di Roberta Priore

 

[Giovedì scorso Luigi Blasucci avrebbe compiuto cento anni. Pubblichiamo un’intervista inedita del 2019 di Roberta Priore].

 

Questo lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile nè a Firenze nè a Milano nè a Roma; e veramente non so se in tutta l’Europa si trovino molte vedute di questa sorta. […] Vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura.

Leopardi, lettera alla sorella Paolina, 12 novembre 1827

 

 

Il 6 febbraio 2019, quando sono andata a trovarlo, Blasucci aveva appena mandato i materiali per il primo volume del commento ai Canti, per una collana “chic, costosa e poco comprata”, mi dice ridendo. “E loro si illudono di fare qualche quattrino con il mio commento”.

Dieci giorni dopo avrei consegnato la mia tesi magistrale. Sono scesa dal treno che da Bologna mi portava a Pisa con il passo incerto, ripetendo qualche nozione nella testa.

 

I.

 

Una piacevole coincidenza – il condividere il paese di nascita – mi ha portata alla fortuna di poter incontrare Luigi Blasucci – “Gino”, avrei imparato dopo – nella sua casa pisana, nei giorni che hanno preceduto la consegna del mio lavoro di tesi.

Riporto qui – per concessione di Gino – la nostra conversazione, il cui inizio verte su questioni più specifiche relative agli studi dello Zibaldone, come quella che Blasucci aveva definito «la questione annosa», la querelle tra Peruzzi e Pacella sulla possibilità che le pagine del diario intellettuale siano state scritte di getto o che siano belle copie. La seconda parte della conversazione invece è stata più intima, abbiamo parlato delle origini, della città che ci ha unito e di una certa “pugliesità” che Gino, da lontano, ha saputo raccontare lucidamente.

 

*

 

L.B.: Io ero amico di entrambi [Giuseppe Pacella e Emilio Peruzzi], ho seguito la vicenda da vicino. Peruzzi era mio collega alla Normale, grande leopardista, autore dell’edizione critica dei Canti, prima ancora di quella di Gavazzeni. Di questa vi è un’edizione aggiornata, del ’98, in due volumi.

Mi ha chiesto ieri un collega la differenza tra le due edizioni, in realtà sono perfettamente uguali, eccetto la correzione di un errore madornale: la lezione «così tra questa immensità si annega il pensiero mio» si instaura nella prima edizione dei Canti, l’edizione fiorentina, nel 1831, prima leggiamo «infinità» al posto di «immensità».

Peruzzi attribuiva la correzione «immensità» nell’Infinito alla seconda edizione dei Canti, alla Starita del 1835, in realtà già nell’edizione fiorentina era corretto.

Noi abbiamo solo due autografi dell’Infinito, quello napoletano e quello vissano, che contengono pochissime varianti, un testo già definitivo.

 

Questi idilli del ’19-’21 sgorgano di primo getto. Gli abbozzi degli idilli nelle carte napoletane non riguardano gli idilli leopardiani, quegli abbozzi sono più di gusto teocriteo, anche tematicamente, idilli folcloristici, popolari, qualche volta anche idilli dialogati, di questo tipo poi però ha scritto solo un Idillio, lo Spavento notturno, per il resto questi abbozzi appartengono a una fase precedente dell’idea leopardiana dell’Idillio. Nel ’19, che è un anno cruciale, avviene questa trasformazione, Leopardi passa da un’idea di idillio teocriteo di tipo obiettivistico, popolare a un idillio di tipo soggettivistico, «situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo». Questo passaggio si spiega in parte biograficamente, c’è l’episodio della mancata fuga, e il mutamento di cui parla nelle pagine dello Zibaldone da poeta a filosofo, ma quello che non dice in queste pagine è che intanto ha letto il Werther, che è stato decisivo per orientarlo verso l’idillio di tipo “leopardiano”, tanto più che abbiamo testimonianze delle letture del Werther nella prima metà del ’19 che lo porteranno dalla seconda metà del ’19 a scrivere Alla luna, l’Infinito e nel ’20 La sera del dì festa: è uno sgorgo, dei cui non abbiamo nessun materiale preparatorio.

 

Lei non crede, perciò, che ci sia un antigrafo che non ci è pervenuto?

 

L.B.: Io sono riuscito, durante una giornata di studio su Folena a Padova, a rintracciare la registrazione del discorso che Folena tenne per la presentazione dell’edizione dello Zibaldone di Peruzzi al Viesseux, presieduta dal Folena stesso e da Nencioni, dove accennò alla querelle. Folena era amico anche di Pacella e ha fatto da paciere tra i due, consideri che la querelle è stata anche esagerata dai giornalisti.

 

L’osservazione di Folena sull’importanza della riproduzione fotografica degli autografi per la filologia testuale può servire da ponte di passaggio dalla presentazione dell’edizione Moroncini a un’altra presentazione, quella dei primi quattro volumi dell’edizione fotografica dello Zibaldone a cura di Emilio Peruzzi, edita col patrocinio della Scuola Normale Superiore di Pisa. Questa presentazione fu fatta da Folena al Gabinetto Vieusseux la sera del 14 febbraio 1991, ma non fu mai pubblicata. Il sottoscritto fu tra gli ascoltatori di essa, e non gli è stato difficile rintracciarne la registrazione, debitamente conservata nell’archivio Vieusseux, per proporne qui una trascrizione.

 

Premetto alcuni dati utili per una migliore comprensione di quel discorso. Gli oratori furono nell’occasione oltre a Folena, Giovanni Nencioni e lo stesso Peruzzi. Nella sua introduzione Folena accenna a delle vivaci polemiche sviluppatesi nei mesi precedenti, circa l’opportunità di quell’iniziativa editoriale. Tra i critici più severi di essa ci fu Franco Fortini che in un articolo su «L’Espresso», intitolato Leopardi per feticisti (24 giugno 1990), avanzò le sue riserve sull’utilità effettiva di quella lussuosa e dispendiosa riproduzione fotografica. Tutta la parte introduttiva del discorso di Folena è una difesa della legittimità di quell’iniziativa, con richiami ai suoi precursori nella storia della filologia editoriale italiana.

 

Ma quelle polemiche non erano state a senso unico: alcune dichiarazioni, infatti, rilasciate dal Peruzzi (e dilatate da intervistatori in cerca di effetti giornalistici), secondo cui la riproduzione fotografica dello Zibaldone, per la regolarità e il nitore della scrittura leopardiana, rendeva in certo senso superflua un’edizione critica, avevano suscitato la risentita reazione di chi, come Giuseppe Pacella, si apprestava a dare alle stampe, per l’appunto, un’edizione critica dello «scartafaccio» leopardiano (edizione poi apparsa, col relativo commento, non molto tempo dopo presso l’editore Garzanti, nell’autunno del 1991). Fra i termini ora espliciti, ora sottintesi di quella querelle, Folena si muove da gran signore, ma anche da saggio filologo, riconoscendo a entrambe le imprese la loro validità scientifica nella rispettiva sfera, e giudicando la polemica «nella sostanza ingiustificata, perché la concorrenza, quando è aperta e leale, è l’anima del commercio anche filologico, e ciò che si contrappone risulta spesso, alla resa dei conti, complementare».[1]

 

La riproduzione fotografica è utile, Leopardi ha una scrittura nitida e chiara, ma è anche vero che usa delle abbreviazioni che spesso sono da risolvere e da interpretare, l’interpretazione critica è necessaria. Bisogna vedere come sono inserite le aggiunte, i tempi: questo legittima l’edizione critica.

Lei mi chiede dell’antigrafo, dunque [silenzio, ci pensa] io sono stato presentatore dell’edizione di Pacella a Recanati, con me c’erano anche Mario Marti e Antonio Prete. La tesi di Marti è che in qualche passo c’è stata una riscrittura, ma che essa non è sistematica, pensiamo ad esempio ai pensieri singoli, di un solo rigo o alle correzioni. È vero anche, però, che queste correzioni non sono tante, quante ci si aspetterebbe da un primo getto. Secondo me ognuna delle due soluzioni è una soluzione scandalosa, oggettivamente scandalosa, cioè che suscita scandalo: sono attendibili entrambe, ma ognuna delle due suppone una conclusione che pone un punto esclamativo; nel caso della riscrittura: sono 4500 pagine e lui con il mal d’occhi che diceva di avere, così avaro nello scrivere, le ha ricopiate tutte da un antigrafo. Questo significa che ha passato una vita a ricopiare lo Zibaldone. Dall’altre parte, se fosse una stesura di getto: uno scritto che di getto arriva a essere definitivo in quel modo è un miracolo di efficienza mentale. Come si fa? L’autore di scritti così lucidi, buttati giù di getto, non corretti o corretti solo in maniera saltuaria, è un mostro di efficienza mentale.

