di Guido Mattia Gallerani
Andrea Gibellini è nato a Sassuolo. Prima di quest’ultimo libro di poesie (Planetario e altre osservazioni, Marcos y Marcos, 2022) ha pubblicato tre raccolte di versi: Le ossa di Bering (Nce, 1993), La felicità improvvisa (Jaca Book, 2001, premio Montale) e Le regole del viaggio (Effigie, 2016). Nel 2008 ha partecipato al Poetry International Festival di Rotterdam. Ha pubblicato anche saggi sulla poesia, come Ricercando Auden (2003) e L’elastico emotivo (2011), e il quaderno in prosa Diario di Vaucluse (2014).
In una pagina del suo libro di saggi L’elastico emotivo, Gibellini afferma che la poesia è come «un siero vitale che lotta contro la chiusura di luoghi che devono rimanere sempre aperti». Mi pare di poter leggere in questa frase una dichiarazione di poetica. La poesia è un servizio che si fa a un luogo. Il mondo intero è una riserva di luoghi che ci resistono, mentre dobbiamo evitare che essi si facciano a noi insensibili. Forse, è proprio una caratteristica del mondo odierno di essere resistente alla nostra volontà di dargli un senso. Siccome, però, il mondo non è solo un oggetto che ci preesiste, ma un sistema in cui noi parliamo e che parliamo incessantemente, viene comunque sempre investito del senso che noi gli diamo.
Tra la poesia e il mondo è possibile certo uno scambio, ma non un’identità; se non ci fosse qualche distanza tra il linguaggio e la realtà che gli sta di fronte non ci sarebbe la possibilità per il senso di insorgere; non si potrebbe dire nulla di nuovo rispetto a quanto è già evidente, e spesso sconsolante. Per la poesia – sembra dirci Gibellini – il senso è come una svolta: ribalta la repulsione del mondo a farsi significare, riporta una voce umana in uno spazio che si sta rinchiudendo su se stesso, si sta atrofizzando, sta diventando neutro, insignificante. C’è un rischio di perdere il senso del mondo se non ci sforziamo di mantenere un’apertura tra lui e noi.
La poesia è la chiave invisibile che apre il mondo. Per far scattare il senso, ed entrare nella visione della poesia, Gibellini non usa il linguaggio come una forzatura, una violenza, ma come una delicatezza, o piuttosto una disponibilità. Cosa significa essere disponibili al mondo? È certamente un modo di vivere che fa dell’attesa, della sensibilità il suo codice etico. La disponibilità è un’attitudine più coscienziosa di quella che vede nell’uomo, nell’antropocentrismo, la misura di ogni valore dell’esistenza dell’intera natura.
Il tema di Planetario e altre osservazioni mi pare essere proprio questa disposizione dell’animo ad accompagnare il mondo con la presenza umana, non accontentandosi della resistenza che ci impongono i suoi luoghi, ma cercando un valico per entrarvi con il nostro senso, senza volerlo però snaturare. La forma di Planetario e altre osservazioni comprende alcuni procedimenti specifici di questa disponibilità della poesia.
Innanzitutto, il percorso poetico, quello che si svolge attraverso le sezioni del volume: Per raggiungere la poesia, Costruzione senza natura, Lungo il fiume, Sonetti estensi, Alfabeto. Dall’invocazione – l’accensione – della poesia si passa alla sua modulazione in un linguaggio che deve trovare la cosa, la natura. Poi la forma tenta di ricomporre una solidarietà con il mondo, trovando nel genere del sonetto una forma con cui parlare di un luogo specifico, il Luogo estense, che è il titolo di una poesia. Infine, dopo una pausa di sospensione, che è un secondo avvio – con poesie che non sono sonetti dentro la sezione Sonetti estensi – si ritorna alla parola, a un nuovo ricongiungimento tra lingua e mondo. La poesia ha trovato il suo Alfabeto naturale, anzi cosmico, perché è ora una parola molto vasta che va dal piccolo paese all’universo, da Sassuolo alla Luna (c’è forse, oltre tanti poeti, novecenteschi e antichi, come Leopardi, anche qualcosa del Calvino delle Cosmicomiche in Gibellini).
In secondo luogo, più internamente ai testi, il ritmo dei versi, le strofe e la metrica ripropongono il medesimo meccanismo del senso, proprio come innumerevoli meccanismi di apertura. Componimenti in terzine, sonetti, forme antiche come la quartina, altre poesie in versi liberi… alla varietà del mondo corrisponde, insomma, l’apertura della poesia alla varietà. Il mondo che ci restituisce la poesia di Gibellini, allora, non è quello di una natura animata da un segreto da individuare con una parola introspettiva ed endoscopica. La disponibilità della poesia non è soltanto nello sguardo del poeta, ma nella forma della sua lingua: l’unica chiave che ci permette di aprire la realtà e farla entrare nel nostro linguaggio e senza la quale finiremmo per imporre al mondo un senso nuovamente univoco e stereotipato, troppo opaco. Dopo averlo aperto, esservi entrati, finiremmo per rinchiuderlo in noi stessi. Gibellini scrive: “Io non voglio dire le cose della cronaca, / non mi interessa”, “io voglio ancora credere nella mia eloquenza”. La poesia è l’arte che evita il dogma, accettandosi innanzitutto come maestra di retorica: questa è una chiave complicata da usare, ma il cui apprendimento permette – come dimostra questo libro – di esercitare una autentica disponibilità all’ascolto del mondo.
*
Andrea Gibellini
Quattro poesie da Planetario e altre osservazioni
La natura aspetta le ciminiere
da Pastoral del fotografo Alexander Gronsky.
La natura aspetta le ciminiere estese verso est,
sono come alberi dalle chiome aperte.
