di Stefania Barca. Prefazione di Viviana Asara e Emanuele Leonardi
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti
[Anticipiamo la prefazione al volume di Stefania Barca, Forze di riproduzione, in uscita presso Edizioni Ambiente].
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Prefazione
di Viviana Asara e Emanuele Leonardi
Presentare Forze di riproduzione al pubblico italofono è per noi una grande gioia. Si tratta infatti di un libro importante, unico nel suo genere: da un lato manifesto politico – del genere possiede “sia la forza dell’analisi che la chiarezza della visione”1 – dall’altro, in versione “distillata”, manuale femminista di ecologia politica.2 Insomma, uno strumento dalla tripla funzionalità: griglia interpretativa per “comprendere” la casa del padrone, ruspa cingolata per “smantellarla”, piano regolatore per “ricostruire” un quartiere ecologista e solidale.
Si vede bene questo approccio multiplo rispetto alla nozione di Antropocene: Stefania Barca fa il punto sulla letteratura scientifica più recente, poi rilancia la posta in gioco facendo leva sulla sua partecipazione, fin dall’inizio, al processo dal basso che ha portato in Italia questo campo di indagine. È infatti il caso di ricordare che mentre il dibattito anglofono e francofono deflagravano – nel primo decennio del 2000 – l’accademia italiana restava sostanzialmente passiva. È stato merito di giovani studiose e studiosi, al crocevia tra ricerca e militanza, nonché di figure intellettuali più stabilite – tra cui l’autrice occupa una posizione di grande rilievo – aver portato in Italia, politicizzandolo alla radice, l’Antropocene con il suo addentellato di problematiche, limiti e opportunità.
Forze di riproduzione smaschera con grande efficacia la presunta neutralità del discorso-Antropocene, silente sulle molteplici diseguaglianze che devono essere invisibilizzate per portare sulla scena un Noi omogeneo e magniloquente: la specie umana, potente come nessun’altra e oggi pronta ad assumersi la responsabilità che da tale condizione deriva.
Di qui il paradosso che conclude il primo capitolo: benché la crisi ecologica, nelle sue molteplici sfaccettature, sia interpretata un po’ ovunque come conseguenza diretta della crescita economica – pilastro governamentale del capitalismo industriale – la soluzione ai danni che procura starebbe in più crescita economica (finalmente “civilizzata” dall’auto-riflessività delle forze produttive). Conclude l’autrice: “Il sistema in sé non è messo in discussione. Le sue disuguaglianze di genere, classe, razza e specie sono invisibili o irrilevanti. Nessun cambio di paradigma è necessario”.3
Occorre dunque, si diceva, politicizzare l’Antropocene. Per farlo in maniera efficace, tuttavia, serve un ulteriore passaggio teorico, l’affinamento di un punto di vista inedito: ed è qui che l’autrice introduce la sua innovazione concettuale più significativa, vale a dire il realismo eco-capitalista. L’operazione recupera la nota formula di Mark Fisher – “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”4 – aggiungendovi però un’ampia dose di materialismo. La “fine del mondo” che il realismo eco-capitalista ci mette di fronte, volta all’oscuramento della storicità del capitalismo in quanto ordine sociale istituzionalizzato, non è soltanto un’entità semiotica – costellazione di segni che organizza l’esperienza estetica di classi e individui – bensì l’insieme delle condizioni biosferiche che consentono la vita sulla Terra.
Qui si apre l’indicazione politica, dirompente, del libro: certo, occorre che le forze produttive si liberino dal giogo dell’organizzazione capitalistica del lavoro, se si vuole affrontare la crisi ecologica con una qualche speranza di vittoria. Tuttavia, ancor più necessario è che questa lotta di liberazione avvenga sotto la guida, esplicita e determinata, delle forze di riproduzione: solo questa inedita centralità può evitare che la retorica del Progresso torni a fare da sfondo a un compromesso tra capitale e lavoro insostenibile a livello ambientale e geopolitico, ma anche e forse soprattutto inaccettabile se si seguono le linee del genere e del colore.
