di Adelelmo Ruggieri
Grandi viaggi, rubrica a cura di Adelelmo Ruggieri
A furia di osservarli mi sono convinto che il segreto dei pinguini è nel loro essere al tempo stesso impeccabili e impacciati. Questi animali dotati di grazia e autoironia, virtù che attribuiamo alle specie più evolute, sono in realtà dei grandi incompiuti. Non ce l’hanno fatta a diventare pesci, dato che l’acqua non è il loro elemento definitivo; pur essendo uccelli non volano più, e come bipedi sono lenti e preoccupati. [Daniele Del Giudice, Orizzonte mobile, Einaudi, 2009]
Quando Daniele Del Giudice [Milano, 11 luglio 1949 – Venezia, 2 settembre 2021] arriva a King George Island – la più grande delle isole Shetland meridionali, a centoventi chilometri dalla costa antartica – è la prima settimana dell’autunno australe del 1990, nevica piano, la temperatura è una decina di gradi sottozero, ma con calma di vento, e il buio e il silenzio sarebbero totali se non fosse per l’accorrere degli avieri. Nella baracca che funge da foresteria, c’è un caldo che asfissia e una piccola folla di lingue differenti. Molti dei presenti hanno terminato la loro campagna scientifica estiva e sperano di ripartire quel giorno stesso con l’aereo con il quale Del Giudice è arrivato da Punta Arenas, ma l’aereo non riparte e tutti prendono a sciamare nelle loro cabine con i letti a castello. A King George Island i ghiacciai ricoprono tutto; restano soltanto tratti di sassi e terriccio che le basi scientifiche contendono agli elefanti marini e ai pinguini. Ogni ora porta un vento furioso differente e la sensibilità che i luoghi chiedono alla coscienza di chi li osserva è di comprendere che loro non sanno che farsene di chi li sta osservando. Del Giudice inizia da subito a muoversi in ogni modo che può: chiede passaggi agli elicotteri della posta che partono per le altre isole o per la penisola antartica, chiede passaggi ai gommoni dei biologi; si sposta a piedi da una base all’altra. Ha imparato a sommare alla temperatura il diagramma dei venti; ha imparato a decidere, in ragione della luce che resta, il punto di non ritorno. Tutto gli appare scoperta e insieme violazione. Passa ore a guardare gli animali antartici. L’altra metà del paesaggio è il cielo: nubi iridescenti a aurore australi, pareli e paraseleni.
Sette giorni dopo, l’autore di Atlante occidentale, è in escursione con Xie Zichu, il vicepresidente del Comitato internazionale della neve e del ghiaccio, ha una sessantina d’anni, lui ne ha quarantuno. Xie gli dice di non lasciarsi conquistare dalla bellezza delle forme. Gli dice di resistere. Questa è una memoria in cristalli, devi imparare a leggerla. Quando tornano alla base Daniele gli confida che qualche giorno prima si era avventurato da solo sullo stesso ghiacciaio, era andato avanti finché sotto i piedi aveva sentito una eco opaca che non lo convinceva. Allora Xie lo guarda come fosse un pazzo, ma poi gli dà il suo biglietto da visita e lo invita a partecipare a una campagna glaciologica in Tibet. Non è il primo biglietto da visita ricevuto. Gli era accaduto anche di fermare un tale con la barba rossa che correva come un matto con la sua moto a tre gomme piene; lo ferma, gli chiede chi mai sia, e il tale si sfila occhiali e guanti, apre la giacca e gli passa un biglietto da visita con su scritto, Alejo Contreras, Guida antartica. Se voleva poteva andare con lui e tornare a piedi dal Polo. Purché lo volesse, si sarebbe fatto. “Simpatie e antipatie si raffermano presto in questo luogo, ghiacciano all’istante come fossero acqua e c’è poco tempo per modificarle”. Daniele e Alejo hanno due amici in comune, Detlev e Joachim, biologi dell’ex Germania Est che vivono in un container della marina, la loro ‘base’. La base, in Antartide, è tutto: è abitazione e laboratorio, riparo dagli elementi e punto di riferimento geografico per chi si muove da un luogo a un altro, e è un nome cui collegare un’idea di luogo e di caldo e di mangiare. Daniele delle volte va a cena da loro e mangiano cibo in scatola tedesco. Detlev dopo cena diventa nervosissimo, va in su e in giù nella stanzetta metallica. Il nervosismo di Detlev è comprensibile, i due non possono tornare a casa, la Germania si è ricongiunta ma i loro passaporti tedesco orientali non saranno accettati da nessuna frontiera chissà per quanto tempo ancora.
