di Alessandro De Cesaris

 

[E’ appena apparsa per Tlon la nuova edizione di Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, di Peter Sloterdijk. Pubblichiamo una riflessione di Alessandro De Cesaris su questa edizione].

 

Nel 1966 Martin Heidegger concede al settimanale tedesco Der Spiegel una lunga intervista sul suo pensiero e sulla condizione del mondo contemporaneo. In quel momento la posizione del filosofo è molto delicata: pur trattandosi senza dubbio di uno dei pensatori più influenti del secolo, il suo nome è rimasto legato all’adesione al regime nazista, risalente alla nomina a rettore dell’Università di Friburgo nel 1933. Questo fa di Heidegger l’oggetto di una controversia che continua ancora oggi, ma che negli anni ’60, molto prima della pubblicazione dei Quaderni neri, era già ben radicata nel dibattito culturale europeo.

L’incontro avviene a una condizione: che il testo venga pubblicato dopo la morte del filosofo. Verso la fine del colloquio, in risposta a una domanda sul ruolo dell’individuo e della filosofia nella situazione del tempo, Heidegger pronuncia la frase che darà il titolo all’intervista nel momento della sua apparizione in edicola, dieci anni dopo, il 31 maggio 1976: «Ormai solo un Dio ci può salvare».

 

Nel suo ampio saggio introduttivo all’edizione italiana, Alfredo Marini riflette a lungo sul significato di questa espressione e la identifica con un tratto caratteristico della cultura tedesca: il riferimento a Dio non va inteso come un «alleggerimento», come un tentativo di assegnare la responsabilità a Dio e ritirarsi in un piano inferiore e più semplice dell’esistenza, ma al contrario è «assunzione di responsabilità assoluta, soprassalto dell’ego» (A. Marini, La politica di Heidegger, in M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel», Guanda, Parma 1998, p. 85). Quella che sembra un’attestazione di umiltà, nasconderebbe invece una postura radicale, che inscrive la condizione umana in un dramma cosmico nel quale risuona il nome di una divinità costantemente evocata e mai presente.

 

Venticinque anni dopo la pubblicazione dell’intervista, Peter Sloterdijk – docente di Estetica presso la Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe – pubblica una raccolta di saggi dal titolo perentorio, che nella traduzione italiana perde qualcosa del suo laconico impatto: «Nicht gerettet» (letteralmente: «Non salvati»). Tradotto una prima volta in Italiano nel 2004, adesso il volume viene ripresentato dall’editore Tlon con una traduzione rivista da Antonio Lucci, uno dei massimi esperti del pensiero di Sloterdijk in Italia, che firma anche una ricca postfazione estremamente utile per comprendere l’opera nel suo contesto storico e filosofico.

Tenendo a mente il legame con l’intervista del 1966, infatti, una delle linee-guida della raccolta potrebbe essere identificata con una semplice tesi: la postura radicale di Heidegger, che si esprime in quella domanda così altisonante, non riguarda la cultura tedesca, ma rivela un tratto caratteristico di quella tradizione plurimillenaria cui diamo il nome di filosofia. Da Platone a Heidegger, i filosofi esagerano, e qualche volta finiscono nei guai.

 

Esagerare è troppo poco. Il doppio vizio di Sloterdijk

 

Come Heidegger qualche decennio prima, anche Sloterdijk nel momento in cui pubblica la raccolta è un “filosofo controverso”. Nel 1997 aveva tenuto a Basilea un discorso intitolato Regole per il parco umano, pubblicato poi nel 1999 ed entrato poi a far parte nella raccolta del 2001. In quel saggio, che si proponeva come una riflessione a partire dalla Lettera sull’umanesimo di Heidegger, viene tracciata una linea di continuità che da Platone attraversa l’umanesimo classico e l’eugenetica fascista, fino ad arrivare alle biotecnologie contemporanee. Il saggio scatena la reazione sdegnata di alcuni giornalisti e intellettuali tedeschi, tra cui spicca la figura di Jürgen Habermas, che accusa Sloterdijk di promuovere una posizione favorevole all’uso spericolato della genetica.

Presa fuori contesto, una tesi che mette insieme l’umanesimo e la genetica nazista non può che apparire come una provocazione. Tuttavia, letto all’interno della raccolta di Non siamo ancora stati salvati il saggio del 1999 si presenta come una tappa fondamentale all’interno di un lavoro organico di confronto con Heidegger, con la filosofia tedesca del Novecento e con l’intera tradizione culturale e filosofica occidentale. Un lavoro pluridecennale, di cui questa raccolta costituisce una traccia estremamente utile in quanto leggibile sotto almeno tre profili diversi: come un resoconto critico di alcune linee fondamentali del pensiero tedesco ed europeo del ‘900; come una sintesi di alcune linee teoriche generali del pensiero di Sloterdijk; infine, come un trattato di retorica filosofica.

 

Partiamo dal primo profilo. Come testimonia il sottotitolo della raccolta, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger è innanzitutto un confronto estremamente articolato con l’eredità filosofica heideggeriana. Cinque dei dieci saggi raccolti nel volume sono tematicamente dedicati al pensatore tedesco, lungo una linea di cui Regole per il parco umano costituisce solo un segmento. Lo sforzo di Sloterdijk va in due direzioni principali: la prima è il tentativo di ripensare l’analitica esistenziale in termini (paleo)antropologici, secondo un’impostazione che era già stata di Hans Blumenberg e che sfida l’avversione heideggeriana per le scienze umane. In secondo luogo, Sloterdijk intende mettere in luce la trattazione «potenzialmente rivoluzionaria» (p. 419) del rapporto tra essere e spazio contenuta in Essere e tempo. In questo senso, il progetto di Sfere viene rivendicato come un tentativo di realizzare una potenzialità non del tutto espressa dell’heideggerismo, potenzialità oltretutto quasi mai riconosciuta dagli studiosi.

 

Al di là di Heidegger, tuttavia, nei saggi contenuti nella raccolta Sloterdijk propone un articolato confronto critico con alcuni momenti fondamentali della storia del pensiero: dalla filosofia di Platone alla tradizione umanistica, dall’illuminismo alla grande alternativa novecentesca all’heideggerismo, ovvero la Teoria critica della Scuola di Francoforte. Non si tratta di pensare ciò che è successo dopo Heidegger, ma di ripercorrere la nostra storia culturale alla luce delle possibilità che Heidegger stesso ha aperto. In questo senso, Non siamo ancora stati salvati può essere letto come un’antologia critica di storia del pensiero, come l’abbozzo di una proposta di rilettura complessiva del significato della nostra tradizione.

In secondo luogo, Sloterdijk propone una propria costellazione di campioni filosofici che permettono, come Heidegger, di tracciare una linea tra un “prima” e un “dopo” la loro apparizione. All’inizio di un saggio dedicato al sociologo e teorico dei sistemi Niklas Luhmann, Sloterdijk ne menziona alcuni: oltre a Luhmann stesso e ad Heidegger, Martin Buber, Gilles Deleuze e Gotthard Günther, un teorico della cibernetica meno conosciuto di Heidegger, ma non meno controverso (p. 92). Questi nomi si aggiungono a momenti della storia della filosofia particolarmente cari a Sloterdijk, e vanno a comporre quello che Antonio Lucci chiama un “controcanone”, un percorso alternativo nella storia del pensiero e della cultura europea, che va dalla gnosi a Emil Cioran.

 

In un secondo senso, Non siamo ancora stati salvati è un punto d’avvicinamento ideale al pensiero di Sloterdijk, autore dalla produzione estremamente ricca e non sempre del tutto accessibile. Le tre opere capitali del filosofo, la Critica della ragione cinica (1987), la trilogia di Sfere (1998-2004) e il volume Devi cambiare la tua vita (2009), sono lavori monumentali, che mobilitano una quantità straordinaria di materiali provenienti dalla storia della filosofia e della letteratura, dalla paleoantropologia e dalle scienze della vita, dalla psicanalisi, dalla teoria dei media, dalla teologia e dalla storia delle religioni. Collocata in una fase centrale dell’evoluzione del suo pensiero, la raccolta del 2001 offre al lettore la possibilità di familiarizzare con tutti i temi fondamentali del lavoro di Sloterdijk.

Il primo grande tema è l’antropotecnica, il problema al centro della querelle che ha reso celebre il saggio Regole del parco umano. Con questo termine viene espressa l’idea che «“l’uomo” è da capo a piedi un prodotto e, nei limiti del sapere odierno, può essere compreso solo seguendo in maniera analitica il suo processo produttivo e i suoi rapporti di produzione» (p. 164). Nel saggio del 1999 il problema di Sloterdijk è individuare il carattere antropotecnico della nozione di umanesimo: essere umanisti significa accettare che l’essere umano non è un ente naturale, che esso va prodotto, allevato e dunque modificato. Non si dà civiltà senza un insieme di strategie che mirino a stabilire come gli esseri umani devono diventare per poter coesistere.

 

Come testimonia innanzitutto il testo su La domesticazione dell’essere, che complementa il famigerato saggio sulle regole del parco umano, la questione dell’antropotecnica si inscrive in un progetto più generale di filosofia della spazialità. Lo spazio non va inteso in termini semplicemente geometrici o geografici, ma innanzitutto in termini simbolici e mediali: recuperando alcune linee del pensiero di Heidegger, il problema di Sloterdijk è fornire una descrizione genetica del modo in cui un certo animale è arrivato a trovarsi in un “mondo”. La storia dell’ominazione è una storia di tecniche abitative, di ambienti mediali e di proiezioni simboliche che permettano di trovare il giusto equilibrio tra coesione e dispersione, inibizione e disinibizione.

Tutto questo conduce anche a una certa filosofia della storia, che compare a più riprese nelle opere di Sloterdijk e che nei testi di Non siamo ancora stati salvati si ripropone a più riprese. Si tratta di una scansione triadica del tempo dell’ominazione, che era già possibile ritrovare nel saggio del 1993 Sulla stessa barca, e che qui viene ripensata soprattutto a partire dalle teorie del filosofo hegeliano della cibernetica Gotthard Günther: dopo una lunga fase dominata dalla monovalenza, in cui la distinzione stessa tra vero e falso è sfumata, la storia umana avrebbe attraversato l’epoca delle grandi civiltà e delle grandi teorie, dominata dalla logica tradizionale, per approdare infine al tempo della complessità, in cui tutte le dicotomie binarie tipiche della modernità – tecnica/natura, vero/falso, umano/macchina – si rivelano insufficienti. L’ottavo saggio della raccolta, L’ora del crimine del mostruoso, affronta tematicamente questo problema: la tarda modernità eccede tutti i modelli teorici classici, in essa domina lo smisurato, il mostruoso. Il compito del pensiero, dunque, diventa trovare un’alternativa al paradigma classico della misura, della conoscenza chiara e distinta, per adeguarsi a una realtà in cui le sfide della politica e del sapere non possono più essere affrontate con gli strumenti della tradizione.

 

La diagnosi della contemporaneità come epoca del mostruoso/smisurato, in cui saltano tutte le proporzioni, permette di arrivare al terzo profilo di lettura di Non siamo ancora stati salvati, quello stilistico e metodologico. I saggi raccolti nel volume non contengono solo una serie di letture originali di alcuni momenti della storia del pensiero o di alcuni problemi, ma esprimono anche un’idea molto precisa di cosa significa fare filosofia, ovvero un’interpretazione globale della filosofia come stile del pensiero e del vivere. Tornando alle considerazioni iniziali, potremmo dire che Sloterdijk si inserisce a pieno titolo in un paradigma al quale appartengono pensatori come Giordano Bruno e Nietzsche, e che intende il pensiero filosofico come una forma di eccesso.

Nel suo saggio conclusivo, Antonio Lucci sottolinea con ragione l’importanza di uno dei testi più vecchi della raccolta, il saggio Che cos’è la solidarietà con la metafisica nell’attimo della sua caduta? Appunti sulla teoria critica ed eccessiva, risalente al 1989 e dedicato a un confronto con Adorno e la sua eredità. In quel testo, tuttavia, si può trovare un’interpretazione generale della postura filosofica come un parlare e vivere in modo esagerato.

 

I filosofi sono degli ultra-retori, perché «trattano di oggetti per i quali non si può trovare un modus adeguato» (p. 276). Il discorso filosofico evoca la totalità, il nulla, l’eterno, il divino, mettendo a punto strategie discorsive che consentono di trovare una misura per lo smisurato.

Questo eccesso si esprime anche in termini pratici. Contro una tradizione che aveva identificato la vita filosofica con la vita misurata, Sloterdijk – anticipando temi che saranno propri di Devi cambiare la tua vita – pensa il filosofo come un funambolo dell’eccesso, un atleta della rinuncia e del pensiero, tenendo presente che «l’atletismo è la forma culturale del troppo».

Questa lettura dell’impresa filosofica, ovviamente, dice molto sullo stile dello stesso Sloterdijk. Se dovessimo identificare i filosofi sulla base di semplici prefissi, sarebbe certamente possibile, semplificando, individuare dei pensatori del de e del meta, dell’anti e del post. In questo panorama, Sloterdijk è senz’altro un filosofo dell’iper: il suo vocabolario è composto da termini come iperpolitica e ipercolpa, ipercompetenza e iperinsulazione, ipercomplesso e ipermorale (termine, questo, già di Arnold Gehlen, altro filosofo fondamentale per comprendere il percorso sloterdijkiano). Il prefisso serve addirittura da marcatore antropologico: «è il prodotto di un’ipernascita che fa di un neonato un uomo di mondo» (p. 340). L’iperbole diviene così l’habitus retorico e concettuale della filosofia.

 

Occorre dunque pensare Sloterdijk come un filosofo iperbolico? Molti indizi sembrano testimoniarlo, a partire dalle controversie generate dalle sue tesi, senza contare lo stile di un autore capace di proporre un’intera storia dell’umanità in 90 pagine (in Sulla stessa barca) per poi scriverne 2000 qualche anno dopo, con la trilogia di Sfere.

La questione, tuttavia, non è così semplice. Come nota lo stesso Sloterdijk (p. 286), esiste una continuità sotterranea e implicita tra il pensiero classico e le nuove forme di pensiero che si dichiarano post-metafisiche. Questa continuità è data proprio dal paradigma iperbolico: dal realismo speculativo alle filosofie del non-human turn, fino agli eccessi stilistici e tematici della cosiddetta theory, i filosofi non hanno smesso di esprimersi per eccessi.

 

Rispetto a questo panorama, il segno distintivo del pensiero di Sloterdijk è innanzitutto la capacità di tematizzare l’eccesso e farne l’oggetto di un’indagine metodologica. Nella prefazione al volume leggiamo che la filosofia deve può essere solo «la ricerca di una proporzione adatta al presente tra l’eccessivo e il non eccessivo?» (p. 14). Una formula enigmatica, che auspica una sorta di paradossale proporzione tra il proporzionato e lo sproporzionato, e che permette di comprendere che il semplice riferimento all’estremo non esaurisce la specificità del gesto filosofico di Sloterdijk.

 

Il metron è il messaggio. Mediologia dello smisurato.

 

Per comprendere questa specificità è utile richiamare un ultimo aneddoto, riferito da Bernhard Siegert in un saggio icasticamente intitolato I media dopo i media. La storia coinvolge una figura centrale nel pantheon personale di Sloterdijk, il sociologo Niklas Luhmann, e il celebre teorico dei media Friedrich Kittler: in un tragitto in taxi il primo avrebbe detto al secondo: «Un messaggero cavalca attraverso le porte della città. Alcuni (come me) si chiedono quale messaggio sta portando. Altri (come lei, signor Kittler), si chiedono come è fatto il suo cavallo» (B. Siegert, Media after media, in Media after Kittler, London 2015, p. 79). Siegert equipara questa storia a un proverbio cinese menzionato da Bruno Latour: «Quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito». Ecco riassunto in un paio di citazioni lo spirito di un’intera impostazione metodologica: i teorici dei media sono quegli studiosi che si ostinano a guardare il dito, cercando in questa ostinazione una saggezza recondita. Guardare il dito significa: interrogarsi sulle condizioni materiali della comunicazione e del pensiero. Spiegare l’astratto a partire dal concreto, ciò che è elevato a partire dal basilare.

 

Sin dai tempi di Marshall McLuhan, la teoria dei media si impegna in questa operazione di trasfigurazione del banale, in cui ciò che sembra ovvio assume un significato dirompente, e diviene la chiave per spiegare i grandi fenomeni culturali di ogni epoca: la scrittura alfabetica permette di comprendere la nascita del platonismo, la stampa a caratteri mobili la svolta cartesiana, la radio i grandi nazionalismi. Tutti i grandi teorici dei media, come Marshall McLuhan e Friedrich Kittler, hanno sfruttato l’enorme potere retorico di questa operazione di ribaltamento tra medium e messaggio, un gesto teorico che sembra al tempo stesso un trucco di magia e un motto di spirito.

Solo se si comprende questo orientamento è possibile cogliere il tratto specifico del pensiero di Sloterdijk, un vero e proprio esercizio di letteralità, in cui le atmosfere rarefatte della metafisica vengono riportate alla concretezza delle pratiche e delle cose. A partire dalla metafisica stessa come impostazione teorica, che viene ricondotta a una figura retorica, appunto l’iperbole, e passando per il pensiero di Heidegger, i cui temi più vasti vengono ritradotti a partire dalle loro condizioni di possibilità materiali: la questione dell’abitare diventa – letteralmente – il problema della costruzione dello spazio domestico (in termini tanto tecnici quanto simbolici); il tema della Lichtung viene affrontato a partire dalla questione dell’ominazione; il tempo viene indagato analizzando orologi e calendari, il concetto di umanesimo viene interpretato a partire dalla storia delle comunicazioni postali.

 

In altri termini: le grandi questioni della metafisica classica vengono per così dire “prese alle spalle”, affrontate a partire a partire dalle loro condizioni di possibilità mediali. In questo discorso, un ruolo centrale viene giocato dalla nozione di “sfera”, uno dei termini-chiave del pensiero di Sloterdijk: le sfere, intese come dispositivi di produzione materiale e simbolica dello spazio, sono la dimensione che media il passaggio dall’ambiente dell’animale e al mondo dell’essere umano. Sono i «media che precedono tutti i media» (p. 185). Se il problema della medialità è il centro dell’impianto teorico di Sloterdijk, la sua mediologia viene declinata in termini macroscopici: non è un’indagine archeologica su singoli dispositivi e singole pratiche, ma una ricerca in scala aumentata, che si rivolge a forme di mediazione che agiscono al livello dell’intera collettività. Solo in questo modo è possibile catturare l’ambivalenza del gesto teorico di Sloterdijk: una filosofia iperbolica, le cui esagerazioni hanno però al tempo stesso la forma di un disincanto su larga scala. Una mediologia fuori misura, un’ipermediologia.

In questo modo, i saggi raccolti in Non siamo ancora stati salvati rivelano il laboratorio di un pensatore che si interroga sul senso del discorso filosofico in quanto tale, sulle sue premesse retoriche e sulle sue condizioni mediali. Questa riedizione italiana, che ha il merito di fornire al lettore gli strumenti per comprendere l’opera nel suo contesto, è senz’altro un’occasione per chiedersi ancora una volta quale sia il compito del pensiero nel nostro tempo, in un momento in cui nessun dio si profila all’orizzonte.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *