di Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati

 

[E’ uscito da poco per Feltrinelli Democrazia afascista, di Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati. Ne proponiamo un estratto].

 

Tutte le parole hanno una storia, ma alcune storie sono più interessanti delle altre. È questo il caso dell’aggettivo «afascista».

La sua vicenda documentabile comincia niente meno che con Benito Mussolini – anche se, ovviamente, non è impossibile immaginare una sua preistoria di cui non rimangono testimonianze scritte: una preistoria fatta, per esempio, di discussioni appassionate nei caffè e nelle redazioni dei giornali. Roma, 4 dicembre 1924: il leader del Partito Nazionale Fascista e capo del governo parla al Senato della difficile situazione politica del paese. Dopo la marcia su Roma e l’incarico ricevuto dal re nell’ottobre di due anni prima, Mussolini ha guidato una coalizione di fascisti, nazionalisti, liberali e cattolici conservatori alle elezioni anticipate del 6 aprile 1924, risultando vincitore anche grazie a una campagna di violente intimidazioni e a una legge iper-maggioritaria (nota come «legge Acerbo», dal nome del deputato Giacomo Acerbo che scrisse il testo), ma nonostante l’ampia maggioranza parlamentare il suo governo già vacilla. Il 10 giugno il leader dell’opposizione, il parlamentare socialista Giacomo Matteotti è scomparso; dopo lunghe ricerche si è scoperto che era stato rapito da una banda di camice nere, ma il suo cadavere è stato rinvenuto nella campagna romana solo a metà agosto, tra lo sconcerto generale, in Italia e nel mondo. Persino Gabriele d’Annunzio ha definito privatamente il gesto una «fetida ruina» (prima di barattare il proprio silenzio sulla questione con l’acquisto da parte dello stato del manoscritto de La gloria per l’inverosimile cifra di duecentomila lire)[1]. Da allora le polemiche non si sono placate e molti si attendono che il sovrano tolga la sua fiducia al presidente del Consiglio, decretando la caduta del suo esecutivo, mentre Mussolini si sforza ancora di presentarsi come una figura di mediazione indispensabile per uscire definitivamente dalla crisi.

 

Ogni esitazione da parte di Mussolini sarebbe caduta nemmeno un mese dopo, con il celebre discorso del 3 gennaio, che avrebbe abolito la libertà di stampa e di fatto inaugurato il regime. Il 4 dicembre, tuttavia, la linea del governo è ancora quella di stemperare i dissidi e presentarsi come l’unica via d’uscita possibile dalla situazione di instabilità. Da cui l’interrogativa retorica di Mussolini, dove il termine che ci riguarda compare probabilmente la prima volta a stampa: «Potrebbe un altro Governo – afascista, fascista od antifascista – accelerare e portare a compimento, in un termine di tempo più rapido, questo assorbimento completo della rivoluzione nella costituzione? Ne dubito fortemente, lo escludo». Nell’interesse di tutti, occorre insomma che Mussolini completi il suo lavoro di pacificazione nazionale.

Afascisti sono dunque, in questa prima fase, tutti coloro che non hanno preso posizione nello scontro tra Mussolini e i suoi avversari: ipotetiche alte personalità super partes, figure istituzionali (come si direbbe oggi), potenziali salvatori della patria che – davanti alla manifesta incompatibilità del fascismo con i più elementari principi del governo della legge – Vittorio Emanuele III dovesse scegliere per traghettare l’Italia verso un nuovo assetto stabile dopo le accanite contrapposizioni del dopoguerra. Degli uomini del compromesso, insomma. In cui, però, Mussolini invita a non confidare troppo, data la polarizzazione del paese alla fine del 1924. Cambiare guida significherebbe tornare indietro, alla ingovernabilità degli anni precedenti, mentre lui è l’unico che può portare a termine il compito iniziato con la marcia su Roma.

 

Da quel 4 dicembre la parola comincia a poco a poco a diffondersi nei discorsi degli altri gerarchi fascisti e, di riflesso, sulla stampa, caricandosi ogni volta di nuove sfumature. Scongiurata la possibilità che il sovrano sconfessi Mussolini, il nascente regime deve ancora mettere le radici e mostrare la sua natura più violenta. Così nei suoi discorsi il capo del fascismo si riferisce spesso agli afascisti, i quali, dopo la rottura del 3 gennaio, indicano piuttosto la varia area grigia dei tanti italiani che, pur non aderendo al suo progetto politico, non parteggiano nemmeno per i suoi avversari: una grande maggioranza silenziosa, della cui muta benevolenza in quel momento Mussolini ha disperato bisogno. Se questi dovessero infatti assumere un atteggiamento apertamente ostile a lui, la tenuta del regime, ancora in corso di edificazione, sarebbe messa a dura prova.

 

Nei suoi discorsi e in quelli dei gerarchi si moltiplicano dunque in questa fase gli appelli a questa terza Italia, che deve essere rassicurata e persino blandita. Nella grande Italia che il fascismo sta costruendo ci sarà posto anche per loro, come Mussolini afferma chiaramente sostenendo in parlamento la riforma della pubblica amministrazione e l’«epurazione» degli avversari politici (condotta, dice, senza «intenti persecutori»): «Gli impiegati possono dividersi in tre gruppi: i tesserati, gli afascisti e quelli che non partecipano comunque alle lotte politiche, ma hanno un forte sentimento del dovere, e sono fortunatamente l’enorme maggioranza. Ma vi sono anche, in quelli che si possono definire i gangli nervosi dell’amministrazione dello Stato, individui irriducibili, che non è più possibile tollerare per ragioni morali» (19 giugno 1925). Solo questi ultimi, assicura Mussolini, avranno qualcosa da temere dal nuovo ordine; per gli altri le cose continueranno esattamente come prima.

 

Accogliere gli afascisti: è questa la parola d’ordine presto rilanciata da tutti gli organi di stampa e ripetuta dai principali esponenti del regime. Ancora il 27 maggio 1927, difendendo davanti alla Camera l’abolizione della libertà di stampa, Mussolini batterà sullo stesso tasto:

 

L’opposizione l’abbiamo in noi, cari signori. Noi non siamo dei vecchi ronzini che hanno bisogno di essere pungolati. Noi controlliamo severamente noi stessi. L’opposizione sopratutto la troviamo nelle cose, nelle difficoltà obiettive della vita, la quale ci dà una montagna di opposizione, che potrebbe esaurire spiriti anche superiori al mio.

Quindi nessuno speri che dopo questo discorso di vedranno dei giornali antifascisti, no: o che si permetterà la resurrezione di gruppi antifascisti: neppure. Si ritorna al mio discorso tenuto pria della rivoluzione in un piccolo circolo rionale di Milano, l’«Antonio Sciesa»; in Italia non c’è posto per gli antifascisti; c’è posto solo per i fascisti, e per gli afascisti quando siano dei cittadini probi ed esemplari.

 

A Milano, il 4 ottobre 1922 Mussolini aveva infatti proclamato, preannunciando la marcia: «Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani “indifferenti”, che rimarranno nelle loro case ad attendere; i “simpatizzanti”, che potranno circolare; e finalmente gli italiani “nemici”, e questi non circoleranno». L’assenza del neologismo che ci interessa è in questo caso importante perché Mussolini al suo posto offre una delle sue possibili definizioni (almeno nel primo periodo): per l’appunto «indifferenti».

 

Da quel momento, con il consolidarsi del regime, il senso del termine non sarebbe cambiato. Afascista inteso come non-fascista, con una costruzione “alla greca” con l’alfa privativo davanti, come in tanti neologismi affini della lingua italiana (apolitico, amorale, aconflittuale, apartitico, agnostico…), da distinguersi dall’opposizione attiva degli antifascisti operativamente impegnati contro il nuovo ordine – e non solo apatici e distratti. Diverso però si fa col tempo l’atteggiamento del fascismo verso questi italiani che, come gli ignavi danteschi, rifiutano di prendere posizione[2]. Rassicurati e persino corteggiati negli anni Venti, di lì a poco questi cittadini restii a lasciarsi trascinare dai sentimenti di «rinascita nazionale» propiziati dalla «rivoluzione fascista» sarebbero diventati uno dei bersagli preferiti del nuovo ordine: il simbolo della vecchia Italia, borghese e liberale, del tutto irrecuperabile nonostante l’impegno del regime a forgiare l’italiano nuovo. Tra i tanti esempi possibili, basterà lasciare la parola a Giovanni Gentile, il filosofo ufficiale del fascismo, in un’infiammata requisitoria del 1936 contro coloro che undici anni prima avevano firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce:

 

Quel documento una cosa certamente dimostrò: che nella cultura italiana c’era una massa opaca ed inerte; una massa da cui bisognava sgombrare il terreno per edificare su solide fondamenta l’edificio morale dell’Italia fascista. Si dicevano antifascisti. Erano, invece, come poi sono stati detti, afascisti: non avversarii se non in quel senso in cui si può pur dire che sia contro di noi un interlocutore che non ci sta a sentire non perché giudichi immeritevoli di attenzione le nostre parole, ma semplicemente perché è sordo. Gente ottusa di cervello e di cuore, rannicchiata perciò nel guscio di un ideale di cultura e di libertà – due concetti strettamente congiunti, e, in fondo, equivalenti da non poterci vivere dentro senza serrare anche gli occhi e ridursi all’assoluta impossibilità di vedere la luce del sole. Poveri gufi condannati a svolazzare di notte! Poveri filosofi e storici e storici che non amavano altra storia che la passata; e da anni venivano predicando che tutta la storia è sacra e Dio la vuole, e ora adombravano e ricalcitravano innanzi alla sola storia che ci sia (poiché ogni altra storia si ritrovano soltanto in questa), la storia presente e viva.[3]

 

A quell’altezza, tuttavia, il termine «afascista» era già entrato da tempo nell’uso comune in questa accezione spregiativa, soprattutto presso i gerarchi più estremisti come Achille Starace e Carlo Scorza o intellettuali di regime più vicini all’ala antiborghese del regime come Mino Maccari (tonante contro Gli indifferenti di Alberto Moravia) e Paolo Orano. Quest’ultimo attento a precisare il vero senso delle parole solo apparentemente tolleranti del suo Duce verso i timidi e gli appartati: «Benito Mussolini ha detto che gli afascisti non sarebbero disturbati. Spesso si considera bontà quello che nel Duce è disprezzo e compassione. Ma gli intellettuali afascisti – poiché sono tali coloro che vorrebbero “fare della cultura”, ma “non fare della politica” e godersi in beata sicurezza la sinecura della irresponsabilità del nuovo, che è stupendamente pericoloso – gli intellettuali aderenti al Regime per la irresistibile melodiosità della fifa civile, chiedono troppo»[4].

 

Il senso della parola «afascista» che ci interessa è però quello che affermatosi nel secondo dopoguerra non tanto per descrivere i comportamenti tenuti durante il ventennio dai più diversi gruppi sociali o individui (come hanno fatto a volte gli storici, soprattutto dagli anni Settanta, per descrivere di volta in volta l’adesione passiva e tutt’altro che entusiasta dei funzionari, della magistratura, dell’esercito e dei cattolici), ma l’atteggiamento che, caduto il regime e morto Mussolini, occorreva che i nuovi italiani, repubblicani e democratici, manifestassero verso quella esperienza. Rispetto al grande uso che ne era stato fatto fino al 1945, la parola scomparve rapidamente dall’uso per qualche decennio, ma prima che ciò avvenisse fece in tempo ad avere un ultimo sussulto in una sede non meno autorevole del Senato dove Mussolini aveva tenuto a battesimo la parola nel dicembre del 1924: niente meno che l’Assemblea costituente.

 

Qui infatti il liberale monarchico Roberto Lucifero – una figura cruciale in questi anni, sulla quale toccherà tornare abbondantemente più avanti – rivendicò a più riprese la necessità che la nuova Italia si professasse «afascista» e non «antifascista», come facevano gli altri partiti politici. Questo elogio dell’afascismo era possibile però solo al prezzo di una evidente torsione, che – senza stravolgere il senso originario della parola – la caricava di nuove tonalità. Al momento della presa di potere del fascismo, «afascista» aveva significato (senza particolari marchi di infamia) “neutrale”, “equidistante”, addirittura “poco interessato alla politica” («indifferente»). Col consolidamento del regime, però, il termine si era caricato nel linguaggio ufficiale di connotati sempre più negativi, facendosi sempre più spesso sinonimo di disfattismo, resistenza passiva, nei casi estremi addirittura sabotaggio (e cripto-antifascismo). Nel dopoguerra, tuttavia, Lucifero prova a rilanciarla in un’accezione ancora diversa, che nell’afascismo celebra la capacità di guardare avanti e di non rimanere prigionieri del passato nello stesso momento in cui ribadisce la massima distanza dal totalitarismo italiano e da tutti gli altri totalitarismi. Nell’Italia repubblicana, «afascista» è insomma per lui chi osserva gli eventi da una prospettiva più alta o distaccata (neutra?) e rifiuta di farsi strumentalizzare dagli ideologhi di ogni parte, ma soprattutto da quelli allora dominanti nel dibattito pubblico, gli antifascisti – pur essendo non meno di loro ostile al passato regime. Il fascismo, sostiene insomma Lucifero, appartiene al mondo di ieri, e il modo migliore di seppellirlo è non menzionarlo più. Tanto meno nella carta costituzionale.

 

Non sorprendentemente, le parole deliberatamente provocatorie del leader dell’ala più reazionaria del Partito liberale scatenarono un ampio dibattito a cui presero parte alcune delle figure più autorevoli dell’assemblea, da Emilio Lussu a Palmiro Togliatti sino ad Aldo Moro, i quali – contro di lui – difesero le ragioni della Costituzione antifascista che si stava scrivendo in quei mesi. Si tratta di uno snodo importante perché l’opposizione di Lucifero obbligò gli altri membri dell’assemblea ad approfondire e chiarire a sé stessi e a gli altri le ragioni della propria scelta, che altrimenti sarebbe potuta apparire scontata dopo gli orrori del regime. Alcune delle parole più importanti sulla nostra carta costituzionale e sul progetto della democrazia italiana sono state pronunciate allora, in diretta risposta a Lucifero e al suo afascismo, e a esse è dedicato per intero il quinto capitolo di questo libro.

