di Vincenzo Di Marco

 

La lettura di Giorgio Manganelli costringe ad un continuo moto di sorpresa, al sussulto imprevisto per la non comune abilità di riuscire a trattare anche temi ardui con la “callida pigrizia” dell’amato gatto “manierista”, di cui parla in uno degli articoli raccolti in Emigrazioni oniriche. Nelle sue mani tutto si sgretola, si decompone, si frantuma in mille pezzi, come se perseguisse da sempre l’obiettivo di evitare l’accerchiamento della critica che vuole fare chiarezza sulla sua opera, dove questa chiarezza è notoriamente introvabile. È questo che Manganelli ci vuole dire: impossibile ridurre a unità, e a verità, l’arte dello scrivere. Perché lo impediscono la natura magmatica del mondo e la condizione profondamente instabile dello scrittore che si prova a rappresentarlo. Inutile tentare un’impresa destinata al fallimento, riceverebbe in tutta risposta la risata irriverente del saltimbanco-scrittore.

 

Certo, il fallire non è sinonimo di opera malriuscita. Anzi, è per così dire il trampolino di lancio della buona riuscita della più fascinosa delle opere. Chi più di Manganelli ama rovistare nel torbido, aggirarsi nelle atmosfere oniriche per carpire il non senso della realtà, senza peraltro chiedere licenza della libertà di parola? Possiamo notare parecchia somiglianza tra lo stile di Manganelli e le provocazioni “rivoltanti” dei dadaisti e surrealisti, anche se vi manca l’idea della scrittura come arma ideologica destinata a sovvertire la realtà. Manganelli non ricorre all’espediente letterario come allegoria d’altro. L’opera letteraria nitida e coerente, pensata come un palinsesto programmatico, è già morta in partenza. L’onnivoro scrittore che Manganelli è stato restituisce al lettore le sue “squisite” deiezioni, riempie la pagina di forbite allucinazioni, fornisce largo credito al labile e all’effimero, senza pentimenti di sorta. E pare che il lettore le gradisca molto.

Diamo un saggio di questa scrittura con un brano tratto dall’articolo “Catturare il fantasma”:

 

Quando esco da questa mostra del manierismo, Vienna, Künstlerhaus, quando mi sottraggo a questa magheria medusea, mirabile, strabocchevole, prevaricatrice, perversa, dilettosa, tendenzialmente cosmica, mi rifugio in un minuscolo pensiero, una fantasia portatile: un gatto. Sto chiedendomi, naturalmente: un gatto è manierista? Penso alla danzante ambiguità del felino, i suoi occhi stupefatti e orrorosi, la callida pigrizia: non v’è dubbio, il gatto è manieristico. Per di più, il gatto è simile a una tigre, è una tigre tascabile, meglio una tigre da tavolo, da studiolo, da ciondolo; eh, sì, non c’è dubbio, il gatto è un trionfo di manierismo.

 

Una prova magistrale di quel tipico atteggiamento che invita a farsi beffe del lettore e ad utilizzare lo sberleffo non richiesto come arma di offesa. Un campionario di aggettivazioni suadenti, di connessioni illogiche, e di “trovate” che hanno la paternità di un incompetente molto loquace. Due sono gli antesignani illustri di questa fobia linguistica rivolta alla ricerca di neologismi orripilanti a scopo scandalistico: D’Annunzio e Malaparte tra gli italiani. Con la differenza fondamentale, ampiamente provata, che Manganelli ha una particolare predilezione per i parti deformi, per le nascite indesiderate, insomma per gli ectoplasmi informi. Anche se non possiamo escludere un recondito bisogno di consolazione estetica nelle frequenti stilizzazioni armoniche che troviamo disseminate tra le sue pagine, come nell’esemplificativo “questo volto appenato”, presenza dannunziana accertata.

 

Stando così le cose, prendiamo atto che Manganelli ‒ da questo punto di vista ‒ è l’anti-Pasolini. Se il poeta di Casarsa destava scandalo con le sue controinchieste, i suoi “inconvenienti” sessuali, gli interventi “corsari”, Manganelli è l’interprete più raffinato, e indiscutibile, del letterato che fa del camuffamento e del travestimento geniale, della dissimulazione, un perenne tirocinio. Distorcere la realtà per puro gusto della menzogna, rifiutare l’arte della verosimiglianza, mordersi la coda come l’uroboro per simulare un apparente movimento, vorticoso e caotico, e finire con la perfetta ciclicità dell’immobile, sono i tratti decisivi di un altro Novecento letterario, quello che comincia con la crisi degli anni Sessanta, si immerge nella contestazione politica, e si conclude con la riesumazione del letterato désengagé. Questa filosofia antistoricistica è una sfiducia nella storia sociale e politica senza attenuanti. La realtà vera può trovarsi solo nelle nostre “emigrazioni oniriche”, nel sottosuolo e nel sopraceleste (i “celicoli” tornano spesso nelle saghe antiche), a dimostrarci quanto sia debole la convinzione dell’uomo “occidentale” di essere misura di tutte le cose.

 

Cortigiano suo malgrado, figura istituzionalizzata anche se non denunciata, anarchico e corrosivo, ma al tempo stesso ben visto dagli apparati culturali che hanno trasformato il suo “caso” letterario in “evento” spendibile per la nostra età prosaica, il “teppista” (come l’ha definito Pasolini) delle patrie lettere deve pur tuttavia vestire i panni del sacerdote intento alla celebrazione della sacra funzione dell’arte: risulta difficile separare questo strano miscuglio di sublimi apoteosi estetizzanti dalle sirti melmose della scrittura. L’eterno adolescente che non diventerà mai adulto, conosce fin troppo bene i vantaggi assicurati dal mito dell’eterna giovinezza creativa. Manganelli finge abilmente la condizione di scrittore malato, di schizofrenico in punta di penna, e lo fa con quella virginale adorazione del patologico che gli assicura una fonte redditizia di successo e di benevoli apprezzamenti del mercato.

 

Matteo Marchesini lo ha definito «scrittore ipertrofico e monolitico», rimarcando come il giudizio di tanti critici “idolatri” (le «sette dei goliardi») sul più artificioso dei nostri scrittori finisca col produrre un’idea pedante del lavoro letterario, che riconosce il «valore di un’opera solo là dove uno Stile molto vistoso dichiara a ogni passo la propria eccellenza e il proprio disprezzo del banale». Si direbbe l’effato del bric-à-brac. Alessandro Gazzoli è anche più reciso:

 

Il rischio è di ridurre Manganelli a un autore extracanonico per partito preso, il cui valore sarebbe riconosciuto soltanto da un pubblico ristretto di aficionados (il «piccolo popolo dei pazzi» di cui parlava Emanuele Trevi, o le «sette dei goliardi» evocate da Matteo Marchesini). L’opera di Manganelli va riletta, anche e soprattutto, nelle modalità con cui è presentata e giudicata: considerare Manganelli un autore da risarcire post mortem, di cui ogni scritto è pubblicabile e degno di nota, è un modo ulteriore per commettere un torto, in definitiva per non leggerlo affatto.

 

Giudizi perentori che ci restituiscono la figura bifronte del letterato Manganelli.

 

Prima di entrare nel merito di Emigrazioni oniriche, uscito per Adelphi nel 2023, a cura di Andrea Cortellessa, occorre precisare meglio la posizione occupata da Giorgio Manganelli nel panorama letterario nel secondo Novecento, l’autore che più di tutti avrebbe rifiutato questo casellario giudiziario riservato a poeti e scrittori. Eppure bisogna forzare le difese, insistere nel gioco “sporco” della definizione critica sul più indefinibile degli scrittori, sul mentitore di professione, sull’anarchico di mestiere (ma poi non così inviso al potere) che egli è stato. L’illusione di poter fare a meno di ogni deposito ideologico, di inseguire il sogno di una libertà aliena da referenze politiche, è impossibile da realizzarsi e tutto sommato inutile. La natura cortigiana e istituzionale dell’arte, anche con la crisi del mecenatismo e della schiavitù politica dei regimi totalitari, vige dai tempi dell’Itaca di Ulisse, è presente nella vicenda esemplare di Femio che venne perdonato per essere destinato ad altri servigi, mentre il padrone di casa sterminava gli usurpatori. Non si possono scambiare le libere frenesie di un “eccellente” scrittore per pronunciamenti ereticali, come purtroppo di frequente si tenta di fare con Manganelli.

 

Questo libro (che si aggiunge ad altri libri usciti sempre del 2023, a dimostrazione della floridezza editoriale attorno alla figura di Manganelli, pensiamo alle Poesie curate da Daniele Piccini per Crocetti e Mia amica carnale, le lettere ad Ebe Flamini, Sellerio) ci aiuta a precisare meglio la figura di Manganelli, perché riunisce i “testi dedicati alle arti visive”, cioè agli articoli e note d’arte su quel mondo irreale, fantastico e illusorio, che da Platone in poi tormenta la coscienza di ogni buon intenditore non suggestionato da fesserie a buon mercato.

Ma viene altresì da chiedersi se Manganelli avesse mai pensato alla “riproducibilità tecnica” di Benjamin e ai camuffamenti di cui è popolato non solo il mondo delle arti. Il gioco illusionistico, incantatorio di questa prosa obbedisce ad un uso “coprolalico”, scatologico, del linguaggio, senza aver fatto i conti ‒ ma la perfida intelligenza di Manganelli non può essere confusa con l’ingenuità del neofita ‒ con l’altro da sé, con il resoconto fattuale della resa dell’artista alle condizioni oggettive in cui è relegato il suo operare nell’attuale contesto storico. Ecco un lucido esempio di questi capovolgimenti illusionistici di cui è piena la sua prosa, a proposito delle “patate” di Van Gogh:

 

Le patate: che cosa sono nell’universo ustionato di Van Gogh? Potrebbe essere il cibo degli umili, come suggerisce una pia glossa della scheda, forte di una citazione di una lettera autografa. Non credeteci; non credete alla puerile moralità dello schedatore, né alla giustificazione di un Van Gogh, non di rado travolto o atterrito da quello che andava dipingendo. Le patate sono tuberi ctonii, frutti che si nutrono di lunghe tenebre, cibi apparecchiati, allevati nel luogo della sepoltura. Le patate sono notte, profondità, cimitero, tomba, nero, nerità; e hanno la forma sgraziata e concentrica del mondo. E Van Gogh era adescato mortalmente, irreparabilmente dai minuscoli teschi delle patate, quei vivi morti, nutritivi fantasmi. Lo sapeva: quando osò dipingere non solo la sacra, inattingibile forma delle patate, ma I mangiatori di patate, in lui si destò un meraviglioso orrore, un orrore che fu di Goya. Streghe, maghi, creature del nero, forse allucinazioni demoniache, sono costoro che, fattisi notturni, ctonii, osano mangiare la sotterranea patata. Un sacramento negativo.

 

Piuttosto che essere il derivato di una condizione sociale povera e degradata, come comunemente si intende questo dipinto di Van Gogh, “i mangiatori di patate” sono trasformati in inconsapevoli necrofagi. Come avrebbero potuto esserlo, aver abolito il senso religioso della vita che li animava, potuto sconvolgere il quadro dei valori morali che li definiva? Solo la mente alterata dello scrittore può rappresentarli in quelle fattezze e in quelle circostanze drammatiche. Manganelli invita a non credere alle schede illustrative dei dipinti; quindi a non credere nella storia, alle circostanze ambientali, alle filosofie di vita. Il reale si tramuta, per lui, nell’irreale e viceversa.

Altri esempi potremmo fornire al riguardo. Manganelli definisce le copie di opere famose presenti nel “finto” museo di Palazzo Strozzi (si veda uno dei primi articoli, “La patacca dell’anima”) «la virtuosa rinuncia al genio», o le sale che ospitano i pittori Fiamminghi e Veneziani, immaginati in una divertita gara di briscola in paziente attesa («così possono farsi una briscola»), con vertiginose e strazianti metafore tendenti all’annichilimento del valore simbolico dell’arte maggiore, utilizzando una suspence corrosiva quanto mai irritante. Tutto questo non ci solleva dal compito ingrato del rimprovero aperto e diretto.

 

Prendiamo uno dei primi esempi del libro: il “Lager di squisitezze”, com’è definito il Museo degli Uffizi, «delicato leviatano», orrido e cupo contenitore di “delitti” frutto di predazioni, catture, scambi, trafugamenti, che indicano tanto il vertice assoluto del mecenatismo mediceo, quanto la «passione non ignara di delitti» che porta inevitabilmente con sé. Tutto questo parla anche di altro. Manganelli si limita alla osservazione dotta e spregiudicata, al lamento ingegnoso pieno di controsensi, con l’unico fine del ribaltamento del senso comune, a forza di giochi linguistici desunti dalla sua meravigliosa macchina scrittoria, che ha in serbo sorprese a non finire.

 

Qualche anno fa Franco Fortini parlò non a torto del desiderio di Manganelli di stupire il lettore ad ogni costo, che non pensiamo amasse più di tanto, ma al quale era intenzionato a garantire «un Manganelli di origine controllata», proprio per non deluderlo con sorprese indesiderate. Se «l’opera chiusa nella teca del museo è catturata in un lager di squisitezze», quasi a voler denunciare la condizione estrema e “ridicola” in cui sono relegate le cose belle ridotte al loro stato larvale, essa deve fare i conti con l’uso di quei luoghi per l’educazione civile e artistica della popolazione, anche quando lo stato penoso in cui sono ridotti i musei non ce lo rendono evidente. Altrimenti dovremmo arrenderci da un lato alle greggi di ignoranti (turisti e scolaresche) che deturpano quei luoghi (una volta pensati come svago dei potenti), e dall’altro ai visitatori solitari (Zeri o Sgarbi non fa differenza) che possono godersi in santa pace l’Arte con la maiuscola che tutti gli esclusi non avranno il diritto di far propria.

 

Manganelli lo dichiara fin da subito: l’artista è un falsario, l’arte una falsificazione. E poi tutto è mistificazione, incantesimo, sdoppiamento, inganno, deformità. Ecco due dei numerosi paradossi: dobbiamo dubitare dell’esistenza di un pittore di nome Vincent Van Gogh, come è illusionistica e bugiarda la pittura scenografica di Tiepolo. I grandi musei sono paragonati a gallerie che espongono orrori ad occhi aperti. Dovunque si respira un’aria mefitica, gli oggetti esposti somigliano a referti criminali, e l’artista quando va bene veste i panni dell’alchimista ossessionato dalle sue mostruose fantasie. Questo lungo catalogo di funambolici e pirotecnici pareri artistici, che Manganelli ha scritto per giornali e riviste in un arco lunghissimo di anni, raccolti dal paziente lavoro di Andrea Cortellessa presso l’Archivio Adelphi, è ben riepilogato nella post-fazione dal titolo eloquente di “Violenza immobile”. Non a caso l’ansia violenta che caratterizza le pagine dello scrittore vorace è pari all’atmosfera pestifera, mortale, che sembra respirarsi ad ogni passaggio. Il non-critico d’arte Manganelli pronuncia solo “pareri” da dilettante di genio, che si attribuisce la libertà di sfregiare la più sublime delle nostre tradizioni culturali con le sue intemperanze verbali.

 

Per Cortellessa non vi sono dubbi: la scrittura di Manganelli è il trionfo dell’insolito (callida iunctura) e dell’eleganza di stile (ècfrasi). Il suo fiuto eccezionale è quello di un critico eslege che può evitare di attenersi alle regole del commento illustrativo. Quindi l’eccesso di virtuosismi presenti in questi “pezzi di bravura” è permesso proprio in virtù di questo declassamento intellettuale. Manganelli non descrive, ma costruisce artificiosamente il suo oggetto, nel senso che non ha di mira il fine didattico della scrittura. Questi rapidi testi, queste centurie, possono tranquillamente fare a meno dell’ovvio e dell’usuale in fatto d’arte, di solito riservati ai filistei che ordinatamente fanno la fila davanti ai musei, e al tempo stesso essere presentati come delle ingegnose inezie senza altro fine dell’autoreferenzialità. Dietro l’angolo si annida l’insulto, la canzonatura del lettore abituato ad aspettarsi gradite informazioni da un testo che solo in apparenza si presume debba essere utile.

 

Come leggiamo in Novecento (Loescher) di Romano Luperini, se Manganelli ha portato alle estreme conseguenze il dettato neoavanguardistico di trasformare la letteratura in menzogna, in parodia, nel gioco formale fine a se stesso, nell’eversione verbale, non si può negare la sua riduzione a vuoto cerimoniale. Scrive Luperini:

 

Di qui l’interesse di Manganelli per l’aspetto cerimoniale e istituzionale del fatto letterario («nella cerimonialità» ‒ egli scrive ‒ «la letteratura tocca il culmine della rivelazione mistificatrice»); e di qui, anche, il suo rifiuto del romanzo […] e la scelta invece delle «fluenti menzogne» della letteratura come puro gioco formale.

 

Dunque, l’insistito gioco dissacratorio non raggiunge il suo obiettivo. Il più beffardo degli scrittori è in ultimo beffato sul suo stesso campo. I giochi di prestigio letterari sono ampiamente previsti, sono attesi, e il parossismo toccato da questa particolare “malattia letteraria” è ampiamente assorbito dal pubblico e dagli esperti, senza colpo ferire.

Che cosa pensa di vedere Manganelli in un quadro, in una scultura, in un cammeo o un amuleto? Egli reclama il diritto alla visionarietà, alle allucinazioni teratologiche, alle deformazioni mostruose, al mondo come una favolosa Wunderkammer. Una continua ubriacatura senza pause, un gioco alchemico, una messinscena teatrale, che hanno il triste compito di ricordarci la solitudine dei viventi (a questo punto ci pare imprudente chiamarli “uomini”) e il loro tragico destino di morti irredenti. Ma per dirla con il solito sarcasmo di Fortini, in questo paesaggio che tanto deve alle muse esangui e inquietanti di De Chirico resta la splendida pagina del più incallito dei demagoghi.

 

 

[Immagine: Ludwig von Schwind Moritz, La rosa, o il viaggio dell’artista, 1847].

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