di Paolo Godani
Talvolta ciò che in una poesia manca, rispetto a quanto ci aspetteremmo di trovarvi, è un indice non meno importante di quanto vi si trova. E questo specialmente in una poesia come quella di Umberto Fiori, fatta di poco.
Qui, per esempio, mancano del tutto non solo lo spazio e il tempo come fattori di individuazione di luoghi e momenti, ma anche i nomi propri (che sono quasi completamente assenti, con alcune recenti eccezioni su cui torneremo in conclusione). Questo non significa che ci troviamo di fronte a una poesia «astratta», perché vi è anzi una proliferazione di luoghi, tempi e persone, che però non arrivano mai alla loro determinazione ultima, cioè al loro essere quel certo luogo, momento o individuo unici e irripetibili.
Lo stesso uso dei deittici, che in Fiori è significativo (Afribo 2017, p. 149, parla di una loro «spropositata frequenza»), non ha mai una funzione individualizzante, ma solo relazionale: ha cioè la funzione di definire i rapporti reciproci tra gli oggetti nominati nel testo, e non di stabilire un riferimento alla geografia e alla cronologia storica. Il qui e ora del testo, il suo presente, non indica mai, per esempio, una via di Milano o la data del 14 aprile 1990, ma sempre e solo luoghi che, pur avendo una loro precisa caratterizzazione (lo spazio di un capolinea, la prospettiva dei viali, il vuoto in cui si effettua uno scavo, le facciate alte delle case illuminate dal sole, oppure un incrocio, un marciapiede, lo scompartimento di un treno, un autobus affollato, lo spazio tra un camion e il guard rail in una piazzola di sosta e così via) non arrivano mai a precisarsi come luoghi identificabili. In generale, potremmo dire che in Fiori il deittico ha sempre una funzione singolarizzante, ma mai individualizzante
Allo stesso modo, cioè per le medesime ragioni, in questa poesia compaiono sempre e solo nomi comuni. E gli stessi pronomi personali sono chiaramente utilizzati con valenza generica, a indicare non il Signor X o il Signor Y, ma un certo tizio, un autista, un passante, un vigile, cioè una persona qualsiasi definita da certe singolarità.
Ammesso, come notava Bergson, che i titoli delle tragedie fanno sempre riferimento a un nome proprio (Antigone, Amleto etc.), essendo il destino una faccenda che concerne l’individuo, mentre i titoli delle commedie sono sempre indicativi di tipi umani generici (L’avaro, Il Misantropo etc.), cioè atti a indicare quanto definisce chiunque possieda certi tratti caratteriali, si direbbe che la poesia di Fiori, diversamente da tanta poesia moderna, sia più vicina alla commedia che alla tragedia. Ciò che Fiori sembra ricusare è, innanzitutto, quel tono elegiaco che caratterizza il canone maggiore della poesia novecentesca (cfr. Luzi 1973). Ma il suo posto non viene preso (secondo l’auspicio formulato in Agamben 2010) da una rinnovata tonalità innica (alla maniera di Rebora o Campana), bensì appunto da una sorta di comicità seria ovvero, si potrebbe azzardare, da uno strano idillio rinnovato. Quest’ultimo, infatti, è (almeno in origine) parente stretto della commedia o, più precisamente, del «quadretto» messo in scena dai mimi (cfr. Di Vita 2018). E la poesia di Fiori non è altro che questo: la messa in scena di un eidullion, cioè di un minuscolo eidos, che inquadra l’essere delle cose e delle persone nella loro esistenza generica, nei loro tratti comuni. Si direbbe che il più stretto antecedente poetico di Fiori sia l’antico mimo Sofrone.
Da qui anche un altro elemento definitorio di questa poesia, e cioè la messa in variazione di pochi temi significativi, che dà luogo a una serialità in cui la ripetizione ha l’effetto di rafforzare una certa aura d’immobilismo. La variazione ha la funzione di moltiplicare le condizioni empiriche di una situazione, confermandone ogni volta la struttura comune. Il che è già compreso, del resto, negli iterativi (talora, quando, a volte etc.) che Fiori eredita da Sbarbaro, dato che questi indicano la possibilità di una ripetizione periodica, anziché l’unicità di un accadimento irripetibile.
In tal senso, Umberto Fiori non è un poeta del quotidiano: le sue situazioni sono talmente tipizzate da escludere qualsiasi loro appropriazione privata, familiare, con annessa valorizzazione di oggetti-talismano e di luoghi esclusivi (cfr. Afribo 2017, p. 161). La vita comune che si vive in questa poesia non assomiglia a una vita quotidiana, con le sue complicazioni (e preoccupazioni), essendo semmai semplificata in una serie di situazioni-tipo. Non, dunque, una quotidianità costituita da una miriade di piccoli fatti diversi, dai quali emergano gli oggetti peculiari di una biografia personale, ma una consuetudine che ritorna con minime variazioni a produrre il senso e il luogo di una vita generica.