 

La formula di Lucifero tuttavia non ebbe successo, e non solo perché i rappresentanti dei partiti di massa nati dalla Resistenza tennero duro nella loro convinta pregiudiziale antifascista. Più in genere, nonostante sin dal dopoguerra la penisola fosse piena di italiani che – retrospettivamente – potremmo definire senza troppi problemi «afascisti», per parecchio tempo il termine non entrò nell’uso per descrivere il loro scetticismo verso la repubblica. A differenza dei (pochi) fascisti militanti, la maggioranza di quanti nutrivano scarsa simpatia per il nuovo assetto del paese e tendevano invece a perdonare o ridimensionare i crimini del regime mussoliniano optò per un bassissimo profilo (votando quasi sempre, seppure con poco entusiasmo, per la Democrazia Cristiana, vista come il migliore baluardo contro la minaccia sovietica). Così, per almeno una ventina d’anni nessuno rivendicò in pubblico per sé l’afascismo che Lucifero avrebbe voluto ispirasse la Costituzione[5].

 

Nell’accezione che oggi ci interessa, le parole «afascismo» e «afascista» rimangono dunque legate anzitutto a uno dei maggiori narratori italiani del secondo Novecento: Giuseppe Berto, che, da bastian contrario, con questi vocaboli cercò di definire la propria posizione politica e la propria storia, rimettendole in circolo all’inizio degli anni Settanta. È una vicenda complessa, che può essere compresa solo ripercorrendo un poco la sua biografia. Ma è anche una vicenda che merita di venire raccontata nel dettaglio, perché è lì che il termine si è caricato delle sfumature che oggi lo accompagnano e che ha riguadagnato legittimità nel discorso pubblico, preparando la situazione attuale in cui sotto il termine «afascista» è possibile raggruppare un gran numero di atteggiamenti della destra (e a volte non solo della destra) italiana.

 

Oggi Berto viene ricordato soprattutto per aver scritto uno dei grandi romanzi novecenteschi sulla nevrosi contemporanea (assieme a La coscienza di Zeno di Italo Svevo e a La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda): Il male oscuro, uscito nel 1964 e subito insignito con il Premio Viareggio e il Premio Campiello, all’epoca i due maggiori riconoscimenti letterari italiani assieme al Premio Strega. Figlio di un maresciallo dei carabinieri in congedo, da giovane Berto era stato fascista: molto fascista. Militare di carriera, a ventun anni, nel 1935, era partito volontario per l’Etiopia, dove era rimasto fino al 1939, per poi riarruolarsi come volontario e tornare a combattere in Africa nel 1942, giusto in tempo per assistere allo sfacelo delle forze dell’Asse e a finire prigioniero (tutti eventi poi raccontati nel 1955 nel memoir bellico Guerra in camicia nera, una delle testimonianze migliori sul secondo conflitto mondiale scritte da un italiano). Trasferito negli Stati Uniti, venne internato nel campo di concentramento di Hereford, in Texas, dove erano reclusi i militari che avevano deciso di non collaborare con il governo Badoglio. Qui cominciò a scrivere quello che sarebbe diventato il primo grande best-seller italiano del dopoguerra: Il cielo è rosso (1947), che, sulla scia del neorealismo cinematografico, conobbe un gran numero di traduzioni nelle lingue più diverse. Da sempre vicino al fascismo sociale e antiborghese, a questo punto Berto compì una spericolata conversione politica, che lo portò a comporre anche un romanzo «di stretta osservanza marxista»[6] (per lo meno nelle intenzioni dell’autore): Il brigante (1951). La luna di miele con la sinistra culturale era però destinata a durare poco. Afflitto da una grave forma di nevrosi (che più tardi sarebbe stata oggetto de Il male oscuro), davanti all’insuccesso de Il brigante Berto sviluppò una vera e propria sindrome di accerchiamento, persuadendosi che le reazioni meno calorose che in passato fossero l’effetto di una congiura ai suoi danni (di cui l’eterno rivale Moravia sarebbe stato il principale responsabile). Solo dopo anni di patimenti e una lunga terapia psicoanalitica, Berto riuscì a tornare alla scrittura. Ma, nonostante i cospicui successi, non si liberò più della convinzione, a tratti prossima alla paranoia, che intellettuali socialisti e comunisti si fossero messi d’accordo per ostacolare la circolazione dei suoi libri e costruire attorno a essi un muro di silenzio. Il gran numero di collaborazioni giornalistiche a cui il successo de Il male oscuro gli aveva aperto le porte gli servì dunque anzitutto a regolare i conti con i suoi presunti persecutori. Proprio in polemica contro di loro, Berto recuperò così dal lessico degli anni Trenta la parola «afascista» (allora caduta quasi totalmente in disuso) per descrivere il proprio atteggiamento verso l’Italia presente. Da giovane era stato fascista, certo. E ora non lo era più. Ma questo non faceva di lui un antifascista, come la cricca che lo perseguitava. Proprio gli antifascisti incarnavano anzi ai suoi occhi l’evoluzione di quell’ethos fascista da cui Berto rivendicava invece di aver preso definitivamente le distanze[7] – pur senza approdare al conformismo della sinistra culturale.

 

Nell’Italia degli anni Sessanta erano parole scelte deliberatamente per suscitare scaldalo. La stessa volontà polemica alimenta tuttavia anche il pamphlet Modesta proposta per prevenire (1970), dove a una serrata critica dei movimenti giovanili si legava un campionario di argomenti cari alla destra estrema nella sua polemica contro la democrazia nata dalla sconfitta del fascismo: la denuncia della natura inevitabilmente «partitocratica» della Repubblica, della politicizzazione della magistratura, dell’illiberalismo degli antifascisti, dei mille difetti della Costituzione e della vacuità delle celebrazioni per la Resistenza, l’attacco ai sindacati e al diritto di sciopero, le invettive contro la presunta connivenza della grande stampa borghese con i comunisti… A dire il vero, del libro non si diede molto peso a sinistra, dove venne preso come una delle solite intemperanze di Berto o, nel peggiore dei casi, come la prova che Berto non era molto cambiato dalla sua gioventù mussoliniana. Il violento crescendo di Modesta proposta per prevenire lo segnalò invece agli intellettuali vicini al Movimento Sociale Italiano. Dopo un breve corteggiamento, Berto venne così arruolato al Primo Congresso Internazionale per la Difesa della Cultura organizzato dal responsabile culturale del partito Armando Plebe, che si tenne a Torino dal 12 al 14 gennaio 1973 sotto l’egida di Giorgio Almirante, con interventi – tra gli altri – del filosofo tradizionalista (e fervente antisemita) Julius Evola, del drammaturgo rumeno naturalizzato francese Eugène Ionesco, del filosofo francese Gabriel Marcel e del giovane teorico della «Nouvelle Droite» Alain de Benoist.

 

Come parola d’ordine per il suo intervento a quella che nelle intenzioni di Plebe doveva essere una sorta di Internazionale dell’estrema destra, Berto scelse proprio l’afascismo.

 

Mi chiamo Giuseppe Berto. Ho 58 anni e da trent’anni circa faccio lo scrittore. Sono un isolato. La critica – quando dico critica non intendo soltanto la schiera di coloro che recensiscono libri per mestiere, includo anche i vari gruppi di potere intellettuale – da principio mi definì un dilettante. Poi, siccome mi ostinavo a scrivere, ma ancor più mi ostinavo ad osteggiare i gruppi che manipolano i successi, dissero che ero pazzo e negli ultimi anni – cioè dopo la pubblicazione d’un libretto intitolato Modesta proposta per prevenire – anche fascista. Ora, io non sono fascista, ma non sono nemmeno antifascista. Sono venuto qui appunto per difendere il mio diritto di non esser perseguitato come fascista soltanto perché non voglio dichiararmi antifascista. Dico di non essere né fascista né antifascista. Allora, cosa sono? Da anni ormai io amo definirmi afascista, fascista con un’alfa privativa davanti. Lo faccio non per lo snobismo d’introdurre una parola nuova, ma perché questa parola, afascista, secondo me esprime qualcosa di nuovo, e cioè un’avversione al fascismo così intima e completa da non poter tollerare l’antifascismo, il quale, almeno così come viene praticato dagli intellettuali italiani, è terribilmente vicino al fascismo. Il fascismo, dicono, è autoritarismo violento, coercitivo, retorico, stupido. D’accordo: il fascismo è violento, coercitivo, retorico, stupido. Però, come lo vedo io, l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido.[8]

 

Non è possibile sapere come gli altri oratori accolsero queste parole, e in particolare Julius Evola, il quale, dopo essere stato una figura di punta della cultura fascista, ancora nel marzo del 1967 aveva potuto pubblicare su “Noi Europa”, l’organo ufficiale della organizzazione terroristica neofascista «Ordine Nuovo», una lunga lettera polemica rivolta ad Almirante per «un poco simpatico cedimento» da lui compiuto qualche tempo prima, quando nel corso di un dibattito televisivo il segretario del Movimento Sociale aveva preso le distanze del razzismo del regime mussoliniano. Retoricamente, però, la strategia di Berto era di straordinaria efficacia. Il proprio netto distanziamento dal ventennio (al limite della derisione) serviva infatti a preparare una condanna senza compromessi della nuova Italia democratica: che è ciò che veramente gli sta a cuore.

 

Esistono, in Italia, molti gruppi di potere intellettuale. Il più solido, preparato e importante, è quello che grosso modo si può definire radicale. Ma ce ne sono parecchi altri, per lo più alimentati dai partiti o dalle diverse correnti dei partiti. Se si escludono gli sparuti gruppi liberali o della destra nazionale, tutti gli altri sono collegati in nome di principi invalicabili: sono democratici, antifascisti e nati dalla Resistenza. In realtà ciò che li unisce è una comunità d’interessi che non è azzardato definire mafiosa, tendente all’acquisto, alla conservazione, all’esercizio del potere. È un potere enorme. La radiotelevisione italiana, che come si sa è un comodo monopolio, oltre che un comodo mezzo di sussistenza, è praticamente nelle loro mani. E nelle loro mani stanno quasi tutti i periodici che si levino al disopra dell’informazione cronachistica o scandalistica, e naturalmente i più grossi quotidiani, ivi compresi Il Corriere della Sera o La Stampa.

 

[…] Ora se si pensa che in mano a questi gruppi ci sono tutte, o quasi, le case editrici, ci stanno tutti, o quasi, i premi letterari, ci sono gli emolumenti e le facili prebende elargite dalla televisione italiana, allora si capisce che in questo nostro paese uno scrittore che voglia mantenersi libero ha la vita più dura di quanto la gente non sappia.[9]

 

L’analisi della cultura italiana proposta da Berto nel suo intervento è poco più della manifestazione di una mania di persecuzione che a quell’altezza lo tormentava ormai da oltre vent’anni e non merita di essere presa troppo sul serio (si pensi solo alla pioggia di riconoscimenti riservati a Il male oscuro, quasi un unicum nella storia letteraria del Novecento, o al gran numero di film tratti sin dall’inizio dai suoi romanzi, quando Berto lavorava come sceneggiatore per Cinecittà negli anni d’oro del neorealismo italiano). La sua invettiva contro i «gruppi di potere» egemoni aveva però tutte le caratteristiche per piacere a un’area politica che si sentiva marginalizzata e perseguitata, e che aveva fatto del vittimismo uno dei suoi tratti identitari (un aspetto, questo, che oggi caratterizza quotidianamente anche la comunicazione di Meloni e del suo governo). Soprattutto, Berto aveva intuito che, protetto dietro l’egida dell’«afascismo», era possibile condurre una battaglia più intransigente contro tutto ciò che la democrazia aveva rappresentato in Italia da trent’anni – con i suoi diritti, le sue libertà e i suoi ideali egualitari.

 

Il 1968 stava provocando un grande rimescolamento delle identità politiche, e lo stesso Armando Plebe era un filosofo marxista (professore di Estetica all’università di Palermo) che, in polemica contro il movimento studentesco, aveva consumato un’inverosimile svolta a destra e aveva finito per diventare presidente del Fronte Universitario d’Azione Nazionale, responsabile culturale del Movimento Sociale e, dal 1972, suo senatore. Nella nuova, imprevedibile situazione, anche per i nostalgici di Mussolini non era più il caso di trincerarsi nella difesa delle vecchie parole d’ordine; più utile poteva essere scagliarsi contro l’Italia presente da una finta posizione di terzietà, rivendicando un afascismo astrattamente ostile a tutte le ideologie passate e presenti, ma, nei fatti, impegnato in una guerra senza quartiere contro la democrazia[10].

 

Negli anni successivi la lezione di Berto avrebbe fatto scuola, al punto che mezzo secolo dopo offre una delle strategie retoriche più diffuse (e più efficaci) dell’estrema destra. Per verificarlo è sufficiente fare una rapida escursione on line. Oggi le pagine del web sono piene di siti che inneggiano alla lezione di Berto in materia di afascismo tra un post sugli effetti collaterali dei vaccini e un insulto agli immigrati di religione islamica o dall’incarnato troppo scuro. Ricordare ancora i misfatti di Mussolini serve solo a dare da mangiare a una cricca di professionisti della Resistenza! Basta con questo totem vuoto! Il passato è passato! Così, da qualche anno, ripete sulla rete una vox populi anonima ma sempre più numerosa. Ed è in questo particolare senso – l’afascismo come definitivo congedo dai valori dell’antifascismo della tradizione repubblicana non in nome di un rinnovato fascismo ma di un “diritto all’oblio” che con l’antifascismo travolge però l’intero progetto politico da cui è nata la repubblica italiana – che il termine sarà adoperato nelle prossime pagine.

 

Note

 

[1] Patricia Gaborik, Mussolini’s Theatre: Fascist Experiments in Art and Politics, Cambridge University Press, Cambridge 2021, p. 36.

[2] Merita di essere citato un giudizio di Mussolini sul comportamento di Luigi Pirandello, il quale, nel momento più difficile per il governo, giusto all’indomani del sequestro e dell’uccisione di Matteotti, aveva deciso di rendere pubblico il suo sostegno per il nascente regime prendendo la tessera del Partito Nazionale Fascista: «Egli fu – senza forse – il solo italiano decisosi, all’indomani della tragedia Matteotti, ad uscire dalla comoda tana dell’afascismo per dichiararsi vicino alla mia amarezza di capo di una rivoluzione pugnalata alla schiena. Quel gesto di solidarietà mi rafforzò nel volere che nulla della rivoluzione andasse perduto. Oggi capisco quanto fosse stata nel carattere del pensiero pirandelliano quella sua determinazione. Credevo – prima di allora – che Pirandello fosse il poeta dell’indecisione. E invece questo mio amico eminente è il poeta della certezza, colui che ci toglie dall’indecisione dimostrando quanto sia inutile analizzare quel che è certo; e quanto sia necessario non occuparsi dell’ombra, della nebbia, della palude, se, di là, splendono cielo, mare, sole della vita» (Yvon de Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di Francesco Perfetti, prefazione di Renzo De Felice, il Mulino, Bologna 1990, p. 346).

[3] Giovanni Gentile, L’istituto Nazionale di Cultura Fascista, in “Civiltà Fascista”, dicembre 1936, pp. 769-74.