Secondo me in entrambi i casi si suppone un mostro [ride].

 

Non pensa che si tratti di una combinazione delle due soluzioni?

 

L.B.: Senz’altro. Pacella era per il “mostro di prima mano”, Peruzzi per il “mostro di seconda mano”. Leggendo, ci si accorge che esserci tornato sopra deve essergli costato tanto: perciò appare più economica la spiegazione sostenuta da Pacella. Bisogna tenere conto anche che la regolarità della scrittura è tra le altre cose frutto della falsariga.

Io propenderei un po’ di più per il primo getto, ma, ripeto, nell’uno o nell’altro caso bisogna ammettere l’esistenza di un mostro.

È chiaro che bisogna guardare caso per caso, ma pensiamo a quegli infiniti ragionamenti che verranno dopo le cento pagine, come si fa a riscriverli? Poi riscrivere significa anche dare una fiducia a se stessi autori per una cosa ritenuta provvisoria a priori: una cosa è riscrivere una poesia, altra è riscrivere lo Zibaldone, che Leopardi non aveva intenzione di pubblicare.

 

Qui c’è un mio articolo su cui richiamo la sua attenzione: Il giardino malato, su una famosa pagina dello Zibaldone.

 

Riferendosi allo stile del suo Zibaldone, Leopardi parla di «pensieri scritti a penna corrente», ossia in modo spedito e senza una particolare cura rielaborativa. La definizione, in sé più qualificativa che svalutativa, è applicabile alla maggior parte dell’«immenso scartafaccio»; ma ciò non toglie che alcune sue pagine appaiano al lettore vergate da una penna un po’ meno «corrente» dell’usuale. Si pensi, ad esempio, a quelle sul compianto per la perdita delle persone care; o sui due tipi di fascino femminile; o sulla doppia vista degli oggetti per un uomo sensibile e immaginoso. È questo anche il caso della famosa pagina sul giardino malato: l’impressione che se ne ricava è, infatti, di una stesura più accurata rispetto a quella di tante altre pagine che la precedono e che la seguono. Ma questa impressione, nel caso specifico, non è disgiunta da un’altra, ossia di una scrittura in certo senso ‘atteggiata’, come conformata a un modello, reale o supposto.[2]

 

Sembra stia scrivendo un’operetta morale, cioè arieggia un genere.

 

Il che, sia detto fra parentesi, dovrebbe farci riflettere sulla unilateralità della definizione dello Zibaldone come di un ‘diario’, sia pure ‘mentale’; l’idea di un ‘laboratorio’ letterario, infatti, specialmente valida per la prima parte (diciamo le prime cento pagine), continua a riproporsi, sia pur sporadicamente, anche per il séguito. Lo Zibaldone, insomma, è un testo non solo polifonico, ma anche, a suo modo, polimorfico.[3]

 

Le varie annotazioni hanno un diverso peso di impegno, tanto da poter giustificare al limite anche la riscrittura. In quell’articolo dimostro che in quella pagina sul giardino malato lui fa il verso a uno scrittore religioso che parla della provvidenzialità dei giardini e delle piante per dimostrare il contrario. E io mi misi in testa che ci doveva essere un modello contrastivo, antifrastico, cioè uno scrittore religioso che ha scritto su bei giardini ecc. E a un certo punto mi sentii come Galilei quando, facendo alcuni calcoli, decise che lì c’era un corpo celeste non ancora avvistato, ma ci doveva essere e poi si trovò quel corpo celeste. E anche io l’ho trovato: era Daniello Bartoli, scrittore gesuita del Seicento, che ha descritto i viaggi dei missionari in Cina, ha scritto di grandi giardini dove si dispiega la bellezza del creato. E ho fatto dei confronti stilistici:

 

Un brano come il seguente, ad esempio, concernente la saggia distribuzione delle piante sulla terra, appare più vicino stilisticamente alla pagina leopardiana sul giardino malato di quello sull’erba sensitiva:

 

Così, perciocchè delle piante, e d’ogni altra generazione di biade e d’erbe, alcune meglio pruovano, e fan più messe al piano, altre al monte; certe aman l’ombroso, e certe il solatio, queste non crescono che alla greppa e al sasso, quelle sol ne’ luoghi bassi e acquidosi; oltre che quasi tutte richieggono diverse poste a diverse plaghe e guardature del cielo; perciò al ben di tutte, in così divisarsi la terra, e insieme alla varietà per dilettarsene, fu provveduto….

[Leopardi: Là quella rosa è offesa dal sole… Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape… Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche…; questo è ferito nella scorza…; quello è offeso nel tronco; quest’altro è roso, morsicato nei fiori…].[4]

 

Lo Zibaldone qui è un laboratorio per trovare una prosa parodistica, questa prosa è scritta a penna un po’ meno corrente. Per questo lo Zibaldone è anche polimorfico e non si può escludere che ci sia qualche trascrizione.

Ecco, forse le tesi da rigettare sono quelle totalitarie.

 

Per quanto riguarda le prime cento pagine…

 

L.B.: Lei consideri che nelle prime cento pagine ci sono i riferimenti al Werther e alla Corinne. Sono due letture che l’hanno impregnato, l’hanno fecondato. E c’è un pensiero sul Werther in quelle pagine fondamentale per capire il pensiero di Leopardi: ciò che non è detto in quella pagina dello Zibaldone sul mutamento da poeta a filosofo, che non poteva essere detto lì nel quadro di una riflessione antropologica, è l’importanza che agli effetti del suo mutamento ha avuto per l’autore la lettura del Werther goethiano, compiuto nella prima metà del’19.

 

Molti sono che dalla lettura de’ romanzi libri sentimentali ec. o acquistano una falsa sensibilità non avendone, o corrompono quella vera che avevano. Io sempre nemico mortalissimo dell’affettazione massimamente in tutto quello che spetta agli effetti dell’animo e del cuore mi sono ben guardato dal contrarre questa sorta d’infermità, e ho sempre cercato di lasciar la natura al tutto libera e spontanea operatrice ec. A ogni modo mi sono avveduto che la lettura de’ libri non ha veramente prodotto un [in] me nè affetti o sentimenti che non avessi, nè anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da se: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto[5]

 

La lettura perciò è stata maieutica.

 

in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch’io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente. Per esempio nell’amore la disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito, ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto perchè dalla lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec. finiva così, in somma la disperazione mi portava là, ma s’io fossi stato nuovo in queste cose, non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto, dovendolo io come inventare, laddove (non ostante ch’io fuggissi quanto mai si può dire ogni imitazione ec.) me lo trovava già inventato.[6]

 

Questo a proposito dell’amore che porta al suicidio, ma prendiamo questa dichiarazione di principio: Leopardi da libri come il Werther ha imparato a conoscere meglio se stesso.

 

II.

 

Volevo parlare un po’ di Altamura con lei [mi dice ridendo, quasi intimidito].

Le dico qual è la mia Altamura. La mia Altamura è tutta di campagna: eravamo al casello, il 107, se non sbaglio, che era lontano 4 o 5 chilometri dalla stazione, verso la campagna. Io ogni mattina andavo verso la città, si saliva un po’, incontravo tutti i carretti lungo la strada. La mia scuola era all’inizio della città, perciò non avevo una grande conoscenza della città vera e propria, a volte, nei giorni di festa, ci andavo con mia madre. Mio fratello maggiore frequentava l’Istituto tecnico, dove ebbe un professore a cui rimase molto affezionato.

 

Quando avevo 8 anni ci trasferimmo a Trani perché quel tratto di ferrovia fu privatizzato, ma mio padre era statale. A Trani c’era la ferrovia non più a un binario.

Io perciò di Altamura ho conosciuto le prime case e questa campagna.

Ci sono tornato con mio fratello una ventina di anni fa e il casello era scuffulato [ride, poi, abbassando la voce, mi confessa:], ma io le dirò che presi un mattone e me lo portai indietro, ce l’ho ancora in una scatola. Era un mattone del camino, un po’ affumicato. Mia madre cucinava lì, il sabato, sette pagnotte per la settimana. Si era un po’ autarchici, le spese bisognava farle in paese. Ma mi chiedo anche come abbia fatto mia madre a partorire: mio padre doveva andare in paese, doveva far venire la mammana, come si diceva.

 

A un bimbo queste cose non appaiono strane. A ripensarci ora, quando il maestro distribuiva l’uva, durante la vendemmia, diceva: “A Blasucci perché viene dal casello” e io non mi sentivo un poverino. La coscienza di essere poveracci viene molto dopo. Innanzitutto c’è la coscienza di esistere, in un modo impermutabile.

La campagna è la mia esperienza, i grilli, la cuccuvasc. Ma io non parlavo dialetto altamurano, parlavo più il dialetto di Palazzo San Gervasio, da cui venivano i miei genitori. Ma ci sono dei vocaboli che mi sono rimasti. Ma sa, laddove pensiamo che i dialetti siano una generazione dell’italiano, si ritrovano etimologie più alte. Pensi alle ali, in dialetto sono le cidd, ma è un’etimologia nobile, da axilla, ascella.

Però io non sono tornato in Puglia, non a caso: lo stile di vita, la mentalità mi portavano verso la Toscana. Con la Puglia mi rimane questo legame viscerale, però non posso dire che lo stile di vita sia il mio.

 

Le basti sapere questo: quando, dopo l’università, sono tornato a Trani, in seguito a un’enorme depressione, non mi potevo muovere, ma in realtà era nei programmi l’andare a Friburgo perché Contini aveva trovato una borsa per me all’Università. Invece rimasi a Trani, dilaniato da questa depressione, ero ridotto uno scheletro.

Deve sapere che giù l’uomo magro era considerato un uomo disgraziato e quando mi vedevano non facevano altro che farmi notare che ero sciupato, che ero misero, che facevo pena. In Toscana la magrezza è considerata un pregio, non mi sentivo compatito.

A parte questo, la mia famiglia è a Trani. Ma sono più di settant’anni che sono qui. Mi piacciono i pugliesi che riescono a emanciparsi dalla pugliesità. Però è anche vero che la Puglia che io ho lasciato non è quella di oggi, c’è un grande progresso culturale, ma anche sulla cultura del corpo. Ricordo, i vecchi pugliesi erano brutti. Erano anche brutti oltre che vecchi. Uno diventando vecchio entrava in un anonimato di bruttezza, in una apparenza di miseria sdentata.

 

E poi pensi al divario tra i ricchi e i poveri, in Puglia era molto più ampio. Allo stesso tempo al Sud era più probabile il salto di classe, rispetto – penso ad esempio – alla Toscana. Per farla breve: mio padre si è inchinato a persone che si sono poi inchinate ai suoi figli. La miseria produce fenomeni di eccellenza. Qui c’è una maggiore stabilità, mancano questi stimoli.

Debbo dire che queste cose qui mi inteneriscono, mi fanno pensare con affetto alla Puglia.

Per noi c’è stata un’altra cosa: i miei fratelli maggiori furono spinti agli studi, alle scuole elementari. Quando per loro mio padre aveva previsto un futuro da meccanici. Mio padre, raccontandomi questo mi disse “è come se mi avessero detto che nel mio orto le zolle sapevano di petrolio”. Poi lui ha chiesto il trasferimento ad Altamura, perché lì c’erano le scuole medie. L’eroe è stato mio padre, mio padre era veramente un eroe. Questi tipi così solo lì possono attecchire. Mio padre aveva fatto la terza elementare, aveva letto un sacco di cose, era un vulcano, un uomo arguto. Nella sua elementarità era un uomo già dotato, ha pensato “i miei figli studieranno”. Quando faceva le porzioni a tavola a me toccava quella più grande, rispetto ai miei fratelli che non studiavano. Intendiamoci, non è che questo bastasse, eravamo talmente poveri. Io fin dal primo ginnasio prendevo la borsa di studio per i figli dei ferrovieri. Io, e in questo forse sono stato più conformista, più adattabile forse, andavo bene a scuola. Dalla prima media fino al terzo liceo presi la media di 8. Ma non me ne faccio un vanto, non ho fatto grandissimi studi. Il preside, mi ricordo, si impose per farmi mettere 8 in matematica, io di matematica, ad esempio, non capivo nulla.

