di Bernardo De Luca e Tommaso Di Dio

 

[Il 23 aprile 1967 Franco Fortini pronuncia un intervento dal palco di piazza Strozzi, a Firenze, nel corso di una manifestazione nazionale per il Vietnam. Riportiamo il testo del discorso, preceduto da una riflessione in forma di dialogo fra Tommaso Di Dio e Bernardo De Luca.]

TDD:

 

Caro Bernardo,

 

mi è capitato più volte, in questi ultimi anni, di tornare a leggere un intervento che Franco Fortini tenne in piazza Strozzi, a Firenze, proprio un oggi di molti anni fa: il 23 aprile del 1967.[1] Come racconta Fortini nel 1971, raccogliendo l’intervento sulla rivista «Che fare»,[2] queste parole furono pronunciate, al crepuscolo, davanti a una piazza molto affollata di giovani e di studenti raccolti in un clima di grande tensione: era in corso una manifestazione contro la guerra del Vietnam. La guerra era iniziata diversi anni prima, ma dal 1965 aveva subìto un’intensificazione: gli Stati Uniti stavano bombardando il Vietnam con una violenza che non aveva precedenti, nel panorama internazionale, dalla fine della Seconda guerra mondiale e avrebbero continuato a esercitare una pressione militare notevole, con un coinvolgimento di uomini e mezzi che nel 1967 non aveva ancora raggiunto il picco. A rendere il clima ancora più teso e complesso, solo pochi giorni prima (21 aprile 1967), c’era stato il colpo di stato di ispirazione fascista dei colonnelli in Grecia, che secondo Fortini avrebbe «fornito agli oratori della opposizione ufficiale la possibilità di attingere all’eterno repertorio antifascista e di evitare il discorso di fondo sul Vietnam».[3] Insomma, Fortini giunge a prendere parola davanti alla piazza in uno stato d’animo «scorato e furioso»,[4] che sicuramente incise sul tono che immaginiamo veemente della sua orazione. Su questo discorso e in generale sul rapporto fra Fortini e il contesto storico di quegli anni, compreso ciò che sarebbe diventato quel movimento solo pochi mesi dopo, ha scritto ottimamente Luca Lenzini in un saggio uscito qualche anno fa e ancora consultabile on line (Fortini e il ’68, 2018). Il discorso di Fortini fece scalpore, anche per via dell’accoglienza contrastante che fu senz’altro il segno di un clima sociale e politico in rapido mutamento: sebbene accolto con consenso dalla piazza, fu ritenuto “delirante” e censurata la sua pubblicazione su «Rinascita» con uno strascico di diverse polemiche. Fortini non fu il primo a parlare e altri interventi seguirono; la manifestazione si concluse significativamente davanti al Consolato degli Stati Uniti e in Piazza del Duomo, dove ci furono scontri con la forza pubblica, preludio di altri ben più violenti che seguiranno fra polizia e manifestanti.

 

A rileggere oggi queste parole, fanno impressione alcune differenze fra ciò che sento del mio tempo e “loro”. Tutto si è trasformato, a partire da quel clima teso, plurale e sfaccettato ma che avvertiamo dalle parole di Fortini spasmodicamente coinvolto all’unisono, di contro alla nostra frammentazione di intenti e progetti, incapace di avere soggetti credibili che sappiano rappresentare, indirizzare e incanalare alcune forze presenti nel tessuto sociale odierno, per trasformarle in qualcosa che ambisca a avere effetti reali. Oggi facciamo fatica anche solo a comprendere cosa possa essere il piano del reale di contro a qualcosa che non lo è (o lo è in maniera del tutto vicaria e virtuale), figuriamoci coordinare questo supposto piano con quello delle ambizioni, dei bisogni, delle necessità… Ma certo mi colpisce anche la somiglianza di fondo di alcuni presupposti, che se in quel giro d’anni erano patrimonio di una élite (come ammette lo stesso Fortini)[5] oggi sono ancora materia di una condizione nostra comune, ma anche – sebbene non abbastanza – di discorsi che circolano con sempre maggiore urgenza. Penso all’allusione di Fortini a una certa dimensione coloniale dell’Italia e al dominio progressivo dell’economico sul politico che senz’altro erano temi su cui si rifletteva all’epoca, ma certo non appartenevano a una cerchia più ampia del discorso pubblico come oggi.

