di Pietro Pascarelli

 

Kedi, la città dei gatti  (Turchia/USA 2016), è un film documentario diretto da Ceyda Torun, giovane regista turca trapiantata in USA, centrato sulla meravigliosa convivenza fra uomo e gatto che ha luogo dai tempi dei tempi a Istanbul. Il film, realizzato con delicata sensibilità e forza di pensiero, trasmette serenità, e mostra un modo di fare cinema che è anche una scuola inedita di cultura filosofica, antropologica e psicologica. A salire in cattedra non sono tanto gli umani, uomini e donne pur ricchi di saggezza, di cuore e fantasia, che ne sono protagonisti minori. A insegnare sono i gatti, esseri distaccati e preziosi in quanto porte aperte su un mondo a noi sconosciuto, imprescindibili per imparare a immaginare un rapporto con ciò che è diverso, estraneo, ignoto, e che ovviamente comprende noi stessi e i nostri simili alla prova dell’attesa, del legame, della lealtà, dell’alternarsi di presenza e assenza, della mancanza, della stanchezza dei corpi, dell’affermarsi della differenza o della somiglianza, oltre che dell’identificazione, come matrice di un’alterità partecipe di una comunità vivente amica del nuovo e non accanita in pericolose difese identitarie e speciste. Dice della sua esperienza una ragazza di Istanbul, che ama accarezzare i gatti perché da questa azione trae sicurezza: «Anche se non parliamo la stessa lingua, creiamo subito una lingua comune. Penso che avere un rapporto coi gatti sia come fare amicizia con gli alieni. Entri in contatto con una forma di vita molto diversa. Ti metti in comunicazione con l’altro, e inizi un dialogo. Sono molto distanti da noi, molto diversi. Sotto l’aspetto fisico, mentale e di capacità sono molto diversi. Tuttavia, possiamo stabilire un rapporto con loro». Si tratta di abbandonare un atteggiamento antropocentrico e di vedere la profondità nel suo rovescio, il mistero generale custodito nell’inquietudine dei corpi nella superficie che a noi si rivolge dei volti, degli occhi degli animali, con Jacques Derrida accettando di poter immaginare che esista la possibilità che gli animali non solo possano reagire, ma anche rispondere a qualcosa. Noi umani ci arroghiamo per definizione questa capacità, ma il nostro grado di libertà psichica è affidato alla riuscita del nostro compito di ampliare il repertorio di risposte a nostra disposizione, virtualmente infinito, ma limitato dalla stereotipia delle modalità apprese, dalla coazione a ripetere. Nel contempo il film ci mostra anche con le sue immagini-tempo,  come vedremo, una condizione dei personaggi, pure umani, in cui qualunque risposta è impossibile, e che apre a uno stato di totale abbandono di fronte a quanto offre il reale. Il film, definito documentario, eccede in realtà il cinema-verità, e si apre a un’interpretazione surrealista, all’influsso della mente soggettiva, all’inconscio. Esso ci mette di fronte a un unicum ambientale, estetico, concettuale, da cui si forma, oltre a un’esperienza che cambia la vita di chi vi partecipa, anche una macchina per pensare. Situandoci su una piattaforma filosofica deleuziana di riflessione sul cinema, sembra di poter vedere qui impiegata un’alternanza ponderata di immagine-movimento (o immagine-azione) e di immagine-tempo, la quale ultima mi sembra rilevante per l’intensità dei suoi contributi, che segnano una vicinanza alla lezione che va dai maestri del neorealismo italiano in poi, e una distanza dal nichilismo postmoderno, nella ricerca di nuove piste di ricerca tese a cogliere un reale indecifrato, non più rappresentato, e le vie e le vicissitudini dall’essere in questo cimento. Essa sospende, intercala la narrazione basata sui nessi senso-motori legati all’immagine-movimento, che pure è tuttavia ben attiva, senza prevalere,  per mettere in primo piano le differenziate soggettività, umane e feline, che interagiscono nella galleria  delle immagini-tempo, in una prospettiva da Gilles Deleuze definita di cinema del vedente, che sostituisce quella del cinema d’azione, e che Jean-Luc Nancy, nel suo scritto dal titolo E la vita continua sul cinema di Abbas Kiarostami, invece definisce cinema “dello sguardo”, per sottolineare non un’affermarsi del potere della visione, ma il particolare riguardo, la cura nella ricognizione del reale. E dunque la segreta esperienza da parte di ciascuno di un reale slegato dalla realtà in un contesto improvvisamente desertico in cui ciascuno a un certo punto è solo. Come documentano gli innumerevoli primi piani e piani sequenza in cui il gatto si staglia nei vari contesti metropolitani, con particolare rilievo dato agli occhi, che fanno da contrappunto alle scene d’azione o in cui il gatto interagisce, in corsa, nel gioco, o nell’immobilità, con gli umani, o compete coi rivali per il controllo del territorio, o semplicemente contempla il paesaggio urbano. In questo cinema sfuma la differenza fra soggetto e oggetto, come quella fra spettatore e protagonisti e in questo campo di indiscernibilità scompare anche la differenza fra ciò che esiste sul piano materiale e ciò che esiste solo su piano mentale. Sullo sfondo la rielaborazione surrealistica, onirica, da parte di noi umani se non dei gatti, delle immagini riprese, in cui sembra di poter cogliere, nell’energia vitale incessante e nel riproporsi tenace di audaci iniziative,  anche quella speciale concezione dell’essere, che è ciò che ha continuazione, anche come discontinuità che non interrompe il continuum della vita, in cui si dispone e da cui pure è indipendente. Nelle parole di Jean-Luc Nancy «…questa continuazione -che non è semplicemente una continuità- non è altra cosa rispetto all’essere stesso. L’essere non è qualcosa: è ciò che continua. È ciò che continua non al di là o al di qua dei momenti, degli eventi, delle singolarità e degli individui che sono discontinui, ma in maniera più strana: nella discontinuità stessa, e senza fonderla in un continuum. Questo continua a discontinuare, questo discontinua continuamente. Come le immagini del film».

 

Sullo sfondo delle immensità del cielo e del mare di Istanbul, nel cuore pulsante della capitale di questo sogno, nell’azzurro indistintamente permeato da case variegate (macchie brune, candide e rosse di muri, coppi e tegole) e dalle superfici delle cupole grigie e dagli slanci bianchi od ocra e verticali dei minareti, da millenni moltitudini di gatti, elemento unico di persistenza in un contesto urbano in cambiamento, sono qui insediati su piani e architettoniche alture, sui macigni sdrucciolevoli dei moli o nelle vie buie e umide, unte e labirintiche dei mercati, nei giardini e nelle rive di terreno scampate all’asfalto in cui scavano per deporvi le loro deiezioni, o arrampicati su rami nodosi e fronzuti di giovani alberi, come pure sui tetti, sui parquet lucidi di negozi e abitazioni, nei condotti sotterranei delle fogne in cui danno la caccia ai topi, sui davanzali e cornicioni dei palazzi, in squarci di metropoli aperti come ferite che mostrano comignoli diroccati, lamiere sconnesse e deformate, lunghe file di panni stesi ad asciugare, vegetazione rigogliosa a oltranza in siti impensati, tendaggi polverosi e sbiaditi sui cui i gatti si distendono per la siesta soprelevata sulla testa dei mercanti e degli avventori dei bar sottostanti, quando non sfilano sotto i tavoli e fra le gambe degli avventori o protesi su di esse verso l’alto con le zampe che raspano chiedendo cibo: sono, si dice, milioni di gatti di ogni specie e colore, nativi o giunti qui spesso anche sulle navi dalla Norvegia e da ogni altro angolo della terra, che vigilano sulla città e le sorti nel tempo sue e dei suoi abitanti, irrompono nelle loro vite o nella inconsapevolezza dei beneficati le contornano e, come fanno le opere d’arte e le meraviglie naturali, apportano la bellezza e un che di misterioso e salvifico, facendo da ponte fra la terra e il cielo. I gatti sono piccoli eroi di cui si tramandano le gesta. Cito i nomi di quelli che fra centinaia il film elegge come personaggi principali: Begün, Deniz, Ginger, Bombis, Sari, Gansiz, Aslan Pasçasi, Duman, Psikopat (sic!). C’è il il temerario che cerca il dominio del territorio, quello che sfida anche i cani più feroci, il tipo aristocratico che dovette cercarsi un nuovo territorio, perché scacciato da qualche altra parte, e che arrivò “lamentandosi a gran voce”, l’altro che arrivò da un suo immediato santo protettore mogio e ferito dopo l’assalto di un cane. Una donna sfoglia album di fotografie dei suoi gatti, ricorda quelli che dopo cure veterinarie  vestiva perché non si leccassero le ferite chirurgiche. Splendidi, eleganti, fieri o feriti, sono in primo piano i corpi come organo della memoria vivente, e i gatti ci mostrano ciò che il loro corpo non pensante ha attraversato, e dunque, come osserva Deleuze, “con il corpo (e non tramite il corpo) il cinema espone lo spirito, il pensiero. [..] Il corpo non è mai al presente, contiene il prima e il dopo, la stanchezza, l’attesa…e persino la disperazione”.

 

Vi è un’integrazione totale e irreversibile che è ormai iconica della città, che senza i suoi gatti -che la città moderna con i grattacieli e le grandi strade, come teme la gente, può cacciare o decimare- come dicono qui “perderebbe un pezzo della sua anima” e non sarebbe più quella che è da millenni: caos di colori e di vita brulicante, tripudio universale e ricca tristezza cosmica meditativa che intesse il piacere di vivere e i piaceri della vita secondo linee che tracciano il dubbio e la domanda su di sé; labirinto di traffici e commerci sontuosi o minuti per l’estasi dell’anima e la gioia del corpo, di relazioni e soccorsi che se anche consistono solo in un po’ di cibo e calore sono sempre interventi efficaci sullo spirito, come la musica sottile e carnale della colonna sonora, musica per lo più locale, che esce sinuosa da ogni anfratto, abita ogni casa o negozio, accompagna le emozioni – tante – che il film sa dare, o vola sulle distese dei bar e sul mare, percorre discese e scale, tortuosi itinerari in luoghi pieni di gente, accompagnando le immagini delle videocamere – immagino piccole e manuali –  che talora filano, seguendoli, alla velocità dei gatti, nello spettacolo del mondo. Di questo mondo colorato e picaresco in cui, come in un film di Fellini – osserva Deleuze –  tutto si fa spettacolo e tutti, spettatore compreso,  sono protagonisti. Si costruisce una specie di rete, o di nebulosa di rapporti, di contatti più o meno chiari e fantastici, di gioie implicite e nascoste o ineffabili, preziosi perché fanno gioire e vivere anziché morire. E promuovono anzichè spegnere la libertà di sentire e pensare nella dolcezza di un discreta sicurezza e comunicazione, nel senso di comunione vivente fra viventi, che vince la penuria, la solitudine, la disperazione, la debolezza del singolo isolato e il tedio dell’uomo perso fra le case o nelle sue sterili ossessioni. Vive qui una comunità che vede un pescatore farsi madre dolce che nutre col biberon una nidiata di gattini lasciati vicino alla sua barca per la buona fama di amico dei gatti di cui gode. La sua devozione ai gatti si inscrive in una storia semplice, che narra mentre accudisce i piccoli. Quindici anni prima, trovandosi un giorno dopo un naufragio sull’orlo della rovina, incontrò un gatto che a furia di insistere riuscì a farsi seguire fino a fargli trovare, in un prodigio che riecheggia vagamente quello del santo bevitore del racconto di Joseph Roth, un portafogli abbandonato che aperto dopo molte esitazioni si rivelò contenere esattamente la somma occorrente per salvarsi e riprendere la sua attività. I gatti, che evidentemente saturano col loro mistero un bisogno di rapporto con un oltre rispetto all’esperienza comune, si presentano in questo film nella loro modesta e superba grazia, nella levità di fuga del contatto con la terra, nell’inquietudine, nel modo in cui adombrano con la loro immagine una complessità retrostante infinita. «Nuziale sultano del cielo,/delle tegole erotiche,/ il vento dell’amore/all’aria aperta/reclami/quando passi/ e posi/ quattro piedi delicati/ sul suolo,/ fiutando,/diffidando/di ogni cosa terrestre,/perché tutto è immondo /per l’immacolato piede del gatto», scrive Neruda. E tuttavia nel loro assoluto egocentrismo, li vediamo nel film ripetutamente appostati come anacoreti su tetti, alberi, finestre, sporti sul ciglio di precipizi, acquattati su un comignolo o su un gradino, tesi e assorti totalmente in avventure nuove e assalti predatori, o viceversa in completo abbandono alla malia delle carezze di cui gli uomini sono prodighi nei loro confronti, offrendole a ciascuno nella giusta e individualizzata intensità, e tenendo conto di predilezioni e gelosie, essi diventano – strappando il velo dell’apparente banalità  di una qualsiasi ora –  un inno che esorta ciascuno a trovare un proprio posto nel cosmo, a esprimersi, ad accogliere come sacro ogni attimo, ogni sorso d’acqua o d’aria. In un’atmosfera magica o mistica, o nell’aura che circonfonde una sapienzialità senza tempo, in cui fluttuano i personaggi, si collocano le risposte emozionali e le considerazioni degli umani, tutte ispirate alla cura dei gatti che sembra  risultato prezioso di una filosofica cura di sé nel mondo. Vi è chi studia i gatti forse per trovare una chiave interpretativa di sé e di chi gli sta a cuore, vi è chi vede nel rapporto un’occasione di armonia e pace universale, e appronta ciotole d’acqua per cani e gatti, che non possono volare via come gli uccelli, e di cui siamo noi uomini a doverci preoccupare, perché in un’altra vita non abbiamo a disperarci per un sorso d’acqua. Una commessa legge la tenacia e la determinazione del gatto con cui si confronta ogni giorno, nella ricerca forse di una ridefinizione e di un rafforzamento di sé e delle sue prerogative soggettive, o forse rimirando nel gatto come specchio le qualità che ella sogna per un suo amante. Vi è chi parlando dei gatti, come una signora in giro per un mercato, trova lo spunto per esercitare, proiettando, un’ impietosa critica sui comportamenti dell’umanità a lei prossima. Vi è chi spende la vita per dar loro da mangiare, come una donna cui uno psicologo ha suggerito che ciò corrisponde forse a un curare se stessa. Vi è chi, interpretando benevolmente il suo distacco attraverso le credenze del gatto sull’uomo, si spinge su un piano complesso e generale: «Si dice che i gatti siano consapevoli dell’esistenza di Dio, ma i cani no. I cani credono che noi siamo Dio, ma i gatti no. I gatti sanno che siamo intermediari della volontà di Dio. Non sono ingrati, sanno solo come stanno le cose». Una donna dice dispiaciuta ma per un altro verso rinfrancata che le donne sembrano aver perso oggi la loro eleganza e flessuosità nei movimenti, ma che a esprimere qualcosa di simile c’è ancora, e forse solo, il gatto.

 

Sguardo fermo, baffi vibratili, stile ed eleganza sempre reinventati, questi piccoli simpatici animali di superba bellezza sono capaci di permanere in uno stato di finissimo caldo tremore, di tenere una zampa in tensione in una sorta di delicata sospesa vibrazione che è metafora del pensiero sovrano, dice di grande concentrazione, o forse prelude all’azione fulminea. I loro gesti sono misurati, raffinatamente elaborati istante per istante in un gioco che conquista e inquieta perché rinvia a un potere e a principi vitali arcani e sconosciuti agli umani. I loro occhi scrutano e attraggono, per congiungersi senza scomporsi, come specchi incapaci tuttavia di reale indifferenza con quelli di chi li incontra, li vede, li osserva. I gatti, presenze in corpo e ineffabile spirito, enigmatici come baudeleriane sfingi, non si sa se figli più della terra o dell’aria, da sempre ammaliano chiunque li guardi e li avvicini. Impenetrabili, insieme impulsivi e scattanti quanto imperturbabili e riflessivi, si lasciano percorrere da onde di energia che visibilmente ne addolcisce o arruffa il pelo morbido, ne plasma e intaglia i lineamenti e la mimica del corpo, ne fa l’occhio più acuto e profondo. Inconsapevoli della loro nudità, perciò sottratti ai sentimenti umani di vergogna e mancanza, come osserva Derrida,  ed esponenti di una completa alterità rispetto a noi umani, i gatti risplendono nella loro fisicità, nel trionfo delle loro immagini nel film.  Kedi diventa così anche un film allucinatorio alla Godard, come potrebbe dire Deleuze.