Ed è qui che si aprono le danze della critica intersezionale. Difatti se l’Antropocene incarna la narrativa egemonica di una modernità capitalista e industrializzata in cui le forze di produzione (scienza occidentale e tecnologia industriale) assurgono a principale motore del Progresso e del benessere umano, destituirne l’egemonia implica smantellare le quattro dimensioni principali della razionalità padronale: classe, genere, razza e specie. Queste corrispondono a diversi livelli di rimozione su cui si basa la narrazione mainstream dell’Antropocene, che invisibilizza il lavoro riproduttivo o meta-industriale compiuto soprattutto dalle donne, dai contadini e dalle contadine, dai popoli indigeni e dal mondo non umano. L’autrice affronta in modo lucido e sistematico ognuno di questi quattro livelli di analisi e rimozione, attingendo dal pensiero ecofemminista materialista, dagli studi decoloniali e dall’ecologia politica, ibridandoli in modo fecondo, creando in questo modo nuove categorie come quella di materialismo storico interspecie. Al contempo, ampio spazio di riflessione e ispirazione viene lasciato alle voci di soggettività alternative a quella padronali, come parte di progetto di giustizia narrativa che serva a rendere visibili le vite sacrificate e a palesare storie dell’abitare umano che resistono alla violenza della modernità capitalista/industriale.
Questa critica intersezionale svela la nudità del re: la modernità padronale e capitalista si regge sulla capacità di estrarre valore dal lavoro umano e non umano, trasformando l’attività di sostentamento del vivente in strumento di accumulazione. “Disfare l’Antropocene” significa riconoscere la centralità delle forze di riproduzione; allargare il tradizionale concetto femminista di riproduzione sociale con quello di riproduzione ambientale, riconoscendo ad attiviste/i ambientali, proletari(e), indigene/i e contadine/i ecc. lo status di lavoratrici e soggetti ecologici; denunciare la “falsa” libertà creata dal patriarcato capitalista attraverso la separazione tra produzione e riproduzione/natura, perché così facendo vengono celati i costi sociali ed ecologici, scaricandoli soprattutto su donne, natura e colonie, per dirla con Maria Mies.
Se, come rimarca l’autrice, la vita degna non può che essere il risultato di una lotta per la produzione della vita e di un rifiuto dell’oggettificazione della natura e del lavoro, diventa dirimente capire le condizioni e i processi attraverso cui le forze di riproduzione possono tramutarsi in soggetto politico. Il contributo di Stefania Barca – anche al di là di Forze di riproduzione, come dimostrano i materiali ricchissimi che compongono la seconda parte di questo volume – compie un passo notevole verso questo orizzonte euristico.
Note
- Benegiamo, M., “Recensione a Forces of Reproduction”, in Diacronie. Studi di storia contemporanea, 2020, 44(4), p. 1-6.
- Val la pena di ricordare che, in Italia, ancora non esiste uno strumento didattico focalizzato sul nesso tra politica e ambiente. Ambisce a colmare tale lacuna Pellizzoni, L. (a cura di), Introduzione all’ecologia politica, Il Mulino, Bologna, 2023. Sul piano internazionale, al contrario, sul tema non c’è che l’imbarazzo della scelta; tra le tante valide opzioni, ci permettiamo di rimandare a Pellizzoni, L., Leonardi, E., Asara, V. (a cura di), Handbook of Critical Environmental Politics, Elgar, Londra, 2022.
- Infra, p. *.
- Fisher, M. Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma, 2018, p. 26.
A mio parere, il problema è semplicemente questo: “ gli animali non addomesticati dall’uomo seguono il loro istinto: un topo è un topo, in cobra è un cobra, una libellula è una libellula. L’homo è un essere che ha la “ ragione “ ma questa è largamente insufficiente per costruire ciò che è necessario per evitare la sua azione malefica. Homo stupidus stupidus?