[4] Paolo Orano, Il dovere degli intellettuali, in “Il Carroccio. Rivista di cultura, difesa e propaganda in America”, luglio 1928, pp. 132-34. Tra i tanti altri esempi possibili si veda, per la sua violenza e le sue insinuazioni omofobe, Guglielmo Casetti, Diritto di critica, in “Costruire. Rivista mensile fascista”, novembre 1927, pp. 12-15: «Gli afascisti esistono in quanto genere neutro. Come volete che chi non è né carne né pesce, né demonio né acqua santa, possa virilmente parlare, giudicare, discriminare, o che sia! Il genere neutro – non è chi non vegga – è l’incompiutezza eunucoide, dalla quale l’Italia dell’anno V, grazie a Mussolini si è sbarazzata come di un peso morto. Che esso vivacchi e campi vegetando può ammettersi: non può ammettersi che interloquisca e ci disturbi coi suoi falsetti di contralto».

[5] Nel dopoguerra il termine non scomparve del tutto, anche se venne adoperato soprattutto per descrivere – in sede memorialistica – l’atteggiamento di quanti non avevano aderito al regime, pur non contrastandolo in forme attive. Eugenio Montale parla per esempio di «afascisti» nel saggio Il fascismo e la letteratura, originato da conversazione tenuta il 15 marzo 1945 a Radio Firenze, e poi stampato su “Il Mondo” il 7 aprile 1945 (lo si legge ora in Id., Autodafé, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 20-25). Analogamente, in un’intervista a Raffaele Crovi del 1953 (ma pubblicata solo molto più tardi), anche Elio Vittorini raccontò che «tra i miei amici […] erano antifascisti, o forse è meglio dire afascisti, Giansiro Ferrata ed Eugenio Montale. Li ha salvati la loro ironia laica o forse anche un distacco ideologico» (Raffaele Crovi, Il lungo viaggio di Vittorini: una biografia critica, Marsilio, Venezia 1988, p. 168).

[6] Giuseppe Berto, Prefazione (1974), in Id., Il brigante (1951), postfazione di Gabriele Pedullà, Neri Pozza, Vicenza 2022, p. 242.

[7] È significativo che persino in Guerra in camicia nera Berto manifesti una posizione ambigua davanti ai crimini delle guerre di aggressione del regime, sostanzialmente insistendo sulle responsabilità di tutti gli italiani per ridimensionare le proprie (in quanto entusiasta sostenitore del fascismo assai più implicato  nella avventure colonia «dell’italiano medio»), secondo quella che, in fin dei conti, si rivela un’abile «strategia autoassolutoria»: Guido Bartolini, La letteratura della guerra dell’Asse. Memoria italiana, autoassoluzione, responsabilità (1945-1974), (2021), Carocci, Roma 2024, p. 216.

[8] Giuseppe Berto, Fascismo, antifascismo, afascismo, in AAVV, Intellettuali per la libertà. Atti del primo congresso internazionale per la difesa della cultura, Centro Italiano Documentazione Azione Studi, Torino 1973, pp 89-92.

[9] Ibidem.

[10] L’intervento di Berto ebbe subito ampio risalto grazie alla stampa di destra (come “Il Borghese”), contribuendo a rilanciare il termine anche a sinistra. Per esempio, nel numero di aprile-giugno 1975 un editoriale della rivista “Italia Contemporanea” accusò per esempio di «afascismo» lo storico, e biografo di Mussolini, Renzo De Felice. Negli anni successivi il vocabolo è stato impiegato prevalentemente dagli storici per descrivere alcuni settori della società o categorie professionali che subirono passivamente il regime: i cattolici, i militari, la pubblica amministrazione, ecc.