La cattedrale chimica non ossidata,
le cime delle fronde sono implacabili,
torneranno, rivivranno…
Io oggi cammino in un giardino senza foglie.
Non è una giornata raggiante.
E’ sfibrata da un esilio
e niente è in decomposizione.
Ma senti questa devozione:
è un giorno di tutti giorni
sulla riva di un laghetto
trasformato
da una centrale adesso nucleare
pietrificata, millenaria, accesa.
Ci sono i figli, un padre corroso,
dissociato, da tutto ciò che attorno
gli appare come lingua rarefatta,
mai distillata, senza conoscenza
del vero o di qualcosa.
E’ una stagione diversa, non è l’estate
non è un aprile crudele,
è la stagione delle apparenze.
Il sentiero sul margine sembrava infinito
mai si arrivava, si toccavano
infernali arbusti di alberi infernali come invernali
e bianchi involucri di cartigli stremati,
sabbie a cumuli lo stesso scintillanti:
«sto qui con loro per essere felice»,
io che so cantare solo questo flebile autunno.
Questo è un luogo senza tempo
senza i primitivi affetti,
questo è un luogo delle spiegazioni
dove ogni cosa parla
prima di ogni altra cosa,
è il luogo della natura spontanea
è innaturale
perfida e perfetta
che si mostra nella luce del mattino,
dove non ci sono animali innocenti
― e qui dove c’era ascolti e vedi
l’odore della vendemmia,
aria chimica: la mia sola vera aria
più vera d’ogni altra natura.
I figli attendono non sospettano
i detriti lucenti degli elementi
nel loro pomeriggio speciale, nel rinvenuto
silenzio acido-pastorale.
Poi, come foglie senza vento,
in un altro luogo, così immobile, così vero,
a rimirare sentiranno.
*
Ars poetica
In questo giardino della mente
io non voglio più dire niente.
E’ un disegno a china
che stasera proprio non voglio fare
mettere i nomi sopra le cose
e per sempre dirgli addio.
Non è facile e si può fare
ma nella mia poesia
non voglio nessuna teologia.
La tentazione di inserire
una casa un albero e un vento
seppure leggerissimo sul filo
della corrente
e una canoa di fogli usati
e delle erbe non vere, gialle, violente
come i girasoli che sempre cercavi.
*
Escavazioni sul fiume Panaro
Le macchine sono ferme sul fiume
(le macchine gli animali il fiume)
e quanto sono irreali le scavatrici
come giraffe nel plenilunio d’estate
vicino all’esile tramonto delle acque,
i ciottoli e le sabbie hanno invaso
la pianura hanno iniziato a invadere
la prima boscaglia fatta di sterpi
e poi c’è, e sembra incredibile davvero,
un ALT-ATTENZIONE SABBIE MOBILI come
nell’emisfero australe, una fuggevole palude,
un cerchio d’acqua limacciosa, acqua profonda da visitare,
qui dobbiamo stare qui dobbiamo coltivare,
che attrae perché ogni cosa è
vietata sul confine dove con un balzo
improvviso si può per sempre sparire.
Eccola, allora, prodigiosa, insaziabile
la mia foresta quanto reale, quanto
prossima all’acciottolato, adesso non più
muschiosa ma sabbiosa che gli archetti sollevano
rintoccano senza lo spazio di sopravvivenza
dove esistono (o sembrano
percosse esistere) infinite
le mie, ma qui finite, presenti, radici contrapposte.
I presagi, gli anni nascosti
erano dentro noi, le cose già prossime,
questa foresta similare che transita
inaspettata riflessa vorticosa sul fiume e
ritrovare brillanti minerali come
un estremo Klondike a setacciare le acque correnti
e i ciottoli sminuzzati dalle gigantesche macchine
che assumono colori fuori dall’ordinario
mescolandosi alla natura del sole che si sviluppa
con impressioni verso il cielo che desideriamo
terso, senza confini, illimpidito ancora
da una sconosciuta e inaspettata natura.
I ciottoli sono diventati
invisibili, mangiati da quell’altra natura metallica
di resine che attraversa l’inizio
per me a perdifiato del fiume: di pulviscoli
come di cera liquefatta
ma di piombo scesi, entrati
in un diverso soffio
nella natura e dentro la natura. E’
sempre un inizio, la sorgente, non vedo la fine. E le sabbie
ostinate a cumuli come vive sull’argine
dove contempliamo saldati a tagliare
le cose intatte come davvero sono.
*
Planetario
L’arte bizantina era tutto.
I mosaici sono ricamati
come fili nostalgici di un cielo
turchese. In una notte d’inverno
osservando il cielo blu cobalto
quasi nero con dentro ogni
colore ti senti d’essere sospinto
dentro un planetario
dove puoi disegnare
l’oracolo delle stelle. I mosaici
come eterni nel crepuscolo
del riposo eterno di Galla Placidia
e le stelle minute dove mai
rimanemmo delusi
sono un firmamento dagli occhi chiusi.
*
Come dipingere il blu,
la cornice delle stelle,
trasformare tutto in un idillio
senza tempo?
I cervi si abbeverano
ad una sorgente
sconosciuta. L’erba
è destinata, il vento
copre la situazione presente.
Nessuno va e viene.
Il luogo è deserto,
dentro non c’è tempo
che possa intervenire
nell’ansia delle stelle.
«Nel ritrovare la luce, il colore dei mosaici».
Non so, valuteranno i lettori specialisti, mentre per il poetico (diciamo pure: la mitopoiesi pre-verbale che si tramanda socialmente) in queste forme, comunque lontane rispetto al fronte d’onda, bastano per tutti Arminio & Catalano? Saluti.