di Emanuela Vezzoli

 

“La bocca sola/pura/prega ancora/voi: di pregare ancora/

perché la Tigre Assenza,/o amati/

non divori la bocca/e la preghiera…”

Cristina Campo[1]

 

Nel nome di Giona, il figlio più piccolo di Gabriel, al quale la raccolta è dedicata, e della preghiera e della poesia: il riferimento, qui, oltre a essere rivolto, in nuce, alle parole che accompagnano il segno della croce, strizza l’occhio alla terzina finale della poesia J18 di Emily Dickinson, “In the name of the Bee –/And of the Butterfly –/And of the Breeze – Amen!”[2], testimonianza della sua tensione verso un credo puro, naturale, del tutto simile a quello che promana dalla ricerca e dalla poetica di Del Sarto, il quale rivendica (tra le altre tematiche) la necessità di una religiosità tersa nella caligine spirituale dell’oggi, chiedendosi se sia ancora possibile[3] e rendendola viva nei suoi versi.

Come per Cristina Campo, la poesia di Del Sarto esiste infatti in un rapporto profondissimo con la preghiera, è, essa stessa, preghiera (“Questa è dunque la poesia: preghiera liturgica”[4]), perché “La poesia, in quanto preghiera, fa da ponte tra due mondi, quello visibile e quello invisibile”[5], è espressione dell’oltre nel qui, è richiamo, invocazione, generazione di senso.

 

Se però per Campo la poesia-preghiera è soltanto nella pura oralità, quella di Gabriel vi approda in un secondo momento, prima, peraltro, di ritornare a esser taciuta. Essa nasce, infatti, nel silenzio agostiniano dell’orazione intima (quella che tace con la bocca, ma parla con il cuore) o, prima ancora, negli atti muti dei sacerdoti d’Israele, che in nessun rito proferiscono parola, “eccezion fatta per la benedizione che [pronunciano] ad alta voce”[6].

Matura nella tensione verso una declamazione che coinvolge la voce nelle sue tonalità più gravi, sulla scia della ripetizione esicastica della preghiera del cuore, delle formule mistiche e del Nome, della “liturgia greco-bizantina, che è organizzata in canti lenti, solenni”[7].

E si compie, in ultima istanza, in una nuova -lalìa silente, parlata dal cuore, che prosegue, però, la ripetizione sacra.

 

Invocazioni come “Presenza/sfuggente, figlio sempreverde, dialogo/che mi importuna e mi sorride”[8] andranno allora comprese nella loro origine tacita, recitate a voce bassa – e con tutti i sensi, perché a tutti i sensi viene comunicata l’energia di Dio (“Pregare è come essere nudi, è lasciarsi inondare dal sole”[9]) – come canto lento e poi ancora dette, ma nel silenzio recondito di un cuore esposto e di un intelletto svuotato, che non pensa a Dio (e alla Poesia, qui), ma che lo (la) riceve.

Del Sarto si spinge anche oltre, in Sonetti bianchi. Gioca infatti su un richiamo simbolico-sacro squisitamente dantesco. La struttura della raccolta è ternaria: le poesie sono distribuite in tre sezioni (la prima ospita nove componimenti, la seconda tre, la terza di nuovo nove) introdotte, ciascuna, da un innesto narrativo suddiviso, a sua volta, in tre parti.

 

Se nella Vita nova, però, il nove è il numero divino di Beatrice, qui è il numero di Giona (figlio che viene al mondo portando in dono una copia in più del cromosoma 21, che, non a caso, è il numero totale delle poesie che compongono il volume). Il nove è, inoltre, direttamente collegato al tre, “giacché ne è il quadrato, e lo si potrebbe chiamare un triplo ternario; è il numero delle gerarchie angeliche, quindi quello dei Cieli”[10].

Il tre, nella ghimatriah, corrisponde alla lettera ebraica gimel, prima lettera della parola gomel (il “benefattore”) che, nell’alfabeto, si allontana dalla bet (prima lettera della “casa”, bayt) e procede, quasi di corsa (la forma di gimel ricorda proprio quella di un uomo che corre), verso il meno abbiente per aiutarlo (la lettera dopo gimel è infatti dalet, prima lettera della parola dal, il “debole”).[11]

 

Il tre e il nove, di conseguenza, riportano a Giona che, benefattore – alla stregua di Dio, ci salverà: “Sei tu il luogo dove/gli angeli non muoiono e la materia/che ci individua è solo lo spillo/del Big Bang, le molecole di un requiem/infinito e felice.”[12].

E sono bianchi, i sonetti di Gabriel: non sono infatti canonici, i quattrodici endecasillabi che compongono ciascun brano, e non si chiudono in schemi rigidi di rime, bensì risuonano di assonanze e consonanze, liquidi e limpidi come un “racconto notturno”[13].

