di possibilità, alle volte con una funzionalità rispetto alla questione del “noi” e in generale dell’identità, ad esempio quando vengono sovrapposti i generi di un personaggio-classe “lui/lei” o “figlio/figlia” o “marito/moglie” o anche “io/noi/loro”, ma anche “belato / grido”; istanze che in poesia non sono mai, in fondo, personaggi, ma esse stesse evento e ambiente, realtà mobili, astratte e inclusive di tutti gli orizzonti possibili, indecidibili e per questo potenzialmente totali, immagine del reale nella sua complessità e molteplicità. In fondo è forse proprio questo a interessarmi nel “noi”: la dimensione molteplice del testo poetico, stratificata, multidimensionale, non-euclidea, e per questo collettiva e, non abbiamo paura di dirlo, universale, anche se ovviamente parliamo e scriviamo sempre da un contesto culturale dato. Ma la poesia appunto ci travalica come soggetti, e quindi anche come soggetti culturali, essa si spinge verso il tutto e verso tutti. È, questo, uno slancio destinato al fallimento, non foss’altro per ragioni appunto culturali, contingenti, storiche, sociali, educative, come rilevate bene nella vostra presentazione. Ma non per questo non vale la pena tentare un tale movimento al di fuori di sé, e forse al di fuori dello stesso noi. La poesia ci ricorda che il linguaggio non ci appartiene in quanto soggetti e identità. Il linguaggio ancor prima della lingua. Si parla spesso, in particolare in Italia, dell’importanza della lingua per la poesia. Non penso che la questione della lingua sia cruciale, non penso che il discorso sulla poesia, né sulle tecniche del “noi” in poesia, cambi a seconda della lingua, né che esso sia dipendente da fattori che spesso vengono attribuiti alla lingua in poesia, quali il ritmo o la musicalità del verso, o altri aspetti prosodici, linguistici o ancora dialettologici, assolutamente secondari a mio avviso quando ci si interroga sulle implicazioni profonde del fatto poetico. I pronomi stessi, in un tale contesto, sono superati, mischiati, o quantomeno ridefiniti nel loro impatto cognitivo.

                                                                              

– Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?

                                                              

Il linguaggio è gratuito, nessuno lo detiene, non è oggetto di possesso. È a disposizione, e si rende disponibile. La poesia, usandolo, lo sottrae all’usura, lo riattiva riaprendone le possibilità e le condizioni. Da questo punto di vista succede una cosa particolare: il “noi” non presuppone un “voi”. Anche quando usiamo il pronome “voi”, il “voi” non esiste per la poesia, per lo meno nella concezione che cerco di trasmettere qui. Questo perché la poesia non presuppone opposizioni identitarie definite, e soprattutto perché è un linguaggio interamente inclusivo e non gerarchico, in un senso ben preciso: è il linguaggio del reale, ovvero quando il reale non verbale, irrappresentabile, inesprimibile, cerca di farsi linguaggio. Ciò significa che la poesia parla sempre del tutto, e integra il tutto nel suo prodursi. Come ci insegna Spinoza, ci può essere un solo tutto, una sola sostanza, non due, o mille, proprio in conseguenza dell’infinito processo di inclusione della sostanza, e questa sostanza è, in fondo, il “noi”. In profondità, nelle profondità del linguaggio, ma anche nelle superfici sterminate e mai conchiuse del senso, tutto è “noi” in poesia, perché tutto è considerato nel suo processo inglobante ma non per questo omologante, nella sua totalità che non esclude la differenza, anzi la esalta in un comune sentimento di appartenenza. Il corpo celeste più distante nello spazio e nel tempo, il sentimento di un essere vivente che neanche conosciamo, sono posti dalla poesia sullo stesso piano ontologico di quanto possiamo vedere ed esperire qui ed ora. In questo tentativo di rendere esperibili anche i colori meno visibili di ciò che chiamo, in riferimento allo spettro dei colori, spettro ontologico, la poesia abbraccia un arco infinito di paesaggio, rendendo pensabile l’infinito anche quando parla della spesa al supermercato o di un giocattolo di plastica viola abbandonato su un marciapiede. Tutto è trasfigurato, nel linguaggio poetico, sul piano della possibilità infinita. Per questo non solo non ha più senso parlare di un “voi”, di un’identità rispetto alla quale ci si dovrebbe posizionare difendendo un proprio territorio, una propria ideologia, ma neanche opporre organico ed inorganico, vivente e non-vivente in tale movimento di ridescrizione totale. La poesia è eminentemente politica, anche quando non parla di politica, perché produce questo movimento sovversivo della percezione e dell’intendimento, ponendoci di fronte, in uno stato di nudità, all’assurdità delle gerarchie e delle opposizioni identitarie, e quindi del potere. L’assurdità del potere è di ordine tecnico: presuppone una discretizzazione artificiale laddove invece vi è un continuo, presuppone rappresentazione laddove invece il reale aspetta, paziente, aperto, silenzioso, di essere riconosciuto.

                                             

– Come si può concepire, se si può, una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?

 

Per me la parola chiave è quella di “passeur”. Se ci riconosciamo come parte del tutto, del reale, dell’infinito della sostanza, chiamatelo come vi pare, siamo noi stessi soggettività aperte, stratificate, instabili come le orbite tra i corpi celesti. Nel processo di liquefazione della soggettività che emerge dal fare poetico, nel continuo di un linguaggio non mediato né mediante che è proprio alla poesia, non vi è più spazio per l’autorità. In senso politico, ma anche nel senso dell’autorità autoriale, quella dell’autrice o dell’autore. Emergiamo dunque, nello scrivere poesia, come passeurs provvisori di questa totalità in tutte le sue infinite differenze, condensazioni, strati, ci barcameniamo per tentare di aprire una condizione di esperienza e di possibilità, più che di senso da capire o da interpretare (non ho mai creduto tanto all’ermeneutica), all’interno del linguaggio. Questa, se ben capisco la domanda, cosa di cui non sono interamente sicuro, potrebbe essere un’immagine dialettica attuale. Ad essa fa eco la molteplicità di prospettive e la dimensione appunto esperienziale, e quindi immersiva, di cui parla Marilina Ciaco nella sua risposta, perché il testo poetico – e chi conosce il mio lavoro sa quanto tempo io dedichi a questo – può essere concepito come un luogo, una stanza in cui entrare, senza inizio né fine lineari, uno spazio in cui muoversi multidimensionalmente, liberato dalle costrizioni di un messaggio unico, chiaramente delineato, esauribile; e di un soggetto scrivente dominante, un soggetto che invece diventa, appunto, passeur, passante di materia e linguaggio, tramite di una forma di conoscenza altra rispetto a quella razionale, eppure necessaria al pensiero: una conoscenza senza comprensione.

 

– Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?

 

La traduzione, a mio avviso, è possibile in poesia, nonostante i cliché del traduttore-traditore e simili, in quanto ciò che si traduce in realtà non è la lingua, ma quanto la sovrasta e la eccede. Anche il traduttore è un passeur. La traduzione di poesia è completamente diversa da una traduzione volta a comunicare il senso di un testo, sono due lavori diversi, due mansioni diverse nello scambio tra le lingue. La prima, nella mia esperienza, non ha niente a che vedere con la comunicazione, è più una storia di espansioni e di passaggi, è un abbraccio tra amici. Non vedo invece, forse per mia ignoranza “continentale”, molto interesse nelle catalogazioni analitiche, prive di capacità generatrice di concetti, delle digital humanities. Vedo un certo interesse nella cosiddetta uncreative writing e in quelle che definite “scritture a distanza”, ma da un punto di vista ben diverso da chi le pratica dogmaticamente. Le vedo come uno strumento, uno degli strumenti possibili. Prelevare un testo diventa facilmente un atto formalista, obsoleto, noioso, come tanti epigonismi avanguardistici, perché il rischio sta nel dimenticare che ogni testo po(i)etico, anche quello che scrivo la mattina dopo un sogno dei più intimi, è il prodotto, ancora una volta, di stratificazioni e di reti, che condenso provvisoriamente in una porzione di reale che chiamiamo testo e in una porzione di spazio che chiamiamo soggetto. Un testo poetico, e con esso il soggetto che lo fa esistere, è sempre, in parte, inappartenente a sé stesso e appartenente invece a un ambiente da cui si differenzia e di cui ciononostante ha bisogno per esistere, come nel processo dell’autopoiesi secondo Francisco Varela. Un testo non è mai isolato, e per questo non è mai solo. Prelevare testi di altri è un modo tra i tanti, forse più visibile di altri, ma per questo anche più esauribile, per ricordare lo stato di connessione permanente del gesto poetico con altre, infinite, molteplicità. Ciò vale anche per l’IA, che non è un’estensione della coscienza più di quanto non lo sia un altro qualsiasi oggetto, materiale o immateriale che sia, ma è purtuttavia una protesi semantica, un modo per estendere il processo del linguaggio delegandolo a un’esteriorità. La poesia è piena di queste esteriorità. Tra di esse può esserci anche l’IA, che rimane e rimarrà a mio avviso, mutatis mutandis come altri dispositivi digitali, uno strumento tra gli altri. Un’esteriorità, in questo caso inorganica e digitale, tra altre esteriorità, di organicità e materialità diverse a seconda dei casi. Uno strumento quindi, ma utile e interessante, purché se ne faccia un uso sbagliato (un misuse secondo l’espressione inglese), purché non ci si sottometta alle leggi dell’interfaccia e dell’algoritmo, purché si continui a sovvertire anche quella forma di linguaggio, come la poesia ha sempre fatto con qualsiasi forma di linguaggio codificato e funzionale, contro le stabilità grammaticali di processi e protocolli che non le sono mai bastati. L’esperienza specifica per me è proprio questa: l’uso spostato, anarchico, del dispositivo. Una volta chiarita la natura interazionale del dispositivo, nei suoi usi transitivi o appunto sovvertiti, si può forse parlare di un’espansione strumentale del noi, senza mai dimenticare che anche il prodotto più sofisticato, e anche il testo più complesso peraltro, è frutto di un processo animale e quindi organico: quello dell’essere scrivente e pensante, che non è situato su un piano diverso dall’essere mangiante, amante, cacante, piangente, ecc. , in quanto essenzialmente animale.

 

 

– Come si articolano le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?

                                                                         

Per me vale ancora una volta il paradigma della stratificazione e della multidimensionalità, del continuo che vince sul discreto (anche nel senso matematico e informatico, se si pensa alla domanda precedente): nella scrittura poetica, ma anche critica, seppur in forme e con relazioni diverse, questi piani sono in stato di interferenza e di sovrapposizione permanenti. Ciò che è politico è anche cosmico, ciò che è tecnologico è anche antropologico. Tra i compiti della poesia vi è forse quello di mostrare parti più ampie, colori più nascosti in ciò che ho chiamato spettro ontologico, e quindi anche delle connessioni e delle implicazioni di tali piani, intervenendo là dove il pensiero logico zoppica, oppure là dove il pensiero ha bisogno di un sostegno sensibile, sensoriale, talora sensuale, o infine là dove la visione e il sentire incontrano ostacoli e necessitano di una conoscenza di un ordine altro, più ampio e meno definito (e definente), delle cose del mondo. La poesia, l’ho scritto spesso, è un modo per tentare di aggirare tre ostacoli paralleli e interconnessi: cognitivo (relativo ai limiti delle nostre capacità di percezione e conoscenza); emotivo (relativo a processi di rimozione e distanziazione sensibile); e politico-mediatico (relativo a processi di censura o manipolazione dell’informazione). Quindi tutte le problematiche sollevate, tanto più se sotto l’egida del “noi”, mi sembrano rilevanti per i processi di sovversione, ridefinizione e riattivazione propri alla pratica poetica. Se la filosofia, come è stato detto, interviene dove la scienza non può dimostrare, la poesia interviene dove la filosofia no può razionalizzare, producendo ciononostante forme, fondamentali benché – o piuttosto perché – instabili, di conoscenza.

 

– Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?

 

Sì, come spero di aver mostrato nelle risposte precedenti, la questione del “noi” mi sembra cruciale in poesia (e nelle sue implicazioni epistemiche e socio-politiche), purché il “noi” non sia opposto a un “voi”, purché non lo preveda neanche quando usa questo pronome per convenzione e contingenza linguistica.

1 thought on “Poesia, prima persona plurale /9: Alessandro De Francesco

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *