di Gabriele Belletti
Nella lirica Su un vecchio appunto, tratta dalla raccolta Il franco cacciatore di Giorgio Caproni[1], il poeta «sazio della città» si è «ritrovato al limitare / del bosco». Qui, si imbatte in un albero «leggero», «tutto ali di foglie / tutto voli / verdi di luci azzurre nel celeste / dell’aria…», capace di farsi rossa «Fenice» d’autunno e di splendere «d’altro verde» in primavera. Al contrario, gli esseri umani – «noi» – «senza radici e senza / speranza» sono cantati come privi di un «alito di rigenerazione». Qualche anno dopo l’uscita della raccolta, Caproni dichiarerà: «Mi sgomenta, soprattutto, la mostruosa crescita della popolazione […]. Fra nemmeno trecento anni […] tutto il globo sarà superpopolato come una grande metropoli. Non ci sarà più posto né per una tigre, né per un albero, né per una pulce»[2]. Le dichiarazioni di poetica implicita ed esplicita dell’autore livornese interrogano tanto sulla trasformazione dello stato nel nostro pianeta, quanto sullo statuto della natura di un cangiante noi. Alla luce delle metamorfosi – poetiche e non – dello stesso io (lirico), del quale non è più concepibile da diversi decenni uno statico posizionamento, l’idea che si possa restituire una definizione di tale fenomeno, di questo noi plurale e stratificato, pare da principio da escludere. Nell’approcciarci a descriverlo, parrebbe assisterci allora un’ermeneutica che assuma come problema costante, oltre al continuo chiarimento di cosa significhi per sé stessa “interpretare”, l’adeguatezza / l’adeguamento del suo metodo a ciò che viene interpretato e all’epoca in cui l’interpretazione stessa si realizza[3]. Già prendendo in considerazione, tra le altre, le riflessioni affacciatesi da qualche anno nel vivente estetico, come quelle ecocritiche o postumaniste, il noi si vede popolato da creature umane e più-che-umane, ontologicamente e matericamente interrelate. L’albero di cui cantava Caproni pare sempre più innestarsi dunque in un noi reticolare[4] sparso in un unico oikos, nel quale ogni creatura partecipa in diversificati modi, anche poetici (ποιεῖν), ad un «tutto più grande»[5].
I rimescolamenti delle relazioni istituzionali e la riformulazione delle recinzioni autoriali degli ultimi decenni hanno facilitato il traghettamento verso esperienze interartistiche e co-creative, verso insidiose e vivaci lande, artificiali e postumane, zoopoetiche ed ecopoetiche. Per adempiere all’urgenza di adeguatezza e di apertura, lo sguardo metodologico non dovrebbe adagiarsi su un delimitato territorio del vivente, fatto di pratiche e di idee, o del suo darsi. Le dichiarazioni sulla dimensione poli-artistica di Giovanni Fontana devono poter convivere con quelle di Aaron A. Moe sulla poetica dei capodogli e di Roberto Marchesini, per il quale «la natura, con il suo continuo flusso di forme, non scorre sulla [sua] pelle, ma piuttosto attraverso di essa»[6]. Prolifici spargimenti e aperture disciplinari hanno recentemente incentivato la visione di un’immagine felice del campo di applicazione, del vivente, ancor prima che vivente estetico. Si tratta di quella di un testo (Iovino) le cui letture sono essenziali per conoscerne i fenomeni, disvelando – se non denunciando – dinamiche e propaggini spesso adombrate da statici e solidi posizionamenti antropocentrici sul fare e sul “reale”:
Un testo è qualcosa che può essere letto: un libro, una scritta su un muro, uno spartito musicale, una poesia, una fotografia, un film, una pièce teatrale. Ma «testo» può anche essere altro: per esempio, la tessitura materiale di significati, esperienze, processi e sostanze che compongono la vita di esseri e luoghi. Un testo, in questo senso, emerge dall’incontro di azioni, discorsi, immaginazione ed elementi fisici che si coagulano in forme materiali. I paesaggi sono testi, e anche i corpi lo sono. Sono testi perché attraverso di essi possiamo leggere le storie di relazioni sociali e rapporti di potere, equilibri e squilibri biologici, il concreto prendere forma di spazi, territori, vita umana e non umana[7].
Per interpretare un tale testo-vivente, sarà allora indispensabile ripensare la rete neo-fenomenologica, espansa e in espansione, creata da “nodi” istituzionali prima inimmaginabili, tra soggetti, strumenti del fare, materie e paesaggi. Occorre cioè porci, aggiornandola, la domanda anceschiana “Che cosa possiamo intendere per poesia (nell’epoca dell’Antropocene)?”. Quali sono la natura e le istituzioni del testo-poesia in un tale macrotesto, in tale rete? Rispondere a queste domande significa accogliere, descrivere e comprendere nuovi o rinnovati fenomeni senza pregiudizi o giudizi pre-testuali. Una sorta di assolutezza potrebbe verificarsi infatti nello statuto della comprensione se quest’ultima non venisse aggiornata, se prevedesse un continuo discorso teorico su di un metodo ‘bloccato’ o un’egotica imposizione discriminante cosa sia o meno poesia. Il nuovo paesaggio-testo in cui vivono e si muovono le poetiche e le loro istituzioni ci interpella, chiede di essere considerato e compreso con rilievi adeguati. Si tratta di un paesaggio costellato di interrelazioni disciplinari, artistiche e materiche, per cui il metodo non può non modificare i propri strumenti alla luce di ciò che si approccia a descrivere e del quale, al tempo stesso, fa parte.
L’oikos è un testo fatto di testi, e il metodo dovrebbe poterlo descrivere rivelando le nuove istituzioni della poesia, i precetti, le norme e gli ideali della poesia contemporanea. Riprendendo un’illuminante riflessione di Luigi Pareyson presente nella sua Estetica, potrebbe affacciarsi uno dei possibili ideali per cui «l’opera d’arte è, nel suo stesso volere artistico, una realtà storica, che agisce nel mondo degli uomini, e opera nelle coscienze, arricchendo la spiritualità umana non soltanto per opera d’interpreti e di critici, ma anche attraverso la propagginazione della cultura, raggiungendo il linguaggio quotidiano e il modo di sentire di popoli e nazioni»[8]. Che l’opera d’arte, la poesia nel nostro caso, possa davvero essere descrivibile, in questa epoca antropocenica, come agente nel mondo, non più solo degli uomini, contribuendo ad un mutato sentire – e sentirsi – di quel “noi” umano e dimidiato di cui cantava Caproni?
Note
[1] G. Caproni, Il franco cacciatore, Milano, Garzanti, 1982.
[2] ID, Il fine ultimo del poeta è solo quello di far poesia, a cura di Ada Muntoni Comparini, in «Dulcamara», maggio-giugno 1977, n. 3, ora in M. Rota, a cura di, Il mondo ha bisogno di poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990, introduzione di A. Dolfi, Firenze, Firenze University Press, p. 131.
[3] Sul concetto di adeguatezza in rapporto al metodo si esprimono diversi autori cardine, che riprenderemo anche in seguito: «Non c’è interpretazione che sia definitiva, e non sia soggetta a un perpetuo moto di revisione inteso a una sempre maggiore adeguazione» (L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Nuova edizione, Milano, Bompiani, 2002, p. 188); «Le medesime strutture si risignificano e si ricompongono diversamente in diversi contesti, mentre il metodo rivede continuamente se stesso perché deve senza posa adeguarsi, piegarsi, articolarsi volta a volta convenientemente secondo le diverse sollecitazioni delle cose» (L. Anceschi, Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica, Torino, Einaudi Paperbacks, 1989, p. 186); «Il sapere dell’ermeneutica letteraria dev’essere per Szondi inteso come ‘conoscere perpetuato’, in quanto sempre di nuovo costretto a ritornare sulle sue premesse per verificarne l’adeguatezza» (E. Agazzi, L’ermeneutica di Peter Szondi e la letteratura tedesca, Udine, Campanotto, 1990, p. 1).
[4] Cfr. B. Commoner, The Closing Circle: Nature, Man, and Technology, New York, Knopf, 1971.
[5] L.-G. Street, The Roots of It, in The Ecopoetry Anthology [2013], a cura di A. Fisher-Wirth, L.-G. Street, introduzione di R. Hass e postfazione di C.S. Perez, San Antonio, Trinity University Press, 2020, p. XL.
[6] R. Marchesini, Dialogo Ergo Sum: My Pathway into Posthumanities, in Italy and the Environmental Humanities. Landscapes, Natures, Ecologies, a cura di Serenella Iovino, Enrico Cesaretti ed Elena Past, Charlottesville, University of Virginia Press, 2018, pp. 57-58.
[7] S. Iovino, Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza, Milano, Il Saggiatore, 2022, p. 12.
[8] L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Nuova edizione, Milano, Bompiani, 2002, p. 175.