di Sergio La Chiusa

 

[Esce oggi per Miraggi Il cimitero delle macchine, romanzo di Sergio La Chiusa. Pubblichiamo due brani tratto dal sesto capitolo (Dove si vagabonda nottetempo per una città di statue e manichini)]

 

(…)

 

Mezz’ora dopo lo ritroviamo in centro: corso Venezia, San Babila, corso Vittorio Emanuele, mai visti a quest’ora, mai così muti e deserti, i portici laterali, i ristoranti, i bar, le caffetterie, i negozi d’abbigliamento, Armani, Versace, Gucci. Ulisse cammina sotto i portici nella luce artificiale delle grandi firme. Nel silenzio, le vetrine illuminate risaltano con una specie di violenza postumana. Ulisse si guarda intorno disorientato, come se vedesse per la prima volta un mondo di merci: pare uno che sia rimasto segregato per anni in cantina per via d’un disastro chimico, un incidente nucleare, una pandemia, e ora, risalito in superficie, stenti a riconoscere la città morta, muta, spopolata, stranito dalla successione di boutique popolate da cittadini imbalsamati: chi sono tutti quegli uomini cui sono state spiccate le teste, alcuni in giacca e cravatta, pronti per una riunione aziendale, altri in versione week-end, sportivi, in tenuta da spiaggia, le tavole da surf sottobraccio, turisti da vetrina etichettati e prezzati? E tutte quelle donne impallidite, mineralizzate, i corpi erotizzati slanciati sulle pedane in calze autoreggenti e top da vertigine? Il gas del progresso deve averle sorprese nel pieno della sfilata, e ora non sono che merci in esposizione, riprodotte in serie e griffate e tariffate dalle parrucche allo smalto sulle unghie dei piedi, e tuttavia così conturbanti nella loro sensualità in vetroresina che a un certo punto Ulisse, sensibile a vari generi d’adescamenti, raggiunta la Rinascente, prende a tastarne i vetri, come cercando un varco per intrufolarsi tra i manichini, toccare con mano le modelle algide, dagli occhi vuoti, che sembrano fissare imperturbabili un punto imprecisato nello spazio: l’avvenire della perfezione estetica? il paradiso seriale dei corpi-merce? Ma via, Ulisse, non ti sei già sfogato stanotte? Cos’altro vuoi? Darti una riverniciatura di modernità? Fornicare con un manichino di marca, e in vetrina stavolta, sotto i riflettori? Staccati dai vetri piuttosto, prima che scatti l’allarme e i tutori pubblici del patrimonio privato intervengano a preservare la proprietà minacciata. Lascia stare le luci del presente, non c’è posto per te: ricomponiti e allontanati dalle tentazioni della moda e camminando lungo le antiche fiancate del Duomo, verso la piazza spopolata, prova invece a sollevare gli occhi disavvezzi alla vertigine delle altezze, agli strati verticali delle menzogne storiche… Ecco: li vedi? I residenti di vecchia data. I veterani. Un’intera popolazione di pietra traslocata in alto, sulle pareti, sotto i doccioni, e finanche sul tetto e sui pinnacoli che s’allungano verso il cielo scuro e sembrano puntellarlo con moltitudini di statue, santi, potenti, mecenati, presenze di dubbia origine, tipi che non si capisce bene che ci facciano lì, tra tanto senno, ma perlopiù martiri che se ne stanno in bilico, ognuno sulla propria base, i piedi incastrati nel marmo, un tempo mediatori tra cielo e terra, immaginazione e realtà, ordine e caos, autorità e popolo, e ora disoccupati, simboli vetusti, inutili e incomprensibili, innalzati e montati lì sopra, e lì impietriti dalla volontà di preservarsi e sfuggire allo spirito del tempo che li vorrebbe invece in magazzino, spaccati e riusati come materiale da costruzione. Perciò sopportano sole e pioggia e cacate d’uccelli senza muoversi dai loro piedistalli: sanno che basta un gesto imprevisto, una gamba che si piega, una mano che s’allunga per dare una grattatina alla pianta del piede, per perdere l’equilibrio e fare un capitombolo nel presente: che spettacolo, allora, vedere gli antiquati crollare, spaccarsi in mille pezzi, san Giorgio, san Rocco, sant’Ambrogio, Noè con la sega da fabbricatore d’arche in mano, i vari Sforza e Visconti, le teste spiccate dai colli, mani e piedi che saltano, schegge che schizzano sui passanti terrorizzati, il fantasma della bomba che ritorna nella città della moda… E invece niente. Non precipitano. Non si mettono in discussione. Mai. Attaccati ai loro scranni fino alla fine dei tempi. Radicati ai loro vitalizi. Protetti dalle leggi. I crani trafitti di spilli perché i piccioni rispettino la loro veneranda santità da ospizio e se proprio non possono trattenersi dal cacargli addosso che lo facciano al volo, senza sostarci, e così, sotto l’effetto sedativo dell’agopuntura, se ne stanno rigidi nelle loro sorpassate postazioni morali, compiti e pieni d’importanza… Ma via, vecchi paralitici! Non contate più nulla! Nessuno più cerca d’interpretarvi. Nessuno più v’interpella. Nemmeno Ulisse Orsini che, giunto nella piazza vuota, è salito pensieroso sul sagrato del Duomo.

 

La facciata è impalcata e coperta da un manifesto pubblicitario su cui convergono riflettori che fugano tutti i dubbi. Ecco il vero monumento della città. Monumento variabile, smontabile e rimontabile secondo la moda e la domanda del mercato. Una boccetta di profumo gigantesca: Eros, fragranza per uomini, oggi. Domani: scarpe per la donna moderna, al passo coi tempi. Posdomani, per tutti, onnipresente, onniveggente, onnisciente, un cellulare sospeso nel cielo: Dio Samsung che vegli sulle nostre vite liberaci dalla noia e mettici tutti in comunione. Amen.

 

(…)

 

Un barbone sta salendo sul sagrato. Porta in spalla un sacco della spazzatura e ha l’aria d’un Babbo Natale in esubero, caduto in disgrazia per via della crisi. Un cane spelacchiato invece della classica renna lo precede, trotta verso il tipo rannicchiato davanti al portone, lo annusa sommariamente, prima di tornare scodinzolando dal Babbo Natale, che intanto s’è seduto per terra e ha cominciato a rovistare nel sacco sparpagliando tutt’intorno doni che scatenano l’entusiasmo del cane: carta stagnola, cartoni per pizze, buste d’hamburger sporche di ketchup. Poi giornali sporchi, lanciati verso Ulisse: «To’, prendi questi, tu! Leggi! Informati! Altrimenti il mondo ti lascia indietro!»: «Corriere della Sera», «Sole 24ore», «Gazzetta dello Sport», vecchie copie scompaginate, strappate: «Guarda un po’ che succede nel mondo! Novità da Washington? La borsa di New York? L’indice Dow Jones? E le Microsoft? Io investirei nelle Microsoft? Eh, che ne dici? Preferisci scommettere sui cavalli, tu? Vada per i cavalli, allora! Tanto i soldi in banca non rendono nulla! Bisogna investire, investire!», si calma, prende per sé una copia della «Repubblica», strappa una pagina e la posa per terra stirandola con tutte e due le mani. Pare concentrato. Terminata la lettura, s’aggrappa a un polpaccio che emerge da un gruppo bronzeo del portone, si tira su e con la pagina della «Repubblica» avvolge la testa di un Cristo alla colonna. Resta un momento soprappensiero. Poi volta le spalle al Cristo, tira fuori l’uccello e si mette a pisciare salutando militarmente il monumento equestre: il padre della patria e il suo cavallo scalpitante in mezzo alla piazza, eroici e unitari, lui e il cavallo, rivestiti entrambi di gratificanti merde di piccioni patriottici e tuttavia impettiti nel bronzo della gloria nazionale, sopra le truppe piemontesi, rimaste invece anonime, mentre sul sagrato il barbone svuota la vescica, il cane trascura storia e politica e lecca con avidità una busta di McDonald’s e Gesù se ne sta incastrato nel portone, la testa incartocciata in una pagina di «Repubblica»… Povero cristo! Mica invidiabile il suo stato! Tutti i giorni nella sua formella di bronzo, legato alla colonna e costretto a sentire la minaccia del nerbo del soldato gravare eternamente sul capo senza inferire mai il colpo finale, e in questo stato di mortificazione incessante, immobilizzato, senza vie di fuga, vedere generazioni di turisti sfilargli davanti, magari segnalare la sua presenza col dito, tastargli il ginocchio portafortuna, tirato a lucido a furia di superstiziosi palpamenti, per poi lasciarlo lì, intrappolato nel cerchio dei flagellatori, e avanti così, per anni, vederli ripetere il medesimo rituale, palpare il suo ginocchio sempre più lucido, ma anche il polpaccio del flagellatore, lì accanto, perché a certo punto un simpaticone in vena di scherzi s’è messo a palpare il polpaccio di quell’altro, e tutti dietro, a palpargli il polpaccio, lui voleva avvertirli che quello era il polpaccio d’un volgarissimo sbirro, che si stavano sbagliando, confondendo vittima e carnefice, ma gli pareva d’intromettersi nel libero arbitrio del turista scaramantico, e il risultato di tanta discrezione è che ora il polpaccio del farabutto è più lucido del suo ginocchio, forse perché più comodo al tatto, meno spigoloso, vai a sapere, una pazzia, migliaia di mani che palpano un polpaccio, e per di più d’un poco di buono, ma che ci trovano poi? non ce l’hanno loro un polpaccio? Palpano perché altri palpano, così, senza una ragione, vedono palpare e palpano, e ora, come se non bastassero i palpeggiamenti del giorno, e ingiuriosi pure, perché sempre più spesso dedicati al flagellatore, il cui polpaccio pare d’oro e l’abbaglia nei pomeriggi estivi annebbiandogli il cervello, tocca pure sopportare questa cartaccia bisunta che gli benda la testa e l’aggiorna con le ultime notizie: Dio è con noi, annuncia col megafono un certo presidente Bush mentre, l’elmetto dei pompieri calcato sulla tetragona testa imperiale, cammina sulle macerie delle Twin Towers invocando la guerra contro il Regno del Male… E pensare che lui era all’oscuro di tutto, nemmeno l’avevano informato delle nuove alleanze strategiche: che temeva, il Padre? che si mettesse in mezzo? che il ragazzo s’opponesse col suo solito spirito ribelle, polemico, anticonformista? paventava il dibattito in famiglia, la serpe in seno, il pacifismo, la difesa dei più deboli? Fatto sta che è completamente neutralizzato, e dalla colonna li vede, ora che Babbo Natale l’ha sbendato per pulirsi l’uccello con la pagina di «Repubblica»: il cane che piscia sul portone e il barbone che, tirati su i pantaloni, vi pesta invece i pugni come un indemoniato: «Fateci entrare, bastardi! Levate tutte quelle panche e metteteci dei letti, e dei bei pisciatoi profumati d’incenso!»

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