di Riccardo Frolloni

 

[E’ da poco uscito, nella collana i domani” di Nino Aragno Editore, Amigdala, il nuovo libro di Riccardo Frolloni. Ne proponiamo alcuni testi]

 

Abbassa le luci, gradualmente, giorno dopo giorno, lei
se ne accorge, domanda, ma niente, lui nega, le chiede

 

se si sente bene, le dice che si sta preoccupando, giorno
dopo giorno, sempre più fioche le luci e lei che si ricordava

 

diversamente, i colori, quasi non vede più certi angoli,
ma oramai si inventa le cose, le immagina, finché non diventa

 

normale, addirittura, condivisibile, in questa notte
della mente c’è una foto, è mio padre da giovane, è in ginocchio e riceve

 

una benedizione, tutti sorridono, in un’altra c’è l’uomo che benediceva
circondato da sole donne e il resto degli uomini di lato, quasi non si vedono,

 

io bambino in braccio a mio padre, e tutti sorridono, poi una terza foto
e sono tra altre braccia, sorrido, durante la mia infanzia molte cose

 

furono colpite da fulmini, ma se nessuno li nega, alcuni fatti straordinari
possono sembrare normali, addirittura, condivisibili.

 

*

 

La guardavano male. Nessuno lì portava sciarpe, o almeno, negli anni
del dopo dittatura Ceausescu le donne avevano solo colbacchi, collo alto e pelliccia.

 

All’aeroporto sbagliato di Bucarest, Bucuresti in rumeno, mia madre aspettava
una macchina che non la stava aspettando, e ha avuto paura.

 

Era necessariamente l’anno più gelido degli ultimi ricordi, lo sarebbe stato comunque
per chi come noi non ha mai ascoltato storie di sangue gelato, e non poteva

 

uscire e poi rientrare, non poteva chiedere aiuto, non sa la lingua e poi
cosa chiedere, forse sono proprio le facce che incutono mutismo, dipingono fuggiaschi,

 

traditori, ladri – la provincia sempre presente, il diverso come mostro, il sospetto e di nuovo
la paura, la paura ti salva la vita, stai attenta – cercava un cenno, un sorriso, il nome Alina

 

nei lineamenti, nome comune, un numero di telefono fisso, di casa sua, forse, cerca
una cabina telefonica, ma prima: il cambio valuta, mille lei, cartaccia che non vale niente,

 

aveva appena venticinque anni, e la fuga e la vita era un tutt’uno.

 

*

 

Una scimmia alcolizzata, nel distretto di Mirzapur, in India, uccide una donna e ferisce 250 persone. Si chiama Kalua e sarebbe appartenuta a un occultista della zona che le avrebbe dato da bere solo alcool. Morto il padrone la scimmia avrebbe dunque iniziato ad avere crisi di astinenza, vagando per la città e attaccando. L’animale è stato poi catturato e trasportato allo zoo. Gli zoologi hanno scoperto che, oltre a essere alcolizzata, la scimmia si rifiutava anche di mangiare verdure. L’occultista potrebbe averle dato da mangiare carne di scimmia, il che spiegherebbe anche la sua aggressività verso i suoi simili. È stata isolata in una gabbia dove passerà il resto dei suoi giorni. In realtà, la funzione originaria, biologica, della paura non è quella di disorganizzare i comportamenti bensì il contrario, organizzarli in vista di una soluzione in sintonia con l’istinto di sopravvivenza. Esistono però paure controproducenti, come la paura di vivere e la paura di morire: il desiderio di non essere separati dalle cose e dalle persone che ci proteggono e il desiderio di essere indipendenti e potenti. Il conformista dunque o «catatonico minore» e il nevrotico.