Proprio il fatto che il campo sia limitato a un generico che si ripete come una litania produce un effetto di distanziazione dal quotidiano, e costruisce una sorta di alfabeto della vita, una tavola dei suoi elementi. Per questo la poesia di Fiori può essere assertiva e persino apologetica, perché le sue affermazioni non riguardano i fatti, bensì la loro struttura o, meglio, perché la stessa purificazione che dai fatti estrae un certo schema costituisce una tesi sulla natura delle cose. Non – come in tanta poesia del Novecento – un particolare che viene elevato a universale, un empirico biografico che pretende di fungere da paradigma, ma un medio indifferente tanto alla particolarità quanto all’universalità.
È a proposito di questa medietà che si dovrebbe porre anche la questione del linguaggio nella poesia di Fiori. Infatti la sua parola non è né idiosincratica né è però la voce di tutti. Estraneo alle ossessioni novecentesche per l’alienazione, da un lato, e dall’altro per l’autenticità (da cui la distanza dalla «poesia onesta» di Saba), Fiori non produce un proprio linguaggio privato né parla la lingua della comunicazione ordinaria, ma cerca e trova una «frase normale» che è la frase di quel neutro rispetto al particolare e all’universale, di quel soggetto che non è né io né tutti, perché è un «si impersonale […] che rinvia non a un’esperienza inautentica ma a un profondo essere in comune» (Fiori 2023/2, p. 42). Ma si tratta appunto di una comunità che non è fatta dalla folla degli individui concreti, né da un loro presunto universale ideale, bensì da ciò che sta fuori di essi, dalle facciate delle case, dai luoghi che frequentano, dal tavolo al quale siedono e discutono o, al limite (come in Autoritratto automatico, a proposito del quale Fiori spiega che voleva essere «un ‘ritratto d’ignoto’, un esercizio di anonimato, la vuota ripetizione della faccia di chiunque»: Fiori 2023/1, p. 73), dal volto che si trovano a portare.
In questo contesto, va rilevato il senso di una strategia che rinuncia radicalmente alla metafora, in favore della similitudine. Si tratta, senza dubbio, di una scelta che conferma il privilegio della chiarezza e della leggibilità, ma c’è anche dell’altro. Per esempio, il fatto che, mentre la metafora eleva il comune all’extra-ordinario, la similitudine invita a leggere lo straordinario attraverso l’ordinario (come accade nella Commedia di Dante: cfr. Fiori 2023/2, p. 23). Ancora, il fatto che la metafora confonde, per così dire, le parole e le cose, impastando le une con le altre, laddove la similitudine tende a tenerle separate, affinché le parole siano in grado di descrivere le cose nella maniera più perspicua. Infine, se la metafora raccorcia, condensa il dettato, la similitudine ne allarga le maglie, stabilendo un confronto tra due immagini che, non dovendo nulla l’una all’altra, moltiplicano il detto e distendono il tessuto del senso, come nel caso di Stare (Fiori 1995, ora in Fiori 2014, p. 82):
[…]
Si sta col cielo, qui,
e con la terra,
come per strada i piatti
col frigo e le piante grasse
per un trasloco».
Dati questi primi elementi, non ci si potrà stupire del fatto che manchi del tutto, nel lungo poema di Umberto Fiori, la storia. In un testo programmatico, Fiori spiega, in primo luogo, che le sue poesie «sono nate dalla perdita di una biografia (delle sue nostalgie, dei suoi programmi, dei suoi rimorsi, delle sue promesse); sono nate – dice – non da me, dalla mia storia» (Fiori 1999, p. 115). E aggiunge: «Qualcosa mi impediva di mettere al centro dell’attenzione non solo la mia personale vicenda, ma qualsiasi elemento che rimandasse a uno svolgimento, a un divenire, a un prima e a un dopo intesi in senso forte. Se cerco l’origine del mio lavoro trovo questa esclusione» (ibidem). Si potrebbe immaginare che tale duplice esclusione, della biografia e della storia, sia dovuta a fattori psicologici e politici. E in effetti è lo stesso Fiori ad accennare a un momento, all’inizio degli anni Ottanta, in cui – dice – «sono entrato in un buio senza appigli: sbandavo, affondavo, mi perdevo. […] Ero completamente svuotato, stranito, spaesato» (Fiori 2023/2, p. 15). Così come è egli stesso a ricordare la crisi, personale e politica, che coincide con il tramonto degli anni Settanta: «la prima persona plurale che tutto sosteneva e abbracciava è naufragata nel giro di pochi anni. Le ideologie, i grandi racconti (Lyotard) che spiegavano il mondo, si sono dissolti» (ivi, p. 19). Si potrebbe parlare, di conseguenza, di una sorta di ritiro a vita privata, coincidente con il riflusso politico dei primi Ottanta. Eppure, non è in questo modo che la vede l’interessato: «Quello che io sentivo, invece, e che sento, è che la mia scrittura – senza più il sostegno dell’ideologia – era finalmente davvero politica» (ivi, p. 24). Bisogna supporre, allora, che la scrittura di Umberto Fiori indichi la possibilità di una politica oltre la storia, senza la storia; di una politica statica, cioè che faccia a meno del progetto, dell’investimento sul futuro, della speranza («la speranza che ci avvelena», dice la chiusa di Voci: Fiori 1998, ora in Fiori 2014, p. 161). Una politica per la quale ciò che è comune tra gli esseri umani, ma anche tra gli umani e le cose del mondo, non sia qualcosa da conquistare un giorno, ma sia già qua. In questo senso, l’assenza della storia è l’indice non solo di una politica del qui e ora, ma di una politica della decifrazione o della visione delle cose. Una politica che si compie nel vedere e nel dire ciò che è comune.
L’assenza della storia è anche, più in particolare, assenza del trauma. Assenza, ovvero decisa messa tra parentesi, spinta fuori dalla poesia, della cronaca tragica. Niente ammazzamenti, niente corpi derelitti, niente guerre. L’operazione di Fiori è in qualche modo analoga a quella che portava Elsa Morante a spingere la storia ai margini del romanzo che si intitola La storia, nel paratesto cronachistico che precede ogni capitolo. E analoghi sono forse anche gli intenti: lasciare o produrre finalmente uno spazio sottratto al disastro, fare in modo che almeno in poesia qualcosa come un bene possa trasparire. Intento politico quant’altri mai, che cozza però frontalmente con l’ormai consolidata abitudine del pensiero critico di accordarsi alla dissonanza, di dire e ridire il male per lasciare che il bene balugini come suo negativo paradossale – con l’esito di rendere immorale la dizione del bene e di far fuggire oltre il tempo tutto quanto si sottrae al disastro.
La poesia di Umberto Fiori sembra aggirarsi attorno a due temi fondamentali: le case e le discussioni. Viene dunque da chiedersi che cos’abbiano in comune questi oggetti, all’apparenza tanto eterogenei. A voler dare a questa domanda una risposta netta, bisognerebbe forse rispondere, appunto: il bene. Ma sarà subito necessario precisare che se le case – con tutti i loro sostituti: finestre, facciate, scavi, ma anche ponti, cancellate, cornicioni e ancora alberi, nuvole, cani, sino a giungere alle cose in generale – figurano immediatamente come un bene (per ragioni che cercheremo di esplicitare), le discussioni sono un bene solo mediatamente, perché lasciano emergere, talvolta, una parola (o un silenzio o una condivisione) che ha l’aria di essere giusta.
Si potrebbe intanto precisare che il bene, che Fiori mette al centro della sua ricerca, è sempre evidente, indiscutibile, e al contempo contrariato. Il bene si presenta, insieme, come uno stato del mondo e però anche come una sorta di evento per noi quasi miracoloso. Il fatto è che, per quanto esso sia sempre qua, a portata di mano, ci è come precluso a causa della nostra ostinazione, della nostra inesausta agitazione, come si vede in Corsa (Fiori 1998, ora in Fiori 2014 p. 133):
Dopo avere girato mezz’ora a vuoto
per tutto il capolinea,
mezzo accecato
da tutta quella luce
e senza voce a furia di maledire
le partenze e gli arrivi,
la strada, il tempo, la vita e il mondo intero,
sotto un cartello, alla fine,
mi sono fermato.
Ho ascoltato l’invidia che veniva,
care case, a vedervi là sopra
col sole in faccia
ridere come bambine.
Per percepire il bene, bisogna innanzitutto fermare la corsa e in secondo luogo bisogna parlare ai muri. Pur non conoscendo la domanda che è stata rivolta loro, sappiamo che i muri hanno risposto. Il poeta li chiama in causa per ottenere qualche ragguaglio. Sulla vita forse e sul suo senso – magari quello che gli umani sono soliti richiedere quando cercano nelle nuvole una figura o una faccia nel gioco dei riflessi e delle ombre. O forse la domanda rivolta ai muri verteva sul futuro e sull’altrove, sul nuovo a cui si anela senza posa. Comunque i muri hanno parlato. E non perché uno sguardo li abbia messi a fuoco (come si dice in versi su cui torneremo: «più grande di tutto è lo sguardo, / ma le case sono più grandi»: Fiori 1986, ora in Fiori 2014, p. 9). Sono loro che si sono illuminati, con il concorso di una luna piena. La loro Risposta (Fiori 1998, ora in Fiori 2014, p. 145) è che un altro posto non c’è, che il posto è uno, sempre lo stesso: questo:
Un giorno i muri
– sopra un tetto, oltre i platani –
mi hanno risposto.