 

A Trani sono rimasto fino a 18 anni, poi Pisa, dove mi sono laureato. Ho insegnato in un liceo a Trani per due anni, poi ancora tre anni a Volterra. Per 19 anni io ho insegnato alle medie, la mia carriera universitaria è piuttosto tardiva, a quarant’anni ho preso la libera docenza. Devo dire che l’esperienza delle scuole medie mi è giovata, ho conservato da universitario quella preoccupazione di essere capito, non sono mai andato per conto mio, lasciandomi ascoltare, ci tenevo molto alla condivisione anche dei miei piaceri e delle mie passioni. Non volevo essere bravo, volevo essere capito. Questo mi è rimasto persino nella scrittura, quest’aspetto palpitante, di chi sta parlando di cose vive, non sta parlando il burocrate delle scienze letterarie. Cose vive e cose chiare, a costo di essere semplificatori. Ho imparato la semplificazione: a costo di una leggera forzatura, mi preme più che si capisca l’essenza. Il mio motto è: fare discorsi universitari in stile liceale.

 

III.

 

Io potrei invitarla fuori, io prendo un piatto di gnocchi alla sorrentina, lei prenda quello che le pare.

 

Le ultime ore dell’incontro pisano si sono svolte in osteria, mentre Gino mi raccontava di alcuni momenti del lavoro all’edizione critica dello Zibaldone curata da Giuseppe Pacella, suo caro amico.

Con un sorriso divertito mi racconta che il progetto era stato affidato a Pacella nel ’63 e che – considerato che l’edizione vede la luce nel 1991 – è stato un lavoro durato circa trent’anni: “non aveva il piglio dello studioso – mi dice – se la prendeva con comodo”. L’edizione era un progetto Adelphi, che ben presto, però, se ne staccò in quanto non ne condivideva i criteri editoriali, ispirati più a una filologia di stampo classicista (si ricordi che Pacella era sotto la guida del filologo classico Sebastiano Timpanaro) che ai criteri della filologia d’autore italiana. Così il lavoro passerà prima dalle mani della Mondadori, poi della Sansoni e approderà alla Garzanti, vedendo la luce anche grazie all’attento lavoro di Lucio Felici. Di grande aiuto per accelerare i lavori è stata la figlia di Pacella, Daniela. I lavori continuarono ad essere portati per le lunghe, con insoddisfazione della casa editrice, che cominciò a considerare questa pubblicazione eccessivamente dispendiosa e d’intralcio per altri progetti che si presumevano più redditizi.

 

Due aneddoti che penso possano essere curiosi per chi legge, a proposito delle continue proroghe alla consegna del lavoro: uno riguarda Blasucci in prima persona che in quell’occasione si era fatto mediatore tra la coppia Pacella e Lucio Felici. Una sera, mi racconta, Blasucci telefonò a Felici chiedendo di concedere ancora una proroga per terminare l’indice. Da questa telefonata, che causò le ire di Felici, nacque una grande amicizia tra lui e il professore.

La mancata concessione della proroga, però, portò alla consegna dei lavori con l’indice appena cominciato da Daniela Pacella, secondo i ricordi del professor Blasucci, forse redatto solo fino alla lettera c. Questo costrinse la Garzanti ad acquistare il resto dell’indice dall’edizione dello Zibaldone a cura di Binni e Ghidetti, cioè dalla casa editrice Sansoni. Così l’edizione Pacella vide finalmente la luce.

Alla fine di questo racconto e del pranzo, abbiamo mangiato un tartufo al cioccolato: “di solito lo divido con il cameriere, ma oggi lei può prendere l’altra metà”.

 

Note

 

[1] Blasucci 2017, p. 168.

[2] Ivi, p. 95.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 105.

[5] Zib, p. 64.

[6] Ibidem

2 thoughts on “Conversazioni pisane. A proposito di un incontro con Luigi Blasucci

  1. Splendido cavalcare sull’eone del tempo e delle parole.
    Quanta bellezza!

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