 

E inoltre – dettaglio non trascurabile a parere mio – i gatti, spesso cercati teneramente e gioiosamente dai bambini, non sono con loro meno imparziali che con gli adulti: attenti, cordiali, restituiscono dignità a dignità, e non compensano con minor prezzo di partecipazione l’interlocutore, che è anch’egli come lui stesso – questo siamo indotti a pensare –  un messo celeste.

 

Nella visione di Jorge Luis Borges del gatto «Non sono più silenziosi gli specchi/né più furtiva è l’alba avventurosa;/ …/…/Per opera indecifrabile di un decreto/divino ti cerchiamo vanamente/; più remoto del Gange e del Ponente/tua è la solitudine, tuo il segreto».  Fuori dal tempo, appartenendo a più mondi, fra cui si sposta attraverso porte di comunicazione invisibili, ogni gatto reclama una dimensione metafisica, e anzi rappresenta, in forma di essere vivente, con una torsione maggiore nella dimensione dell’essere, lo stesso segreto potere racchiuso in un oggetto inanimato, in qualche modo come la carriola rossa protagonista della poesia di William Carlos Williams: «So much depends/upon/a red wheel/barrow/glazed with rain/water/beside the white/chickens (Tanto dipende/da una carriola rossa/ spruzzata di pioggia/accanto alle galline bianche)». Il gatto vive il suo essere gatto in totale e felice pienezza, come osserva Pablo Neruda nella sua Ode al gatto, e appare totalmente coerente nella sua immagine, ancorché inconsapevole, con la vertigine di astrazione in cui vortica nella sua immobilità a volte statuaria. Il gatto, nel divenire e sulla scena del mondo, nel fluire dell’essere, e nel continuo riproporsi dell’origine, può essere inteso come la parola, di cui Jabès dice: «Altro non è una parola, se non una via;  non segno, non senso, ma quello svelamento che porta il silenzio, fedelmente custodito, a tornare finalmente udibile». Inoltre i gatti, forma simbolica di vita oltre la vita, sono forse un’assai congrua dimostrazione della verità dell’osservazione di Hugo von Hoffmansthal, che pensa gli animali come il geroglifico con cui Dio vuol significare sulla terra cose che nessuna parola o lingua potrebbe mai rappresentare.  Il gatto. potremmo anche dire, scrive sulla terra un segno divino, è nostro compito saperlo decifrare, in un lavoro di divinazione che ci riporta a Foucault.

 

Gli uomini di Istanbul, la gente che viene intervistata nel film che narra di questa meravigliosa presenza felina in così vasto regno, dicono che i gatti sono capaci di attrarre e rielaborare le energie negative, e perciò oltre ad ammirarli e proteggerli li amano e li coccolano in tutti i modi. Ad esempio tassando i loro guadagni anche in partenza alquanto magri per dar loro assistenza veterinaria, cibo, accoglienza. Gli stessi veterinari, e tutti gli altri, dai bambini ai negozianti, ai pescatori, ai venditori nei diversi banchi dei mercati, facilitano in ogni modo questo accudimento, attraverso conti aperti e prezzi bassi, offerte spontanee di cibo e ospitalità, ma soprattutto dando la propria affettuosa disponibilità a un rapporto esteso ai vari ambiti della quotidianità, e profondo, che si installa nel tempo e nel cuore, ed è un riferimento stabile per la vita soggettiva di uomini e gatti, che scandisce la vita psicosociale dell’immensa metropoli. Si instaura una relazione di completa libertà e indipendenza reciproca. I gatti non hanno padroni, non hanno casa unica ma diffusa, e perciò non sono randagi, godono di accoglienza libera. Uomini e donne, i bambini, modulano l’attaccamento, l’affetto, il dialogo che per loro è vitale con l’animale, in questa prospettiva di libertà, in cui non c’è né ci sarà dominazione. Tale relazione, come vediamo nel film, si afferma e mostra anche come dottrina, insegnamento diretto e reciproco in cui si accetta però, sfruttando così al meglio una singolare opportunità di conoscenza, che sia più spesso il gatto a insegnare. Partendo da quella che appare come una loro innata inclinazione alla contemplazione filosofica delle cose e della vita, e da una sensibilità spontanea alle onde emozionali e di significazione che increspano ogni momento e il fare più umile e consueto, i protagonisti umani di questa complessa avventura accedono a una realtà superiore e insondata, dove la prossimità di uomini e gatti assume accenti artistici, e si fa poesia. Rivelandosi nel film anche fini osservatori e pensatori creativi, uomini e donne della metropoli, la quale è di per sé epicentro di pensiero nuovo dalla antica scaturigine, fanno diventare la loro convivenza con questi piccoli e fascinosi animali un mondo di scoperte, di modi per sostenere grazie al suo influsso salutare l’impatto del reale e riflettere su di esso. Non si tratta di una sistematica indagine sul comportamento animale, o umano, e neanche solo di una meditazione sugli aspetti minuti e le implicazioni concrete della loro convivenza nella vita sul territorio, ma di qualcosa di più, di una ricerca sul significato stesso della relazione fra viventi, e dei viventi col mondo inanimato e la natura: spazi, prati, giardini, orti, tessuto urbano, mare, disponibilità di risorse e ripari, di ciò che serve -non solo pane- per vivere il tempo e la mancanza. Si fa luce sulla peculiarità della nostra sensibilità umana, sulle nostre modalità e possibilità su questo pianeta. Della scienza si mostra qui –en passant–  non solo la capacità di cogliere differenze, ricorrenze e connessioni, ma anche il fatto che essa condivide con la scoperta artistica la stessa fede, la stessa gioiosa nietzscheana energia e vitale irrazionalità, uno stesso prodigioso pensiero.