Bei musi di luna piena.
Si sono illuminati, mi hanno detto
che non c’è un altro posto. Il posto è uno,
sempre lo stesso: questo. Dov’ero andato
non ero stato da nessuna parte.
Mano a mano – lassù – che si spiegavano,
io non ho visto più
nel gioco dei riflessi e delle ombre,
delle ringhiere e degli strombi,
nessuna faccia: solo cemento, spigoli,
luce, strapiombo.
Dichiarazione d’immanenza, certo, e di letteralità. Ma anche dichiarazione che, provenendo dai muri, non promette che la propria immobilità. Non c’è un altrove, né in un al di là né in un altro quando, e le cose sono solo quello che sono: solo cemento, spigoli, luce, strapiombo. Ma soprattutto, le cose sono ferme, sono vita ferma, still life. È per questo che i muri, i muri delle case, sono esempi.
A volte, come in Corsa, l’esempio delle case, il confronto con la loro fissità, provoca solo la nostra individia. Altre volte ci conforta, facendoci immaginare che proprio noi, forse, proprio qui, si possa assomigliare loro, come in Apparizione (Fiori 1992, ora in Fiori 2014, p. 58):
Alte sopra la tangenziale, chiare,
due case con in mezzo un capannone.
È questa l’apparizione,
ma non c’è niente da annunciare.
Eppure solo a vederli
là fermi, diritti davanti al sole,
i muri ti consolano
più di qualsiasi parola.
Cancellate, ringhiere,
scale, colonne, cornicioni:
ha l’aria, tutto, come se qualcuno
dovesse veramente rimanere.
La chiusa, però, sembra lasciarci in sospeso. Solo a vederli i muri ti consolano, là fermi, diritti davanti al sole. Danno persino l’impressione che non loro soltanto, ma anche qualcuno, come loro, debba veramente rimanere. Oppure è solo un’aria, un come se? Davvero anche tu, che i muri consolano solo a vederli, puoi restare, resterai là fermo come loro?
Dovremo tornare su questo qualcuno che, a certe condizioni, potresti essere tu stesso. Restiamo per il momento alle case. La loro forza, come si dice esplicitamente in Occhiata (Fiori 1998, ora in Fiori 2014, pp. 146-147), sta nella loro fermezza, nel non andare da nessuna parte. In un autocommento, Fiori spiega che «di norma, l’idea di forza è associata al movimento, a un’energia che anima, opera, sposta, trasforma, genera e distrugge. Le case, invece, sono lì, ferme, immutabili. Ma è proprio nella loro fermezza che una forza più segreta si manifesta» (Fiori 2023/2, p. 66). Ed è questo il loro insegnamento.
Una delle prime poesie di Fiori, già presente nella plaquette Case con il titolo di Sviluppo e ripresa poi in Esempi con il titolo Sguardo, ci pone di fronte a una decisione fondamentale: «Più grande di tutto è lo sguardo, / ma le case sono più grandi». Commentando questo testo, Fiori spiega che «lo sguardo è la cosa più grande perché produce il mondo, lo colloca, gli dà senso; ma lo sguardo è sempre lo sguardo di qualcuno, è sempre incarnato in una persona in confronto alla quale le case (il mondo che osserva) sono più grandi (non solo fisicamente)» (Fiori 2023/2, p. 29). Si tratta, con tutta evidenza, di un rovesciamento della prospettiva fenomenologica: lo sguardo, come la coscienza, non è sguardo di o su qualcosa, senza essere esso stesso preso, fin dall’inizio, in quel qualcosa a cui si rivolge. Come nota a giusto titolo Maria Borio, «ciò che è rilevante non è più l’illuminazione come stato del soggetto, ma l’illuminazione come stato dell’oggetto, come messa a nudo dell’evidenza del reale» (Borio 2017, p. 275).
Dicevamo che qui le case sono niente di meno che il bene, la verità, la giustizia. E questo non solo perché il loro stare è un bene da cui dovremmo imparare, ma anche perché ci insegnano, d’altra parte, qualcosa sulla natura del bene. Come dice La strada (Fiori 1998, ora in Fiori 2014, pp. 149-150) a proposito della verità – «non è una cosa / che si toglie o si tiene, / la verità» – così la giustizia, «grande / e santa», alla stregua del bene, è qualcosa «che non si fa». In un magnifico saggio, dal titolo Ama il prossimo tuo. Considerazioni del tutto personali intorno a un passo di Freud (Fiori 2022), Fiori spiega che per lui l’esperienza del bene consiste in qualcosa che «più che farlo, sentivo di esserci entrato, come si entra in una casa, o ci si immerge nell’acqua» (ivi, p. 64. Lo stesso tema ritornerà anche nel racconto in versi Il conoscente). Il bene non è un atto che si fa, ma una situazione nella quale ci si trova: un esser lì insieme alle cose, una volta tanto senza la smania di essere altrove, di desiderare altro da ciò che si è, di lanciarsi verso un futuro di speranza. Qui, diversamente da quanto accade in Montale, l’immobilità non è sentita come un tormento, ma come un segno della presenza del bene. Perché il bene non è altro che questo: una presenza – non la presenza di qualcosa di straordinario, non l’avvento di un angelo o un momento di gloria, ma il semplice esserci delle cose, il loro stare in sé, intoccabili e inamovibili. È questo il segreto di Fiori, della sua poesia e, direi, della sua etica. Ma è, per così dire, un segreto inverso, estroverso, che non funziona come nascosto elemento di distinzione, come indizio interiore della propria originalità e come marchio di unicità, perché il segreto è là fuori, dove tutti possono vederlo e conservarlo, ma nessuno appropriarsene. In questo senso, quello che disegnano Le case (Fiori 1998, ora in Fiori 2014, p. 156) è il rovescio di quanto accade paradigmaticamente in Forse un mattino andando:
Certe sere le case, mentre passo,
vedendo che cammino a testa bassa
capiscono che spero
qualcosa al di là di loro.
Allora, come si esce dalla stanza
di un malato che si è assopito,
mi lasciano lì solo
al buio, tra i muri e le macchine.
Senza saperlo, io vado per la mia strada
chiuso nel mio pensiero, fiero e triste
come se mai nella vita
avessi alzato gli occhi, le avessi viste.
Ma questa inversione del segreto è anche una sorta di figura del modo in cui funziona il cosiddetto io lirico nella poesia di Fiori. I suoi critici non hanno potuto mancare di notare l’assenza programmatica, specie nelle prime raccolte, della prima persona singolare, nonché la proliferazione di soggetti neutri e impersonali. È senza dubbio una dichiarazione di poetica, ma è anche e forse soprattutto una postura etica, quella che guida la riflessione del poeta sulla soggettività e sull’individualità. E non solo nel senso di un’affermazione circa la preminenza di ciò che è comune rispetto a ciò che è singolare. Per Fiori, come per Sbarbaro, l’io è, letteralmente, un ingombro inutile, cioè un ostacolo alla fruizione del bene. Le case lo testimoniano nel modo più chiaro: non una volta soltanto, ma sempre, l’io che va per la sua strada, chiuso nel suo pensiero, si presenta come fiero e triste – dove la tristezza è il contrappasso inevitabile di quella fierezza grottesca. Beninteso, Fiori non minimizza affatto la nostra tendenza a decantare ognuno il proprio segreto, la espone anzi e l’analizza in tante sue manifestazioni, senza mai lasciare intendere di esserne immune. Ma al contempo afferma, con una decisione che ha l’aria di essere logica prim’ancora che etica, che per quanto sia nostra, quella tendenza è il più grande ostacolo che si frappone tra noi e la verità, la giustizia, il bene. L’io è la nostra malattia cronica.
Vediamone un paio di manifestazioni eclatanti. Di guardia (Fiori 1995, ora in Fiori 2014, pp. 97-98) inquadra la furia che muove noi, come il cane nero, quando si tratta di difendere la nostra posizione, lo spazio nel quale siamo rinchiusi. Finché si pensa e si sente solo e assediato, l’io non è altro che questa furia. Sarebbe tragicomico chi pensasse di tesserne l’elogio.
Mi conoscono bene, hanno ragione:
io sono come un cane,
una di quelle bestie nere che dormono
intorno ai capannoni industriali
e se passi, si avventano di colpo
sulla rete metallica
e più gli dici “Buono!”, più si sgolano.
[…]
Hanno imparato il compito: questo recinto
tenerlo sgombro. Sia senso del dovere
o invece solo istinto, non ti commuove
almeno per un attimo
la scena che – loro – sempre, tutta la vita
li fa smaniare, li esalta
e li avvelena?
Io, per me, lo capisco
meglio di tutti gli altri che ho mai sentito,
questo discorso.
La riconosco bene la voce
fanatica, che sbraita per difendere
– così, alla cieca, per pura gelosia –
l’angolo dove l’hanno incatenata.
[…]
Con un’altra similitudine, La bella vista (Fiori 2013, ora in Fiori 2014, p. 171) parla del sentimento di chi sia riuscito per una volta a osservarsi dall’esterno:
[…]
Sentivo
che vergogna è chiamarsi
in quel modo preciso, essere vivo,
essere uno, sapere che la gente
ti vede mentre ti sporgi
tutto gonfio di te
dal niente
come il verme si sporge dalla mela.
Ma qui la malattia cronica dell’io viene esibita solo al fine di prospettarne una guarigione possibile. «Dove ho preso la forza», si domanda l’io che parla,
per guardare la mia
smorfia da scimmia
in alamari e ghette?
(ivi, p. 172).
E la risposta, che ormai conosciamo, è la più semplice:
è stato quello che ho visto
[…]
l’attenzione fermissima dei pini
e degli ulivi, l’abbaglio calmo del mare
fino alle isole, ai monti azzurri là in fondo
(ibidem).
Di nuovo vedere ciò che è fermissimo. «La bella vista si presenta – commenta Fiori – come il rimedio all’angoscia insita in ogni nome, in ogni entità particolare» (Fiori 2023/2, p. 83).
Ma le case (con i loro sostituti) e la bella vista non sono gli unici luoghi del bene. Da Altra discussione (Fiori 1992, ora in Fiori 2014, p. 52):
Quando due che discutono
sono arrivati al cuore della questione
e uno alza gli occhi al cielo, scuote le braccia,
l’altro si guarda intorno
a mani giunte, come cercando aiuto,
e gridano fatti, e prove,
cambiano tono, si chiamano per nome,
– ma non c’è niente, nessuno che possa più
dare ragione e nessuno –
proprio allora, lontani come sono,
rivedono il miracolo:
che sia una la stanza,
che sia lo stesso
il tavolo dove battono.
Anche in questo caso sono le cose (la stanza, il tavolo) a figurare come esempi di un luogo comune che è tale non in quanto possa risolvere il dissidio, bensì in quanto lo precede, non in quanto sintesi dialettica, ma come presupposto.
Può darsi però un caso ancora differente. Quello nel quale sia la parola a presentarsi finalmente (ecco un altro minuto miracolo d’immanenza) non più come strumento di affermazione di sé in una discussione, ma come presupposto comune. Da Il conoscente (Fiori 2019, pp. 66-67):
Eppure, vedi… eppure
ci sono giorni
in cui, mentre i miei simili mi parlano,
mentre ragionano insieme a me che ragiono,
sento montare invece una gioia altissima.
Una gioia che è molto più che mia.
Sento, tra noi, un bene
che non facciamo.
E non potremmo farlo: è troppo grande.
Un bene che ci precede.
È da lì
che vengono le parole. Albero, casa,
nuvola, cane, mondo: l’Uno e l’Altro
convengono in loro, concordano.
[…]
[…] Ecco il qui, ecco il posto,
il momento, la luce, la maestà
che mette gli uomini di fronte.
Ecco la fonte inesauribile
del nostro essere presenti
[…].
Diversamente dalle case, la parola si presenta innanzitutto come fonte di conflitto, dato che è la più alta espressione dell’io nella sua orgogliosa separatezza, eppure, come le case, può arrivare a essere un luogo che accomuna tutti i parlanti: non, come si diceva, perché questi finiscano per accordarsi o per dire tutti la medesima cosa (come accade nell’unanimismo che è stato richiamato, crediamo a torto, anche per la poesia di Fiori), ma perché la parola è ciò che precede (e consente) ogni conflitto e ogni accordo, è cioè la comunanza originaria di ogni essere umano con ogni altro. È forse questo che indica Fiori quando, dicendo che «etica e poesia sono uno» (Fiori 2007, p. 38), chiama quest’uno canto.
E questo è forse anche il punto più difficile e rischioso (perché suscettibile di diversi fraintendimenti) della poetica di Fiori. Canto è la parola giusta, ovvero, potremmo forse ipotizzare in prima battuta, la parola sottratta al suo uso strumentale (per esempio l’aver ragione). Più semplicemente, si potrebbe dire che la parola diventi canto nel momento in cui essa si riserva ormai la sola funzione di dire le cose stesse, puramente e semplicemente come si presentano. Ma non basta e, anzi, è un modo di parlare che potrebbe andare soggetto a un’accusa di ingenuità: come pretendere di dire le cose stesse? Che cosa mai potrebbe garantire questo dire? Non c’è, al fondo di questa pretesa, un’istanza d’ordine, persino autoritaria? Non può certo trattarsi di questo. E tuttavia, il canto non può essere neppure qualcosa che il poeta aggiunge, per così dire, alle cose. Cantare non significa trasfigurare le cose, ovvero fornire loro una sorta di aura sublime (che esse, da sé sole, non possederebbero), ma significa – come Fiori ribadisce commentando un verso di Penna (Fiori 2007, p. 78) – riconoscere che la vita di ogni giorno è già leggenda, riconoscere che la sola presenza delle cose, quando queste vengono accolte per ciò che sono, è degna del nostro amore e della parola che cerca di cantarlo. Il dettato della poesia, la cosa che essa ha da dire, non proviene da una qualche ispirazione soggettiva, da una mania, ma «ha in sé un modo, una misura, un passo, un respiro, una sintassi profonda, una logica; la stessa che anima la cosa. […] La ‘materia’ del dire poetico, insomma, la cosa che la poesia ha da dire, non è materiale grezzo da ‘elaborare’ poeticamente: ha già in sé la propria articolazione; è già, in qualche modo, composta. È già ‘leggenda’, è già poesia» (ivi, p. 80). Del resto, se così non fosse, la poesia sarebbe un mero artificio (secondo una logica comune all’ermetismo e alle neoavanguardie), un belletto del reale o, alla maniera di Gottfried Benn, uno smalto sul nulla. Viceversa, Fiori rimane fedele all’idea che se il poeta ha una funzione è quella di mettersi in ascolto della poesia che le cose stesse sono. Questo, naturalmente, non significa cedere le armi all’illusione che la realtà celi un segreto sublime, ma significa disporsi all’evidenza del fatto che le cose, per come sono, non per come possiamo immaginarle, hanno una loro forma, un’articolazione determinata, un senso. Il poeta è colui che anziché proiettare sulle cose i propri desideri o le proprie frustrazioni, canta il loro senso.
È perciò che il senso delle cose non può che derivare da un’assentarsi del soggetto, da una sospensione delle sue pretese individuali. O, più precisamente, dal suo sottrarsi all’individuazione personale, con le sue adiacenze empiriche, per divenire una sorta di soggetto trascendentale impersonale, un puro occhio del mondo («una pura funzione guardante» dice Socci 2022, p. 136).
Ma forse non si tratta soltanto di un’elevazione all’impersonale. Il punto è che proprio l’immagine delle cose, la loro illuminazione, testimonia non solo il trascorrere del tempo con la sua rovina, bensì anche l’essere di ciò che la fotografia ha registrato. Il soggetto trascendentale, immune al tempo, è forse lo specchio di una realtà che il tempo, insieme, distrugge e conserva.
Altre immagini compaiono già nel racconto Il conoscente, quando l’io narrante scopre, tra gli sterpi e i muri a secco, qualche cosa di bianco che occhieggia tra i mirti (Fiori 2013, p. 234):
Una lastra di marmo.
Più avanti, mezzo sepolta nel suolo, un’altra.
E una terza sdraiata, spezzata in due.
Sono queste
Le macerie, vestite di licheni
azzurrini e dorati,
di un recinto di sassi
(ibidem)
ovvero i resti di alcune lapidi scolpite. Senza dubbio, si tratta di immagini che parlano dei lì sotto sepolti, e tuttavia l’io narrante dice:
in quel breve rettangolo
vedevi presentarsi
il Mondo: qua una finestra
sola nel piano levigato, là
un cane, un tetto; una colonna, un albero.
Il mondo
(ibidem).
È solo in un secondo momento che delle figure umane appaiono. E non stagliandosi contro quel mondo, ma appena emergendo da esso:
E come brevi sbalzi di schiuma
cresciuti dalla schiuma di una nuvola,
ombre su un fondo pallido – le Figure:
una donna col suo bambino in braccio,
un uomo che con la mano copre la faccia
di un altro.
Dalla pietra – flebili, nudi –
palpebre e foglie, labbra e pepli affioravano
come bolle di gas da una palude.
I pochi gesti – la mano destra sul petto,
l’altra a reggere un lembo della veste –
sembravano sbozzati con uno stecco
in un letto di neve,
in una mattonella di sapone
(ivi, pp. 235-36).
Essenziale, qui, è il modo in cui questi «uomini, e donne. Bambini» si presentano al protagonista del racconto: non diventano il pretesto per un’alta e profonda riflessione sul tema della caducità, ma suggeriscono, al contrario, l’impressione che il loro essere, il loro esserci stati, sia come irrevocabilmente iscritto nell’essere del mondo:
Per sempre stati.
Mani sul petto. Il tempo.
Un albero nudo. Un tetto
(ivi, p. 237).
È questo che ci dice «questa storia delle lapidi» (ivi, p. 238)? Intanto, quel che è certo è che il protagonista si trova a dover render conto delle sue lacrime («Chi, che cosa piangevo?»: ivi, p. 239).
Di ignoranza, piangevo.
Di memoria.
Di chiarezza, di meraviglia.
[…]
Pensavo: questi profili di sale
sono salvi. Più niente gli può far male.
[…]
Il mio pianto era fatto
anche di invidia. Quanto vorrei essere
come loro, pensavo.
Ma a commuovermi
non era stato proprio il riflesso
che di me stesso saliva da quelle immagini?
Un’immagine, anch’io. Figura stata
- domani, ma già ora –
per sempre, una volta. Salva.
Salvo anch’io, come loro,
con loro
(ivi, pp. 240-241).