 

Ma non è per questi aspetti che torno a rileggere periodicamente queste pagine. Per il gusto di ribadire dentro di me il noto? Oppure per il sadismo autocommiserativo di chi paragona una condizione di ieri con una di oggi? No, neanche per questo. C’è qualcosa invece che mi interessa in queste parole, che mi suona ancora potente, ovvero dotata di dynamis, di una possibilità agente nel e sul nostro tessuto vitale delle persone che pensano e scrivono. Non è tanto il contenuto di queste parole e in fondo nemmeno l’esemplarità retorica, sebbene ci siano picchi stilistici notevoli (uno fra molti, l’anastrofe del participio in clausola per esempio: «per altri/ più grandi, più sterminati popoli»). Ma allora cosa?

 

A colpirmi è innanzitutto una certa posizione di chi parla: chi prende parola qui non si mette dalla parte sicura di chi ha ragione, di chi vuole avere ragione, ma dalla parte della divisione e della contraddizione. Fortini procede per divisioni antitetiche e lo ribadisce in un passaggio potentissimo, che ha senz’altro il sapore della retorica biblica – e che senza il pathos dell’oralità suona anche un po’ grottesco – ma che affonda in un punto teorico che secondo me ancora oggi è importante indicare. Fortini scrive: «Storia ed esperienza mi hanno insegnato/ che si deve oggi tendere non ad unire ma a dividere./ A dividere sempre più violentemente il mondo,/ a promuovere l’approfondita, la sola vera, la sola feconda divisione, divenuta sempre più chiara, dolorosa e necessaria,/ per entro l’unità creata dal mercato internazionale,/ per entro l’unità determinata dal potere e dall’oppressione./ Vuol dire anzitutto distruggere le false divisioni del passato,/ vuol dire vedere identificare interpretare/ l’unità confusa e corrotta che oggi esiste.» Fortini, quando parla, non parla né scrive per attestarsi su di un piano della condivisione pacificata: non scrive perché gli altri siano d’accordo con quanto sta provando a dire, ma per il desiderio di moltiplicare una frattura, di esserne la funzione esponenziale; e non si tratta della frattura caotica, pre-orientata o gratuita, del provocatore di mestiere che oggi conosciamo molto bene, ma di quella “feconda”, la sola attraverso cui si può essere capaci di «vedere identificare interpretare/ l’unità confusa e corrotta che oggi esiste».

 

Una frattura salutare, quindi, che rende capaci di vedere «l’unità confusa e corrotta». Non mi stupisce questa enfasi sulla divisione, sulla frattura, sulla dimensione antitetica e critica della cultura. Fortini già nel 1962 nella sua Poetica in nuce scriveva: «Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema.»[6] Ciò che ancora mi colpisce qui è che la pretesa di portare questa “feconda divisione“ si accompagni a una riflessività paradossale del discorso: Fortini prende parola non (solo) per parlare del Vietnam (e prendere così la facile posizione in difesa delle vittime) e nemmeno (solo) per parlare degli Stati uniti (e fare così una altrettanto facile critica delle politiche del carnefice); sebbene faccia entrambe le cose e sebbene mostri che nel “noi” c’è inestricabilmente l’uno e l’altro, l’America e il Vietnam, Fortini prende parola per fare un discorso sul modo di fare discorsi. Lo dice proprio alle prime parole: «Mi sono chiesto di che cosa si stia veramente parlando». Davanti a una platea in attesa e in tensione, in un contesto politico complesso che avrebbe suggerito cautela o l’adagiarsi su facili topoi tribunizi, Fortini parla niente poco di meno che della verità dei discorsi. Si provi a contare il numero delle occorrenze della parola verità e dei suoi derivati. In punti salienti del discorso, troviamo “veramente”, “verità”, “vero”, “vere”, “veri”.  Questo filo che si muove intorno alla relazione fra verità e discorso, in un baleno, però si allarga, legando a sé verità, discorso e l’altro tema che è apre e chiude l’intervento di Fortini, ovvero la violenza, o meglio: «l’uso della violenza». Verità, violenza e discorso: nelle parole di Fortini si intrecciano e si stringono in un nodo scorsoio, che si stringe sempre più senza però mai tematizzarsi in maniera esplicita e così risolversi una volta per tutte. Da un lato c’è la violenza dei bisogni imposti («con le armi dei bisogni falsi e veri»), dall’altro «l’enorme carica di furore e di demenza/ che s’è accumulata nelle case, nelle fabbriche e nelle armi dei potenti» e che è entrata in “noi” fino a «stravolgere – o avvicinare? – verità e vita». Fortini conclude: «e so che abbiamo parlato del Vietnam nella misura/ in cui abbiamo parlato di noi,/ della violenza che subiamo e di quella che dobbiamo esercitare.» Sappiamo bene a cosa allude Fortini e è forse anche per questo che qualcuno lo giudicò “delirante”. Ma questo “delirare” è ciò che mi porta a rileggere su queste parole, perché qui c’è al centro – certamente irrisolta  ma consapevolmente posta – una circolazione fra verità e violenza (violenza di cui si è vittima o di cui si è testimoni: violenza che si accumula) che diviene poi proposta di forza in esercizio, non per via di una magica immediatezza, ma proprio perché “mediata” da un certo tipo di fecondo discorso civile: quello appunto che divide, spacca, lacera e vuole dare frutto. Fortini parla qui non per dire qualcosa, ma parla perché qualcosa accada. Mi domando: quanti discorsi hanno questa qualità oggi? Fortini articola un discorso che è capace di verità, ma non perché fa coincidere una proposizione con una supposta realtà del mondo, non cerca un’adaequatio intellectus et rei: «Chi parla solo dell’oggi/ non vuole che il domani venga»; il discorso di Fortini è “vero” proprio perché, prima di tutto, si occupa di aprire nel discorso stesso una frattura che scolleghi il “cosa dire” dal “dire stesso”, sicché si veda il dire mentre lo si dice e si apra una possibilità del fare dentro e oltre ogni dire. Scrive Fortini: «Ma chi dice/ quasi tutta la verità è certo/ il peggior nemico della verità.» e poi « Chi dice la penultima parola/ è il peggiore nemico dell’ultima.»

Bisogna saper dire una parola ultima, perché un’altra ne arrivi?

 

BDL:

 

Caro Tommaso,

 

seguendo le tue riflessioni, io mi chiedo: perché questa parola ultima dirla in versi? Perché la poesia in una piazza gremita che protesta contro la guerra? Potremmo articolare una risposta immediata: per aumentare l’effetto emotivo di quelle stesse parole. Ma Fortini sa bene che proteggere l’argomentazione politica con i privilegi della poesia è un errore. Proprio in quegli anni, è l’accusa che muoveva contro Pasolini:

È presente, sempre, in Pasolini, un’autentica passione ragionativa; ma si tratta di una passionalità nutrita delle apparenze della comunicazione razionale. Ne viene che egli si propone quasi sempre di sfuggire all’odioso e tradizionale statuto della poesia lirica (e della sua irresponsabilità) ma, nello stesso tempo, mantiene fermo il divario fra discorso poetico e non poetico. Non poche sue polemiche in versi, soprattutto nell’ultimo decennio, parevano affidare a un elemento simbolico (come l’allusione al ‘verso’) una sorta di immunità dalla confutazione. La contestazione razionale non le sfiorava; se le tentavi, fuggivano nell’extraterritorialità lirica.[7]

 

La poesia e l’opera artistica in generale hanno il compito dell’astanza, di una presenza soggetta alla critica e all’interpretazione, mentre diverso è il giudizio da riservare al discorso logico-argomentativo. Un’opera può essere documento di una lacerazione, non così una presa di posizione ideologica o politica. Dunque, Fortini predica bene e razzola male? Nella nota che accompagna la ripubblicazione dell’intervento, l’autore così giustifica l’utilizzo del verso:

Quando si legge un ragionamento politico, il tasso di ridondanza emotiva dovrebbe essere ridotto al minimo. Sapevo e so che quanto qui chiamo “ridondanza emotiva” non è un ornato ma è un altro senso; ma allora per controllarlo si esige una qualità stilistica molto alta. In questo mio caso, mi pareva ci fossero solo alcune intenzioni o ambizioni: avrei voluto costruire l’intervento in forma modulare, con variazioni su di un numero definito e ricorrente di frasi. Questo proposito […] viene dalla convinzione che bisogna lottare contro l’immediatezza e contro l’antipatia-per-le-forme che è uno dei più squallidi residui della cattiva coscienza romantico-nichilista […]. Il programma, anche se ne rimangono tracce, non fu attuato; e quindi la metrica del testo somiglia abbastanza ad un elementare sistema di suggerimenti per la dizione e l’intonazione[8].

 

Queste note ricondurrebbero a principi di poetica, ben saldi nelle intenzioni fortiniane, la scansione ritmico-metrica dell’intervento. La possibilità, cioè, che le forme scomposte dell’immediatezza siano sostituite da forme che preludano a quell’uso formale della vita che è il fine e la fine del comunismo, come indicherà lo stesso Fortini in Verifica dei poteri. Ma, evidentemente, qualcosa sfugge all’autore stesso: il tono dubitativo e l’ammissione di fallimento nella nota esplicativa stanno lì a testimoniarlo. Non solo, un altro elemento suggerisce di non interpretare sbrigativamente questa contaminazione tra poesia e discorso pubblico, non così frequente nel corpus delle scritture fortniane, nel quale vige solitamente una netta identificazione degli effetti e dei fini delle arti del discorso. L’elemento a cui faccio riferimento è l’inserzione di una prosa intitolata Un comizio nel libro di poesia Questo muro (1973). Il testo allude all’intervento tenuto a piazza Strozzi, riprende le argomentazioni sul Vietnam e aggiunge una serie di ulteriori riferimenti, lavorando attraverso il montaggio di citazioni, soprattutto nella parte finale (dove, ad esempio, leggiamo in lingua inglese le proprietà distruttive di una bomba utilizzata in Vitenam). È indicativo, a mio giudizio, l’uso della prosa in una raccolta poetica, episodio più unico che raro nella scrittura di Fortini: se si esclude l’Ospite ingrato (che deliberatamente si sottrae alle categorie dei generi letterari), gli unici individui testuali sono proprio le prose Un comizio e L’ordine e il disordine inserite in Questo muro[9].

 

Questo chiasmo tra poesia e oratoria politica in qualche modo disvela la potenza di questi testi anche, forse, al di là delle intenzioni d’autore. Qui Fortini apre una crepa nel suo modus operandi, ed è da ricondurre alla portata della azione che il testo vuole suscitare. Se è vero che l’intento principale è l’argomentazione per la divisione contro la falsa coscienza di un’unione di larghe intese tra i movimenti pacifisti, a questo intento soggiace una proposta più profonda. Fortini avanza l’idea di una lacerazione interna ai singoli soggetti di fronte al Vietnam. La forza che muove il testo, allora, è data dalla natura ibrida con cui nasce: documento e proposta, testimonianza e persuasione della lacerazione.

Un punto fondamentale che condividono l’intervento in piazza Strozzi e la prosa Un comizio è il disconoscimento dei vietnamiti come vittime: «[I viet] seguitano a insegnarci come si fa a distinguere il bene dal male. Non sono vittime. Vogliono che la compassione non possa contraddire la giustizia. Davanti alla tentazione della pietà, che esenta dal giudizio, dicono che la verità esiste e con un gesto delle braccia amputate ci invitano alla sua festa»; così, nella prosa di Questo muro[10]. Ecco perché il fronte comune va diviso: quest’ultimo può essere solo frutto di una coscienza occidentale che dall’alto della sua pietà propone la pace per salvaguardare la vita delle vittime, ma che tuttavia non mette mai radicalmente in discussione le premesse da cui formula ipotesi future. Un’altra pace chiede Fortini, che presuppone l’individuazione di quanto i vietnamiti potevano disvelare nell’occidente stesso.

 

Un passaggio, che a me è sempre sembrato decisivo e che rappresenta uno dei picchi del discorso di piazza Strozzi, pronuncia con nettezza le parole della lacerazione: «E i Vietnamiti lo sanno o almeno lo sa chi li guida \. Sanno di non combattere solo per la nazione o per la libertà, \ di non combattere solo per l’Asia o per i partiti comunisti \ ma di stringere in sé secoli di contraddizioni, \ di rappresentare la responsabilità suprema di un modo di esistenza \ sì che – vinti o vincitori, salvi o uccisi – \ essi sono fin d’ora non l’immaginazione di intellettuali di buon cuore \ ma concrete creature libere e vere, più progredite, più \ – diciamo la parola assurda – \ più felici di noi».

Qui, paradossalmente, sentiamo la distanza che chiede un avvicinamento. Il discorso non riguarda più i mezzi con cui può essere formulata una lacerazione: all’altezza di quei tempi, Fortini utilizza gli strumenti della poesia, articolando un testo che a distanza di quasi sessant’anni sembra risuonare con maggiore radicalità nel nostro presente. Una radicalità che possiamo riproporre sotto forma di domanda: abbiamo la forza di riconoscere modi di esistenza che ci permettano di intravedere, fuori e dentro di noi, creature più felici? I popoli attualmente in lotta bisbigliano qualcosa alle nostre orecchie?

 

 

1.

Mi sono chiesto di che cosa si stia veramente parlando.

 

E credo che ragione del nostro discorso
Non sia solo l’atteggiamento da consigliare a noi e agli altri
per la guerra del Vietnam
ma sia: l’uso della violenza.

 

2.

Oggi molti la violenza costringe a non parlare.

 

A poche ore di jet da questo luogo. Come sapete: ammazzando.
E a pochi minuti da qui
­– ben distribuita fra storiche architetture e autostrade –
Un’altra violenza
troppi più altri obbliga
con le armi dei bisogni falsi e veri,
troppi più altri obbliga
spaventati o distratti
a parlar d’altro
o a parlare solo apparentemente di quello di cui stiamo parlando.
Ma noi non ,vogliamo dire la penultima parola,
la consolante penultima parola
che ci fa sentire abbastanza onesti.
La penultima parola che è
la peggiore nemica dell’ultima.

 

3.

 

Cercare di dire l’ultima parola di questa situazione
equivale a dire che oggi la situazione è rigida.
Che quanto accade fra i Vietnamiti e le forze degli Stati Uniti
Non è un episodio di polizia internazionale
non è soltanto un episodio di neocolonialismo
né soltanto una guerra d’aggressione.
Non può essere inserito nel monotono turbine di orrori
che hanno trasformato in un film mediocre la nostra unica esistenza.
Ma è qualcosa di nuovo un esempio un modello
del conflitto radicale fra due classi di uomini.
Tra due specie fra due ipotesi fra due futuri degli uomini.

 

Non che il pensiero rivoluzionario non lo avesse anticipato:
ma nei nostri anni
-fosse stata la guerra di Spagna
o la grande guerra patriottica sovietica
o la rivolta d’Algeria –
sempre vi si era accompagnata una mediazione necessaria
che nella guerra del Vietnam oggi sembra non più necessaria. Per questo
dico che la situazione è straordinariamente rigida.
E i Vietnamiti lo sanno o almeno lo sa chi li guida,
Sanno di non combattere solo per la nazione o la libertà.
Sanno di non combattere solo per la nazione o la libertà.
Di non combattere solo per l’Asia o per i partiti comunisti
ma di stringere in sé secoli di contraddizioni,
di rappresentare la responsabilità suprema di un modo di esistenza
sì che – vinti o vincitori, salvi o uccisi –
essi sono fin d’ora non l’immaginazione di intellettuali di buon cuore
ma concrete creature libere e vere, più progredite, più
– Diciamo la parola assurda –
più felici di noi.

 

4.

 

C’è uno slogan che forse dobbiamo ripensare.
È quello che dice Yankees go home, Americani a casa.
E’ giusto dirlo? Era giusto e lo è
Dove lotta per la nazione e lotta per il socialismo erano o sono

ancora una cosa sola.
Ma da noi? Non sono gli Stati Uniti d’America
La casa madre, la patria, la Gerusalemme del nostro capitalismo?
I marines possono anche andarsene.
Restano coloro che prendono le decisioni nella grande industria
E coloro che per una lunga via gerarchica
Puntellano il sistema di potere e profitto,
l’universale buona coscienza di profitto estorto e potere subìto,
l’universale coscienza felice di essere dentro un sistema, il sistema.
Restano le guardie bianche a Caracas, ad Atene, a Bogotà, fra noi.
I marines possono andarsene. In Spagna gli Americani
Non hanno bisogno della NATO.
Senza troppe lacrime lasciano la Francia.
State attenti che, seguendo un collaudato sistema,
partiti di governo o d’opposizione
non vi stiano impegnando in combattimenti di retroguardia, non vi invitino
a sfondare porte già semiaperte, a chiedere di uscire
dalla NATO e dal Patto Atlantico quando NATO e Patto Atlantico
contano già così poco
nella strategia complessiva delle due superpotenze.
E noi sappiamo che ci si può anche generosamente battere
per nobili cause non essenziali.
I consigli d’amministrazione delle massime industrie italiane
ed i sinodi vescovili
certo deplorano il massacro del Vietnam
e – salvo le ripercussioni eventuali sul mercato de1le materie prime –
e – salvo le ripercussioni eventuali sulla amministrazione elettorale –
sarebbero molto lieti della pace.
E chissà che il nostro governo non prenda o non trovi il coraggio
di dare qualche autorizzato dolore agli uomini del Pentagono.

 

5.