La terza settimana dell’autunno australe, a Deception Island, Del Giudice ripensa alla sera in cui arrivò. C’era un giovane fisico delle aurore, Jeon-Woo Kim. Quando tutti andarono a dormire, restarono a parlare e a bere birra nella baracca accanto alla pista di atterraggio. Parlarono della ionosfera e dei campi magnetici e delle aurore australi, gigantesche vampe guizzanti che colano luce colorata nel cielo buio. Kim gli spiega come a produrle sia il vento solare carico com’è di particelle subatomiche e acciuffato al polo dal campo magnetico terrestre, e si apre una cavità mobile che insieme alla rotazione della Terra produce il guizzare e l’evolvere delle aurore, i cui colori e la cui intensità dipende dal tipo di particelle eccitate e dalla intensità di quelle in arrivo dal Sole.
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Con l’ultima settimana dell’autunno australe è arrivato il tempo in cui il grande viaggio sta per finire. Del Giudice torna a King George Island ad aspettare un aereo militare che lo riporti a Punta Arenas. Paesaggio e uomini si stanno predisponendo alla solitudine della notte polare. Aveva provato anche lui quella solitudine, se l’era cercata in verità, spostandosi a piedi il più che poteva, bussando come un vagabondo alle porte delle basi, e aveva provato terrore quando credeva di essersi perso o veniva attaccato dagli stercorari perché aveva invaso il loro territorio, gli piombavano addosso gracchiando con le loro alacce marroni e i becchi dritti da albatri. Ha come l’impressione di un senso di esilio, non delle persone, che è ovvio, ma dell’Antartide in sé; sente che questo continente una volta era altrove, allacciato ad altre terre e ad altri climi, una condanna e un sospiro che solo quegli incoscienti surreali dei pinguini custodivano come angeli. Poco prima di partire passa per un bicchiere d’addio da Detlev e Joachim, Tornerai a Sud? Gli chiedono. Rispose per suo conto Xie Zichu, Lei tornerà al Sud. Lo disse “davanti alla bocca spalancata dell’aereo che aveva già ingoiato casse di campioni raccolti dagli scienziati e alcuni scienziati stessi, e che avrebbe inghiottito anche me. Anzi, mi aveva già inghiottito, e con i motori al massimo cercava di strapparsi dalla pista corta e leggermente in salita mentre sul bordo bianco oltre la linea degli oblò passano rapidissimi i ghiacci e i rilievi, alcune persone a cui mi ero affezionato, e un pinguino solitario, traballante o danzante, chi lo sa.”
Forse il segreto di Del Giudice, scrive Claudio Magris, in occasione della pubblicazione di Orizzonte mobile, è analogo a quello che egli attribuisce ai pinguini antartici, l’essere al tempo stesso impeccabili e impacciati. Impeccabile nel suo stile di persona e nella scrittura, egli di certo, esteriormente, non appare per niente impacciato; è il suo un impaccio metafisico: il senso profondo che vivere, appunto, è un impaccio, un disguido: uno scarto tra la precisione della cartografia e la superficie curva della terra, tra la necessità di dire e il tacere, fra l’amore per la vita e lo sgomento che essa incute.
Splendido
I pinguini “ esseri “ incompiuti “: quanti hanno la loro grazia, portando in un mondo glaciale, con grazia il loro frac?