Un discorso a parte sembrano meritare, infine, le poesie dell’ultima sezione, Seconda singolare, di Autoritratto automatico. I diversi tu a cui si rivolge il poeta (il padre, la zia, l’amico musicista, il fratello, la moglie) costituiscono una sorta di album di famiglia. Sembrano saltare qui alcune delle regole che abbiamo visto essere fondanti della poesia di Fiori: l’assenza di determinazioni spazio-temporali precise e di indicazioni personali. Qui si parla di via Angelo Maj, dei tetti di via Friuli, e si fanno nomi e cognomi. Eppure la poesia di Fiori conserva la sua coerenza. In A Carla Fiori, mia zia (1914-2015) il tema è quello di un dato anatomico (la forma del pollice sinistro) che essendo comune a zia e nipote sembra sottratto al divenire. In quell’elemento dall’apparenza insignificante, si dice,
[…] Ho visto il tipo
di cui tu e io
siamo soltanto due tra le varianti
che sono state e che verranno
(Fiori 2023/1, p. 111).
Un elemento, una Gestalt, che forse testimonia di come gli individui non siano solo individui, ma incarnazioni di una logica che li precede, magari di «un bene che ci governa» (ivi, p. 112). Per altro verso, il testo dedicato A mio fratello Andrea istituisce una sorta di paragone tra le barzellette che questo racconta o, meglio, tra i preamboli di quelle barzellette («dove i pupazzi e le bambole / diventano uomini vivi / e donne, con i loro bei discorsi / meravigliosamente scontati / parola per parola, e la vita / un passo dopo l’altro / esibisce la sua / terribile ovvietà»: ivi, p. 116) e «le quattro poesie che scrivo» (ibidem). La vicinanza di un tono che cerca di dire la vita com’è, le cose come sono, di nuovo, il loro essere comuni. E come il pollice, infine, guardato come si guarda «l’occhio di un idolo» (ivi, p. 111), così l’Orientina appare con qualificazioni divine: «la grande Sbocciante, / l’Albeggiante, la Ricca-di-mondo» (ivi, p. 121), costringendo il poeta, di fronte al fastidio di lei, a confessare: «Io vedo solo dèi. / Mi conosci, lo sai» (ibidem). A testimonianza del fatto che anche quanto vi è di più personale in una vicenda di vita viene comunque colto con lo sguardo della poesia, quello che ancora dice, con Sandro Penna: «Il mondo mi pareva un chiaro sogno / la vita d’ogni giorno una leggenda» (Penna 1989, p. 371).
Bibliografia
Afribo 2017: Andrea Afribo, Poesia italiana postrema. Dal 1970 a oggi, Carocci, Roma.
Agamben 2010: Giorgio Agamben, Il torso orfico della poesia, in Id., Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Laterza, Roma-Bari.
Borio 2017: Maria Borio, Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000, Marsilio, Venezia.
Di Vita 2018: I gesti del mimo, in «Giardino di studi filosofici», Gesto, Quodlibet, Macerata.
Fiori 1986: Umberto Fiori, Case, San Marco dei Giustiniani, Genova, ora in Fiori 2014.
Fiori 1992: Umberto Fiori, Esempi, Marcos y Marcos, Milano, ora in Fiori 2014.
Fiori 1995: Umberto Fiori, Chiarimenti, Marcos y Marcos, Milano, ora in Fiori 2014.
Fiori 1998: Umberto Fiori, Tutti, Marcos y Marcos, Milano, ora in Fiori 2014.
Fiori 1999: Umberto Fiori, Tutti di tutti, in «Il gallo silvestre», 11, pp. 115-116.
Fiori 2002: Umberto Fiori, La bella vista, Marcos y Marcos, Milano, ora in Fiori 2014.
Fiori 2007: Umberto Fiori, La poesia è un fischio. Saggi 1986-2006, Marcos y Marcos, Milano.
Fiori 2014: Umberto Fiori, Poesie 1986-2014, Introduzione di Andrea Afribo, Mondadori, Milano
Fiori 2019: Umberto Fiori, Il Conoscente, Marcos y Marcos, Milano.
Fiori 2022: Umberto Fiori, Il metro di Caino, Castelvecchi, Roma.
Fiori 2023/1: Umberto Fiori, Autoritratto automatico, Garzanti, Milano.
Fiori 2023/2: Umberto Fiori, Le case vogliono dire. Poetica e poesia, Manni, Lecce.
Luzi 1973: Mario Luzi, Al di qua e al di là dell’elegia, ora in Id., Vicissitudine e forma, Rizzoli, Milano 1974.
Penna 1989: Sandro Penna, Poesie, Garzanti, Milano.
Socci 2022: Riccardo Socci, Modi di deindividuazione. Il soggetto nella lirica italiana di fine Novecento, Mimesis, Milano.
[Immagine: Foto di Dino Ignani].