 

Ma perché gli Stati Uniti se ne vadano dall’ Asia
bisogna sappiano non solo di non avere governi amici in Europa
bisogna sappiano di avere popoli nemici in Europa.
Per aiutare veramente il Vietnam insomma
– e ml pare già Lenin l’abbia detto –
dobbiamo aiutare anzitutto noi stessi.
E per aiutare noi stessi qui, dove
non con le armi ma col capitale gli Americani comandano,
dobbiamo anzitutto aiutarci contro il capitale nostro,
contro le forme italiane del sistema mondiale,
contro la via italiana al profitto mondiale.
Non basta dire Americani A Casa
Non basta dire Via L’Italia dal Patto Atlantico.
Bisogna dire Via L’Imperialismo Dalla Casa Degli Americani.
Via dalla nostra tolleranza, dai nostri microfoni, dai nostri giornali,
i complici della violenza per il profitto.

 

6.

 

Storia ed esperienza mi hanno insegnato

che si deve oggi tendere non ad unire ma a dividere.
A dividere sempre più violentemente il mondo,
a promuovere l’approfondita, la sola vera, la sola feconda divisione,
divenuta sempre più chiara, dolorosa e necessaria,
per entro l’unità creata dal mercato internazionale,
per entro l’unità determinata dal potere e dall’oppressione.
Vuol dire anzitutto distruggere le false divisioni del passato,
vuol dire vedere identificare interpretare
l’unità confusa e corrotta che oggi esiste.

 

Quando gli Stati Uniti producono la metà di tutto quel che il mondo produce,
quando la metà di quel che mangiamo leggiamo impariamo è prodotto
direttamente o indirettamente dalla potenza economica e industriale
degli Stati Uniti
questo significa che noi siamo per metà americani
e che dobbiamo non solo saperlo ma accettarlo
perché è un modo per dire che siamo cittadini di quel mondo
che dall’interno del capitale si dibatte contro il capitale.
Attraverso la politica delta nostra classe politica
e quella della nostra classe industriale,
attraverso il regime della produzione e dei consumi e i criteri profitto,
come attraverso le strutture ideologiche
noi siamo già Stati Uniti. E’ per delega del capitale degli Stati Uniti
che il capitale nostro o quello di altre nazioni d’Europa
traffica impianta impianta traffici. traffica impianti
con i Sovietici o con altri paesi dell’Est europeo.
E insieme continua a far credere alla vecchia partizione
sempre meno reale.

 

A noi la massima potenza industriale del mondo
ha passato, come si fa talvolta con i servi,
le vestaglie ideologiche. I drappi etico-religiosi umanitari,
gli aromi spirituali invecchiati e le invecchiate tecnologie
di cui s’è andata rapidamente sbarazzando negli anni.
Se anzi c’era bisogno d’una conferma
Della raggiunta maturità, quindi della inevitabilità degli Stati Uniti
dell’impossibilità di « mandarli a casa », essa è
nel loro odierno franco cinismo, in questa
loro funzione di ilari becchini degli ideali che ne sostennero la storia.

 

7.

 

Ma per un altro verso, per un’altra nostra metà

Noi siamo Vietnam. Siamo
quel che in politica economia cultura
tutto il Vietnam sarebbe stato
non avesse scelto, in una sua parte, di morire piuttosto.
Non avesse scelto questa strada,
non avessero scelto di essere pietra d’intoppo della favola coesistenziale,
pietra sulla via della controrivoluzione esportata,
non avessero scatenate contraddizioni altrimenti latenti, gli Stati Uniti
col garbo di cui talora non mancano, con quello
che il linguaggio delle loro «relazioni umane» chiama good will,
li avrebbero accolti come federati nel loro impero.
Avrebbero loro assegnato un preciso tasso di sviluppo
– in armonia con i loro interessi mondiali –
e oggi i Vietnamiti starebbero «bene»,
come noi, più o meno, stiamo «bene»
nelle città nelle scuole negli ospedali nella amministrazione.
Avrebbero avuto anche una buona ed apolitica protezione sindacale.
E dopo vent’anni avrebbero anche potuto forse
nazionalizzare la loro industria elettrica.

 

8.

 

I Vietnamiti combattono un blocco che ha gli Stati Uniti alla testa
ma di cui fa parte a nome del nostro paese la nostra classe dirigente
autorizzata ad emettere di tanto in tanto in italiano

qualche bel gemito.
I Vietnamiti combattono quel che noi da tempo
abbiamo accettato: il potere

politico fondato su quello economico,
lo sfruttamento santificato degli ideali antifascisti,
temperato dal sindacalismo e dalle libertà costituzionali; insomma
il sistema della libertà

come scelta obbligatoria

fra prodotti.
Essi non hanno forse amici oggi nemmeno fra quelle nazioni
che quella amicizia dichiarano o provano. Perché non accettano
di ridursi alla parte che da essi
anche i loro amici vorrebbero. Non accettano
di essere i protagonisti di una situazione arretrata.
E nemmeno un simbolo. Della loro lotta
essi riconoscono amici ed eguali
soltanto chi non appena combatte lo stesso nemico
ma lo combatte nello stesso modo e per lo stesso fine,
al di là dei propri confini e delle proprie bandiere. Questi
non si riconoscono dal grido di Viva il Vietnam
ma dal modo in cui deliberano di vivere e lavorare, di
produrre e consumare, un modo
diverso da quello che i loro padroni vorrebbero; dal modo
che ha trovato la sua formula più provocatoria ma più esatta
nel grido: «Guerra no, guerriglia sì».

 

9.

 

Per questo i Vietnamiti sono oggi il popolo più libero della terra.

Perché nessuno come essi incarna oggi la coscienza della necessità.
Perché nessuno come essi incarna oggi la costanza
:degno della elezione storica feroce
che in sé riassume tutti i caratteri dell’oppressione del passato:
dove razza, sottosviluppo e persino la stessa consistenza etnica
paiono formare la figura dell’uomo ridotto al limite
della propria inesistenza, al margine della realtà.
Mentre chi li squarta e li brucia
è l’erede di tutto quel che gli uomini d’Occidente
hanno saputo e pensato, l’erede
del Cristianesimo, del Rinascimento e del Liberalismo:
l’Americano del Nord.
Fra i nostri compagni solo coloro che acceca
un operaismo spesso tanto libresco
quanto alleato di un demonismo decadente,
solo coloro possono rifiutarsi di vedere nel popolo del Vietnam
– già inserito a metà come forza-lavoro e come possibile forza-consumo
nel mercato del capitalismo internazionale e per tramite di questo
nel mercato dell’universa coesistenza –
che questo popolo, dico, non adempie ad una missione «arretrata»,
non è un coraggioso nipote che deve crescere, ma adempie
allo stesso compito storico di liberazione e demistificazione
che cent’anni fa il marxismo assegnò alla classe operaia occidentale.
E quanto affermo vale, non occorrerebbe dirlo, per altri
più grandi, più sterminati popoli.

 

10.

 

Per quindici anni abbiamo chiesto pace

e quella pace è servita anche
a permettere che si continuasse e si accrescesse
la guerra quotidiana di chi ha contro chi non ha.
E’ servita alla creazione del neocolonialismo e alle sue vittorie,
al mantenimento del razzismo sudafricano,
al rafforzamento della borghesia indiana e del capitalismo giapponese,

al massacro di centinaia di migliaia di indonesiani
e oggi alle stragi del Vietnam.
Ci hanno ricattati con i loro depositi di atomiche
I Grandi Popoli padroni del mondo
Impotenti però davanti alla guerriglia dei piccoli popoli
o delle minoranze politiche che li abitano. In nome della pace
ora si raccolgono nei loro pantheon
all’ombra dei busti di Platone e Marx, di Lincoln e Lenin,
a parlare d’affari, di cointeressenze,

d’impianti e di brevetti
e della legge del profitto e del profitto della legge.

 

11.

 

Essere contro l’aggressione americana nel Vietnam non vuol dire

essere con i piccoli contro i grandi,
con i deboli contro i forti,
con la nostalgia del mondo agrario contro la durezza di quello industriale.
Siamo stati accusati di sognare il Vietnam,
come altri un tempo l’Algeria o Cuba o il Sud, gli umiliati e gli offesi.
Nessun bisogno di sognare. Vietnam e Cina
non sono consolazioni per anime ferite. Le ferite rimangono.
E questo dico a chi ci accusa
di estremismo verbale e irresponsabile.
Lo dico con l’umiltà che si conviene
a chi paga di parole dove altri paga con la vita. Ma dev’esser, detto:
chi vuol combattere quello che è,
la boria di quello che è,
la simpatia naturale che il potere ha per il potere,
e il partito d’opposizione per il partito al governo,
il rispetto naturale che il ministro prova per il ministro straniero
e il capo di un servizio segreto per il capo del servizio segreto emico,
chi vuol combattere l’alleanza tendenziale di quel che è
e vuoI combatterla in nome di quel che non è ancora
facilmente sarà accusato : di profetismo, di astrattezza, di moralismo,
di “ avventurismo piccolo-borghese”. Non è così che si dice?
Fatelo pure, dunque, se volete e vi nutre.

 

12.

Domani potrà accadere qualsiasi cosa. Governi e poteri
potranno domani venire a qualsiasi compromesso, oggi inimmaginabile.
Non si resiste soltanto morendo.
Ma nulla potrà fare che non siano stati
questi anni di massacri assolutamente illuminati,
di una parte di noi stessi su di un’altra parte di noi stessi.
Nulla potrà togliere la certezza
che internazionalmente agire contro l’ordine del profitto
e contro la dissociazione degli uomini
è possibile e non è utopia. Che le mete formulate
cent’anni fa dal pensiero rivoluzionario
sono oggi più vicine che mai
per l’enorme carica di furore e di demenza
che s’è accumulata nelle case, nelle fabbriche e nelle armi dei potenti
e da quelle è entrata in noi a stravolgere – o avvicinare? – verità e vita.

 

Non so se questa sia una parola ultima. Ma chi dice
quasi tutta la verità è certo
il peggior nemico della verità. Chi parla solo dell’oggi
non vuole che il domani venga. Chi dice la penultima parola
è il peggiore nemico dell’ultima.
Mi sono chiesto all’inizio di che cosa si stesse davvero parlando:
e so che abbiamo parlato del Vietnam nella misura
in cui abbiamo parlato di noi,
della violenza che subiamo e di quella che dobbiamo esercitare.

 

Franco Fortini

 

Note

 

 

[1] Il testo è leggibile in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano, 2003, pp. 1398-1408.

[2] Franco Fortini, Una manifestazione per il Vietnam nel 1967: Un comizio in «Che fare», 8-9, maggio 1971, pp. 149-57, in Notizie sui testi, ivi, p. 1793.

[3] Notizie sui testi cit., p. 1794.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Poetica in nuce, in Saggi e epigrammi, in ivi, p. 963

[7] F. Fortini, Attraverso Pasolini, a cura di V. Celotto e B. De Luca, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 150.

[8] Notizie sui testi cit., p. 1795.

[9] Vd. G. Gronda, Franco Fortini: un comizio, in Retorica e politica. Atti del II convegno italo-tedesco (Bressanone, 1974), a cura di D. Goldin, Liviana, Padova, 1977; F. Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, Macerata, Quodlibet, 2017, pp. 250-52.

[10] F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2014, pp. 373-75.

5 thoughts on “Verità, violenza, discorso. Rileggendo Fortini oggi

  1. Una “riflessione” a due voci su un testo “radicale” (!) di Fortini. Omaggi, lodi sì, ma troppi ricami letterari e distinguo e cautele pelose. Le analogie tra ieri e oggi stemperate in un amletismo umanistico mieloso: “ abbiamo la forza di riconoscere modi di esistenza che ci permettano di intravedere, fuori e dentro di noi, creature più felici? I popoli attualmente in lotta bisbigliano qualcosa alle nostre orecchie?”. Tutto qui? E sotto un 25 aprile che mi sa da “dieci inverni”? Non un cenno chiaro a quel che sta accadendo a Gaza o sulla guerra in Ucraina. Ma chiedetevi/chiediamoci almeno cosa ne avrebbe scritto Fortini.

  2. La prima volta che lo lessi rimasi come interdetto. La posizione di Fortini non somigliava a quelle che di solito ci si attende di leggere dagli esponenti di opposti schieramenti, che si riconoscono dalla triste sequenza di motivi ripetuti e stantii. Qui al contrario si ragiona, e si ragiona in una maniera complessa, complicata!, senza il timore di dispiacere ad una parte rilevante dell’uditorio. Di Dio e De Luca hanno colto molto bene le ragioni di quel ragionare in versi su una questione attualissima come il Vietnam. Qualcuno direbbe che sono vietati i confronti con la realtà odierna. No, i confronti sono autorizzati e in un certo senso obbligatori. Fortini invita a non lasciarsi convincere dalle facili letture della realtà e dai ricatti. Essi sono sempre in agguato e hanno la familiarità del vicino di casa.
    Vincenzo Di Marco

  3. “Qualcuno direbbe che sono vietati i confronti con la realtà odierna. No, i confronti sono autorizzati e in un certo senso obbligatori” (V. Di Marco)

    Sì, ma dove sono? Lei li vede?

  4. Avevo scritto senza aver letto Ennio Abate. Non era certo riferito a lui.

  5. Nessun problema. Ma la domanda rivolta ai “fortiniani” (tutti/e) resta: Sì, ma dove sono [i confronti con la realtà odierna] ?

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