 

*

 

C’era la processione della vigilia, gli incappucciati, le caviglie incatenate e loro
in vetrina a rivestire manichini nudi, a mettere in ordine la vergogna, di stare là, a lavorare
ancora a quell’ora, lavorare per il troppo lavoro, prepararsi per il giorno dopo, la pasqua
e la pasquetta, i primi giorni di primavera, il boom economico, il paese e la montagna che vive
anche dei prati. Mai, mai si doveva parlare di cassa con gli altri, solo a casa, a porte chiuse, gli altri
si vantavano degli incassi, gli altri, ma noi no, mai, meglio evitare, farsi gli affari propri, la vergogna
di mostrarsi religiosi col lavoro, coi milioni, tre milioni e mezzo, undici, dodici milioni
a ferragosto, i soldi, che mio nonno contava tutta la notte sul tavolo grande nel semibuio
di case di campagna, luce fioca e falene, tanti soldi non li aveva mai visti in vita sua, e di padre
in figlio lo stesso pensiero quando il direttore lo conduce nel cavò e balle di soldi legate con lo spago,
in quattro o cinque a caricarle sul furgone che non sembravano più soldi e non avevano
abbastanza mani.

 

*

 

Come in un incubo qualsiasi i soldi
cambiano continuamente forma

 

e una volta sono un dono di grazia e una, invece,
la lingua del demonio, lo sterco del diavolo.

 

*

 

Entrano. Si alzano tutti in piedi e iniziano le feste,
gli abbracci, i baci, le pacche, anche mia madre viene accolta
da Bice e Ideale con serena allegria, per quanto

 

due occhi perennemente ombrati da occhiali scuri
possano essere senza allusioni. L’odore forte di Linda Box,
sigarette italiane, le fumavano tutti, cattive, per fumarne di meno.

 

Pina già spenta, minimizzata dalla sola presenza,
lei, unica ad aver dubitato. Ma ora poteva vedere, registrare
per poi dimenticare, rimuovere, ma per un istante registrare

 

quegli sguardi di riverenza.

 

*

 

Fiorenzo, Rachele, Martina, Lorena, mio padre, mia madre, Bice e Ideale,
si siedono, mangiano, parlano solo di circostanze,

 

delle abitudini dei rumeni, delle libertà sessuali, i controlli dittatoriali alla frontiera,
la strada gelata tutt’intorno Bucuresti, che quasi fanno un incidente mortale.

 

Alina tiene d’occhio l’orologio, falce e martello sul quadrante, sono le tre,
l’ora del lupo, una cappa di fumo espansa per le stanze dell’appartamento, e vanno tutti a dormire.

 

Brandine separate per Pina e Peppe, nella stanza insieme a Dorian e Alina,
pareti bianche senza quadri, un grosso armadio in compensato, una plafoniera trasparente.

 

Il comunismo, pensa mia madre, o non pensa a niente.

 

Nella diffrazione dei pensieri tornava, prendeva sempre nuove forme,
la puzza di chiuso, l’umido della muffa, lo scartocciare dei soldi, neri come un tumore.

 

*

 

Ancora una volta a spaventare è l’ignoto, l’imprevedibilità̀ del divenire a cui si contrappone la fuga ristoratrice nelle stereotipie, il rifugio in atti eseguiti con pignola esattezza nelle identiche sequenze, ecco il controllo.

 

Mi invento, faccio finta di avere una malattia, uno sport per anni, di aver letto
centomila libri, scrivo una storia verosimile e ci credo. Resta l’ombra,
sbuca di colpo mentre cammini, una musica di pianoforte sentita una volta
nella colonna sonora di un film sul sogno infinito, mi sorprende
a guardarmi i piedi o gli sguardi per un attimo tristi di qualcuno, e così invento,
geometricamente organizzo le fila, incasello la riga, creo metriche comprensive
di molte vite, la narrazione mitica, la finzione letteraria e il canto, il montaggio
dei frammenti, l’archeologia delle storie accennate a creare costellazioni e così il tempo
ordinato per capitoli e il potere del demiurgo, la rimozione controllata, fuga
e combattimento insieme del pericolo.

 

L’intero atto dello scrivere sta nella resa di un’assenza, nel suo possesso e riproduzione tecnica, come in amore si confonde spesso la condivisione con la proprietà̀ e dunque il controllo. L’autore tenta il plagio, manipola l’opera affinché́ questa possa essere sorvegliabile, così il pazzo d’amore sviluppa tecniche di vigilanza adatte alla coppia, indirizza gli umori.

 

 

[Immagine: Aaron Siskind, Chicago 85, 1953].

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