Sono bianchi, di un candore abbacinante (la luce e il bianco disseminano i testi, rintoccano, in una ripetizione quasi misterica). Dicono di eventi profondamente personali tanto quanto della creazione d’ogni singolarità e del tutto; muovono dalla biografia più minuta (“Non esiste, propriamente, la storia. Esiste soltanto la biografia.[14]), ma aprono (come creature rilkiane[15]) su di una verità universale.

 

Narrano di un entanglement primigenio tra ciò che conosciamo e ciò che sfugge, tra noi – corpi distanti (dai nostri stessi e dagli altri) – e il nostro punto di fuga, di ricongiungimento (con noi, con l’alterità); di quelle stringhe[16] che conciliano, in queste poesie, fisica quantistica e mistica: corde che costituiscono e costruiscono, con il loro vibrare e le loro note, la materia, mentre echeggiano in voci lontane e (ig)note, in messaggi di vita e d’amore, in una tenerezza che – finalmente – qualcosa o qualcuno ci aiuta a “inventarci”[17], perché già esiste, insita in ogni quark. Filamenti primi che portano gli esseri a risuonare alla stessa frequenza nel momento del loro generarsi e in tutto il tempo a venire, a ri-conoscersi, a partecipare di una comunanza con il cosmo e con il superno: “Gli angeli sono anche carezze/di un padre sconosciuto, sono lunghi/riti stellari in cui osservare/la fioritura lenta e fiammeggiante/della tua danza”[18], “ignoriamo/le silenziose sinfonie stellari/che ci plasmano, grandiose e lontane”[19].

 

Sono dunque in grado – in un’orazione intima, in una “preghiera del limite”[20] – di rivelare l’abisso di significato del nostro esser-ci (Dasein), che noi intuiamo, ma che, da soli, non siamo capaci di delineare “sei qua, sei un volo bianco/spezzato e invisibile, sei la pratica/che dovrò fare del mondo che pensa/se stesso e si apre, in altro sacrificio”[21].

Sono bianchi perché contengono l’intero spettro del vedere e spettri interi del vivere, fantasmi (“ogni vita è angolo/con la sua inclinazione, visitato/da molti fantasmi”[22]) di divinità che ci affossano (“un Dio smemorato e folle”[23]) e ci salvano (“Quale Dio è il tuo, Giona, che lenisce/senza dire”[24]), fantasmi di chi prova a restare, ostinato, e ce la fa, camminando e pregando come in una meditazione esicastica itinerante, o in una pratica sufi (ove il corpo, nell’atto del camminare, resta sulla terra e permette all’anima di raggiungere la sfera divina), in un “esorcismo”[25] che muta, che rapisce, che restituisce.

 

Sono bianchi come il gemito di un bambino, come la lalangue di Giona (“figlio balbettante”)[26] che genera l’universo riorganizzando le lettere dell’alfabeto e “imprimendole nello pneuma”[27], nel ruah biblico (“Dentro il soffio/sospeso della tua voce”[28]), le stesse lettere con le quali Dio nel Sefer Yesirah («Il libro della creazione»[29]) aveva plasmato il creato: verbo che si fa carne. E poesia, qui.

Sono bianchi come le incastonature di prosa che li precedono, sezione dopo sezione: didascalie teatrali nitidissime che introducono ogni nuova scena ove non esiste simulazione (“Recitare, si sa, non è fingere”[30]), ma soltanto realtà (“siamo svegli siamo vivi”[31]), brevi interludi di segretezza, narrazioni fulminee, riflessioni e quesiti di (r)esistenza, àncore – in cui del Sarto cuce alla perfezione dati scientifici e vertigine letteraria – che impediscono di capitolare (“Fu importante inventarsi un pavimento, lì per lì, per evitare di cadere.”[32]).

 

Sono bianchi come Giona, il profeta più disubbidiente di tutti: Giona che è “colomba”. La “ionà” di Noè”[33], creatura nivea per eccellenza, in Genesi, nel Cantico dei Cantici e nei Sonetti “Dove sarò, colomba/mia?”[34]. Giona che, candidamente, scappa nella direzione opposta a quella che il Signore gli indica durante la chiamata, Giona che urla a Ninive una profezia che mai si avvera e che si adira con quel Dio che lo ha preso in giro. Giona che osa chiedere che la vita gli venga tolta (“Buona la mia morte più della mia vita” […] “È fare bene accendermi fino alla morte”[35]), e che addirittura lascia Elohìm senza risposte (“Il testo termina così, con la domanda di Dio.”[36]).

“There’s a certain slant of Light”[37] in queste poesie, direbbe Emily (Dickinson), è quel sole che “si stampa sulle superfici metalliche, sui grandi vetri occidentali, sulle giunture e sui tubi fumanti”[38], è “il taglio/dipinto dalla luce nell’ingresso/di un’estate”[39] che riverbera, netto, come quello che in Genesi Dio chiama “giorno”[40]. Una lama fulgida e affilata che seca ogni certezza sedimentata e apre su di un nuovo affacciarsi al mondo, espone un pulsare di (di)-speranza (una disperazione feconda, uno sperare vasto), di (in)comprensione, di invocazione sempre carica (“Ti lancio qualcosa, sembra un grido senza voce, sembra un’onda senza ragione./Ti lancio qualcosa, non è di metallo e ha un sapore sconosciuto, una natura cosmica.[41]).

 

La parola – composta, misurata, come lo è sempre, quella di Gabriel – incede al pari dell’esistere in un ritmo limpido, cadenzato (“Ma la vita è anche la nostra metrica”[42]), senza però privarci di scosse telluriche che muovono dal dolore (“sento che il crollo finale è vicino”[43]), da ferite profonde, da suture energiche, da proiezioni melancoliche (“tratterrò, se vuoi e finché avrò forza, insieme le parti, le forze opposte. Ma non prometto niente.”[44]), dalla dolcezza crudele dell’amare purissimo, dal vivere aperto, come “Le porte” che “non si chiuderanno”[45], nonostante le morti consumate (nostre, plurime), in una consustanziazione di animi e intenti, di tentativi acquorei di comprensione.

Gli angeli, che ricorrono così di frequente nei brani, assomigliano ai Gehilfen dei romanzi di Kafka, quelle figure di supporto (luminose e, a volte, sinistre) che Agamben descrive come “messaggeri che ignorano il contenuto delle lettere che devono recapitare, ma il cui sorriso, il cui sguardo, la cui stessa andatura ‘sembrano un messaggio’”, o gli aiutanti del Messia, “uomini che, nel tempo del profano, posseggono già le caratteristiche del tempo messianico, appartengono già all’ultimo giorno.”[46], coloro che attraversano “le gerarchie del tempo”[47], scrive Gabriel, e rivelano a quali riti dovrem(m)o sottoporci per poter progredire, o, più probabilmente, solo per poterci sillabare in un canto sommesso e ipnotico, in una preghiera che ci de-finisca, quel tanto che basta per “trascenderci”, che “è meglio di niente”[48]. (Che sia Giona stesso, il più grande tra questi angeli. Senza punto interrogativo.)

 

Desiderantes, Gabriel e suo figlio sanno abitare il giorno, dimorano oltre la notte (“La notte è andata”[49]), si fanno àuguri del loro stesso procedere, mano nella mano, corpo contro corpo, grumo “di latte e zucchero sulla tavola della colazione”[50]. Trasparenti (“dormi trasparente nel mio abbraccio”[51]) eppur materici, sono contorni ancora da disegnare, ma già marcati, sono progressione lenta e lallazione reciproca, in un dialogo di silenzi gravidi e di ripetizioni sacre (“poche parole/che mai ripeti, ti prego ripeti/con me una volta, una sola volta/almeno, questo nome e il suo pericolo,”[52]), di intese sottese, di (in)consapevolezza da lasciar gemmare (la raccolta si chiude proprio con il verbo “germoglia.”). In fondo, sono proprio i poeti e i profeti (chi, dunque, se non Gabriel e Giona), ci insegna Scholem[53], gli unici depositari della magia e del mistero della parola, della potenza creatrice della stessa, prima e dopo che diventi udibile.

 

Si trova tanto, nella bianchezza di questa raccolta. Anzitutto un richiamo, imprescindibile, a quella di Moby Dick, “It was the whiteness of the whale that above all things appalled me”[54]: Ishmael era ossessionato dagli esseri bianchi e la balena stessa era bianca. (Non dimentichiamo che Giona – chiamato e subito fuggito da Dio – per salvare i compagni di viaggio con i quali si era imbarcato dalla terribile tempesta – si gettò in mare e fu inghiottito da “un pesce grande”[55]). In secondo luogo, il risuonare della forza potenzialmente spaventosa e indomabile di un’altra creatura marina, un Leviatano che Gabriel ha imparato a scorgere, a respirare, a sezionare, a vivere e dal quale si lascia perennemente attraversare (“poroso” quanto “le mani delle madri”[56]) nella sua parola di indagine e di venerazione. Infine, la restituzione della superficie perfettamente levigata di un impasto morbido e dolcissimo (“bianco epos glassato/candito per le domeniche di solitudine”[57]) plasmato da Del Sarto: un’argilla fatta degli studi biblici e letterari di Gabriel, delle sue meditazioni, della sua operosità pratica e della sua raffinatezza linguistica, del suo abbandono quasi mistico alla parola poetica. Si fa Golem, allora, questa raccolta: creatura il cui “miracoloso Shemhamphoras[58] ha il nome di Giona, ha il nome della preghiera, ha il nome della poesia.

 

Note

 

[1] Da “Poesie sparse”, in La Tigre Assenza, Adelphi, Milano, 1991

[2] “Nel nome dell’Ape –/E della Farfalla –/E della Brezza – Amen!”. Per i riferimenti alle poesie di Dickinson nel presente lavoro si veda M. Bulgheroni, a cura di, Emily Dickinson – Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1997.

[3] Si legga anche il suo Raccontare la verità, Lamantica, Brescia, 2019.

[4] C. Zamboni, a cura di, Cristina Campo – Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2023, p. 119.

[5] Ivi, p. 118.

[6] G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano, 1998, p. 17.

[7] C. Zamboni, 2023, op. cit. p. 119.

[8] P. 51 (d’ora in poi, le pagine citate in nota senza riferimento testuale si intendano tratte da G. Del Sarto, Sonetti bianchi, L’arcolaio, Forlimpopoli, 2022).

[9] J.-Y. Leluop, L’esicasmo, Gribaudi, Milano, 2002.

[10] R. Guénon, L’esoterismo in Dante, Adelphi, Milano, 2001, p. 73.

[11] https://hebrewtoday.com/alphabet/the-hebrew-letter-gimel-%D7%92/

[12] P. 53.

[13] P. 50.

[14] R.W. Emerson, dall’esergo di Tenere Insieme, G. Del Sarto, Pordenonelegge – Samuele Editore, Pordenone, 2021.

[15] Rilke, nella sua Achte Elegie, presenta l’animale (die Kreatur) come l’unico essere in grado di vedere oltre, di avere accesso all’Aperto, per l’appunto, all’infinito. L’unico che possa conoscere, attraverso il proprio sguardo scevro di sovrastrutture, la Verità, di avere “Dio e il puro spazio in cui sbocciano i fiori”, di fronte.

[16] Per un riferimento scientifico alla “teoria delle stringhe” si veda B. Greene, The Elegant Universe: Superstrings, Hidden Dimensions, and the Quest for the Ultimate Theory, W. W. Norton & Company, Manhattan, 2010. Dal cap. 6 (trad. mia): “La teoria delle stringhe offre una nuova e profonda modifica alla nostra descrizione teorica delle proprietà ultramicroscopiche dell’universo […] Secondo questa teoria, gli ingredienti elementari dell’universo non sarebbero particelle puntiformi. Si tratterebbe piuttosto di minuscoli filamenti monodimensionali, simili a elastici infinitamente sottili, che vibrano in continuazione […] che costituiscono le particelle di cui sono fatti gli atomi stessi.”

[17] “Il bisogno di carezze nasce con noi e in noi persisterà tutta la vita […]. In un mondo minerale, vegetale e animale ove la bontà ci pare eccezione e la violenza regola, spetta all’uomo d’inventare la tenerezza.”, P. Scanzani, Avventura dell’uomo, Utopia, Milano, 2020, cap. Novecento giorni.

[18] P. 53.

[19] P. 54.

[20] P. 50.

[21] P. 48.

[22] P. 47.

[23] P. 49.

[24] P. 47.

[25] P. 27.

[26] P. 43.

[27] G. Scholem, 1998, op. cit., p. 32.

[28] P. 53.

[29] G. Scholem, 1998, op. cit., p. 31.

[30] P. 35.

[31] P. 54.

[32] P. 20.

[33] E. De Luca, Giona/Ionà, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 10.

[34] P. 38.

[35] E. De Luca, 1995, op. cit., p. 41.

[36] R. Mercadini, La donna che rise di Dio, Mondadori, Milano, 2023, p. 166.

[37] “V’è un angolo di luce”, J258, 1861.

[38] P. 36.

[39] P. 26.

[40] Genesi, 1-5.

[41] P. 43.

[42] P. 50.

[43] P. 45.

[44] P. 45.

[45] P. 27.

[46] G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Milano, 2005, p. 31.

[47] P. 52.

[48] P. 45.

[49] P. 36.

[50] P. 52.

[51] P. 49.

[52] P. 51.

[53] G. Scholem, 1998, op. cit., pp. 87-90.

[54] H. Melville, Moby Dick, Penguin Classics, Westminster-London, 2012.

[55] E. De Luca, 1995, op. cit., p. 29.

[56] P. 22.

[57] P. 46.

[58] G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino, 1980, p. 202.

 

[Immagine: Alberto Burri, Cretto bianco, 1973].

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