 

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La poesia di Jorge Luis Borges A un gatto, traduzione italiana di J. Rodolfo Wilcock e Livio Bocchi Wilcock, compare in L’oro delle tigri (Milano 1974) Rizzoli.

La poesia Ode al gatto, di Pablo Neruda, traduzione italiana di Roberto Paoli, compare in Pablo Neruda Poesie (1924-1964), (Milano 1996) Rizzoli.

La poesia La carriola rossa di Willam Carlos Williams, qui in traduzione italiana mia, compare in The red wheelbarrows and other poems, New Directions Publishing Corporation, 2018.

Le citazioni di Gilles Deleuze (1985) sono tratte da L’immagine-tempo, Cinema 2, (Torino 2017) Piccola Biblioteca Einaudi.

Le citazioni di Jacques Derrida sono tratte da L’animale che dunque sono, (tr. it. Di M. Zannini) (Milano 2014) Jaca Book.

Le citazioni di Hugo von Hofmannsthal sono tratte da Il dialogo su poesie, in Lettera di Lord Chandos e altri scritti, (a cura di M. Rispoli) (Venezia 2023) Marsilio.

Le citazioni di Edmond Jabès (1976) sono tratte da Il libro delle somiglianze. «Il libro è luogo di somiglianza di ogni libro», tr. it. e cura di Alberto Folin (Bergamo 2011) Moretti&Vitali.

Le citazioni di Jean-Luc Nancy (2001) sono tratte da Abbas Kiarostami. L’evidenza del film (a cura di A. Cariolato) (Roma 2004) Donzelli.

2 thoughts on “Geroglifici di Dio. Kedi, la città dei gatti (Turchia/USA 2016) di Ceyda Torun

  1. CINEMA, TEATRO, E ANTROPOLOGIA CULTURALE E FILOSOFICA:
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    I “GEROGLIFICI” DI DIO”, “KEDI – LA CITTA’ DEI GATTI”, L’ENIGMA DELLA “TRAPPOLA PER TOPI” DELL’ AMLETO DI SHAKESPEARE, E LA “MADONNA DELLA GATTA” DI FEDERICO BAROCCI.,,
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    SE è vero, come è vero, che “Kedi, la città dei gatti (Turchia/USA 2016), è un film documentario diretto da Ceyda Torun, giovane regista turca trapiantata in USA, centrato sulla meravigliosa convivenza fra uomo e gatto che ha luogo dai tempi dei tempi a Istanbul”, e, ancora, che “Il film, realizzato con delicata sensibilità e forza di pensiero, trasmette serenità, e mostra un modo di fare cinema che è anche una scuola inedita di cultura filosofica, antropologica e psicologica”, forse, è più che opportuno allargare l’orizzonte della riflessione e della coscienza e cercare di capire quando a “salire in cattedra”, a “insegnare sono i gatti”! Il film, definito documentario, “ci mette di fronte a un unicum ambientale, estetico, concettuale, da cui si forma, oltre a un’esperienza che cambia la vita di chi vi partecipa, anche una macchina per pensare” (Pietro Pascarelli, cit. – sopra ).
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    RICORDANDO, come fa nella sua recensione Francesca Ferri (“La dichiarazione d’amore della regista turca ai gatti della sua Istanbul”: https://www.mymovies.it/film/2016/kedi/ ) che, “divinizzati dagli antichi egizi, i gatti sono notoriamente amati dai musulmani da quando il profeta #Maometto fu salvato da una #gatta soriana, che lo protesse da un serpente”, e che, attraverso “lo sguardo dei sacri felini, dunque, Ceyda Torun ci lascia ammirare la città da un’altra prospettiva, mostrandoci gli angoli più nascosti, gli scorci dimenticati, i nascondigli segreti”; e, ancora,
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    CONSIDERANDO CHE LA CITTA’ DEI GATTI è la città di Istanbul e , a ben pensare, che la stessa Città non risulta essere un città definibile come una “trappola per topi”, forse, è ora e tempo di chiarirsi le idee sulla famosa “Mousetrap” dell’Amleto di Shakespeare, e, con l’aiuto dei gatti, venire a capo del gioco che si fa nello “stato di Danimarca” (ormai planetario).
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    “RIEPILOGANDO” IN BREVE LA “STORIA”: LA (PRIMA “TRAPPOLA PER TOPI” (IL RE AMLETO E LA REGINA GERTRUDE) E’ QUELLA REALIZZATA DAL “SERPENTE” (IL FRATELLO DEL RE, CLAUDIO)”, CHE HA UCCISO IL RE ED E’ DIVENTATO IL “NUOVO” RE E IL “NUOVO” SPOSO DELLA STESSA REGINA GERTRUDE; LA (SECONDA) “TRAPPOLA PER TOPI” (PER SMASCHERARE L’ASSASSINO) E’ LA #PANTOMIMA FATTA RAPPRESENTARE (A “ONORE” DEL NUOVO “RE”, DAL PRINCIPE AMLETO, CHE CON LA #TESTA SOPRA IL #GREMBO DI OFELIA “RECITANO” INSIEME NEL “LORO” SPETTACOLO DELLO “SPETTACOLO”. Breve sintesi dal testo dell’ “Amleto”:
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    “Entrano due attori, uno vestito da re, l’altro da regina: lei s’inginocchia a lui, come a dimostrargli la sua devozione. Lui si pone a giacere su un’aiuola fiorita, e s’addormenta. Ella, vedendolo addormentato, s’allontana. Subito dopo entra un altro attore-uomo, toglie dal capo del re che dorme la corona, la bacia, versa da una fiala del liquido nell’orecchio del dormiente, e se ne va. Rientra la regina, vede il re morto, fa gesti di disperazione. L’avvelenatore, accompagnato da altri quattro, rientra, si avvicina alla regina, mostra di condividere il suo cordoglio. Il corpo del re morto è portato via dai quattro. L’avvelenatore corteggia la regina, porgendole doni. Ella sembra sul principio restia, ma poi accetta le profferte amorose di lui. […]
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    Ofelia Forse la pantomima riguarda l’argomento del lavoro? […].
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    Re Il titolo?
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    Amleto “La trappola per topi”… / Naturalmente in senso figurato. /Il dramma rappresenta un assassinio / avvenuto davvero […]” (III.2).
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    INFINE, SE ENTRO QUESTO ORIZZONTE DI “GIROGLIFICI DI DIO”, CON SHAKESPEARE (E INSIEME, VOLENDO, FREUD), SI COLLOCA ANCHE IL QUADRO REALIZZATO DA FEDERICO BAROCCI (Urbino 1528/1535 – 30 settembre 1612) , sulla «Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta “Madonna della gatta”», ben si comprende quanto importante sia a livello culturale e antropologico la sollecitazione di questo film-documentario di Ceyda Torun, dedicato ai gatti della sua Istanbul, a pensare al “disagio della civiltà” e “nella civiltà” dell’attuale presente storico.
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    Federico La Sala

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