2 thoughts on “Democrazia afascista

  1. Il libro di Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati, autori colti, presenta motivi di interesse e di stimolo sul piano della discussione, ma le dottrine politiche che propone sono negative, da respingere. Concordo con la stroncatura che ne ha dato Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera» di sabato 25 maggio 2024 alle pp. 36-37. I due autori sono da collocare nel filone della democrazia giacobina, cioè falsa democrazia e autentico autoritarismo mascherato. Il principale teorico ne fu Jean-Jacques Rousseau che, fra l’altro, sosteneva la contrapposizione fra «volontà generale» e «volontà di tutti». La prima rappresenterebbe le giuste posizioni, che, in certi tornanti della storia, possono essere sostenute magari da una piccola minoranza. La seconda corrisponde alla maggioranza numerica, che non sempre è dalla parte giusta. Ciò legittimava le minoranze illuminate a fare la rivoluzione e imporre i loro «lumi» alle maggioranze non illuminate, corrotte e deviate. Ne venne fuori il giacobinismo rivoluzionario e il Terrore, le teorie della «dittatura popolare», e anche il Bonapartismo. L’estrema deriva a sinistra di questa «democrazia» antidemocratica è il marxismo con la dittatura del proletariato e il bolscevismo con il totalitarismo in nome del proletariato, classe «generale» che ha sempre ragione, anche quando è in minoranza e tiene il potere con la violenza. L’estrema deriva a destra è il fascismo e il nazismo. Le analogie fra il totalitarismo di sinistra e quello di destra sono troppe per poterle negare. Su questa scia, in gran parte taciuta per concentrarsi su polemiche più vicine nel tempo, i due autori in sostanza legittimano la sinistra come forza antifascista e costituzionale e delegittimano il centro e la destra come afascisti e/o fascisti, per cui dovrebbero stare fuori dal governo, anche quando hanno i voti della maggioranza popolare, perché delegittimati per principio costituzionale. Ma questo illuminismo farlocco e truffatore non ha mai funzionato bene, non è mai stato davvero democratico e ha sempre costruito, dove ha vinto, regimi autocratici. Non è davvero, a mio parere, illuminato, ma acciecato dal fanatismo ideologico.
    Io ho alle spalle una militanza di sinistra, ma ho sempre diffidato della sinistra giacobina. Non si può dimenticare che in tutti i regimi autocratici, sia di sinistra sia di destra, i socialisti libertari sono stati ammazzati perché dissidenti dai metodi antidemocratici. Nella Russia degli anni Venti socialisti e anarchici hanno coniato la categoria del «fascismo rosso» e hanno definito Lenin il Duce del fascismo rosso. A Giorgia Meloni si chiede, giustamente, di dichiararsi antifascista. Ma ai suoi avversari perché non si chiede di dichiararsi anti bolscevichi, anti leninisti, anti stalinisti, anti castristi ecc. ecc. visto che questi regimi sovietici e sovietizzanti hanno fatto più male ai loro rispettivi popoli del fascismo italiano? Perché un noto partito della sinistra comunista ha la foto di Lenin nella tessera? Di Lenin, un megacriminale, senza un briciolo di empatia umana, responsabile dell’assassinio di decine di milioni di cittadini, compresi socialisti, anarchici e comunisti, operai, contadini e marinai che non la pensavano come lui.
    Credo che il libro di Pedullà e Urbinati, per il lettore critico, sia dopotutto un incentivo a diffidare di questa sinistra presuntuosa e antidemocratica, che disprezza gli elettori che non votano secondo il loro desiderio. Una sinistra che sostituisce il fanatismo ideologico al pragmatismo dei programmi e che quando è al governo combina disastri. Milano è da quattordici anni governata dalla sinistra ed è diventata una città impossibile, desertificata, insicura. Il circuito internazionale e mondialista (finanza, moda ecc.), che non coinvolge più del 10% della popolazione, ha fatto passi avanti, ma tutto il resto è un disastro.
    Come ha detto e scritto Luca Ricolfi, la sinistra è diventata la destra ed ha lasciato temi tipici della sinistra nelle mani della destra. Ad esempio, perché l’ottusa e conservatrice opposizione contro l’autonomia differenziata delle regioni? Il centralismo statale: tipico cavallo di battaglia del fascismo ora è rappresentato da Elly Schlein e compagnia bella. Si teme lo squadrismo fascista, di cui negli ultimi vent’anni abbiamo avuto rare manifestazioni, ma si accarezza lo squadrismo rosso, antidemocratico e antisemita, che vuol decidere con la violenza chi ha diritto di parlare e chi no, di cui abbiamo quotidiane manifestazioni.
    Pedullà e Urbinati sembrano dei marziani al di fuori delle problematiche terrestri. Costruiscono percorsi storici e teorici largamente fasulli, manipolati e falsificati, e sfuggono a una vera analisi scientifica della realtà sociale e politica. Si tratta di abile propaganda a uso di ceti accademici e intellettuali della sinistra delle cosiddette zone a traffico limitata.

  2. Chi decide d’indossare il manto luminoso dell’antifascismo, deve sapere che questo manto è stato indossato prima di lui, in un’epoca in poi cosi’ remota, da schiere di altri italiani passati disinvoltamente all’antifascismo dopo essere stati fascisti. Senza tener conto di questo latente “fascismo degli antifascisti” nessuno potrà prendere in parola gli autoproclamati “antifascisti” di oggi basandosi sui loro discorsi accettati come oro colato emanante dalla bocca della verità.
    Mi limitero’ ad evidenziare tra i fascisti, dipinti tutti come degli abbrutiti, personaggi di una certa levatura come Luigi Pirandello, Luigi Barzini padre, Giovanni Volpe… Ma sarebbero soprattutto da ricordare i tanti fascisti eccellenti che divennero in seguito antifascisti come Giulio Andreotti, Giovanni Spadolini, Amintore Fanfani, il giovane Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Michelangelo Antonioni, Luciano Salce, Renato Guttuso, Luigi Comencini, Elio Vittorini, Malaparte, Ungaretti lo stesso Enrico Mattei. Quest’ultimo, se non altro, ebbe modo nel dopoguerra di criticare « il sottofondo fascista e parafascista, che sonnecchia, inconsapevolmente nell’animo di molti italiani » antifascisti inclusi.

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