di Giorgiomaria Cornelio

 

[È in uscita il libro Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita (Tlon, 2024), un saggio di Giorgiomaria Cornelio che perlustra una costellazione di temi del paesaggio contemporaneo – la rete, i social network, la “gnosi verde” delle piante – e li intesse con saperi in apparenza remoti, come il diritto romano, la storia dei processi agli animali, il Medioevo fantastico. Pubblichiamo in anteprima un estratto del volume.]

 

Kéfir, folle ed enzimi

 

«Può un virus passare da uccelli a umani e scombussolare i sistemi sanitari, il commercio internazionale e i trasporti?». Quando Bennett si chiede tutto ciò è il 2010, ben prima dello scoppio della pandemia di Covid-19. Pensare per “sciami”, dieci anni fa come oggi, non significava abbandonarsi all’innocua fantasticheria, a una realtà semplicemente trasognata, ma esercitare un’immaginazione connettiva, capace di mescolarsi con fenomeni avvertiti come distanti per poterli mettere in dia- logo. L’idea del Covid, a causa della sua lugubre efficacia, ha agito (almeno in un primo momento) come un formidabile appello ad ampliare l’orizzonte dell’interrogazione, a intercettare questo salto di specie, questa connessione tra remote vicinanze. Obbligandoci cioè a pensare insieme uccelli, umani, sistemi sanitari, commercio internazionale e trasporti, il Covid-19, un «Aids dei normali»[1] vissuto dall’intero pianeta, ha da una parte contribuito a rafforzare la morsa della sorveglianza farmacopolitica sui nostri corpi, dall’altra ha innestato uno sfasamento, una zona di rottura, di possibile non coincidenza con il potere dominante. Preciado, pervertendo la definizione in cui lo hanno da sempre “costretto”, chiama questo stato di generale sfasamento dysphoria mundi, estendendo la disforia non più soltanto al singolo individuo ma alla dimensione planetaria:

 

Bisogna vedere nella dysphoria mundi una condizione somatopolitica generale, la sofferenza prodotta dalla gestione necropolitica della soggettività, sofferenza che tuttavia è al tempo stesso un indice della potenza (non del potere) dei corpi viventi del pianeta (e del pianeta stesso in quanto corpo vivente) di sottrarsi alla genealogia capitalista, patriarcale e coloniale grazie a pratiche di insubordinazione, di dissidenza e disidentificazione.[2]

 

La disforia, invece che invocare misure correttive o narcotizzazioni, fa sfolgorare nuovi paesaggi adattativi nel tempo del crollo dei sistemi malandati, convertendo il mondo in una scena della rivelazione: theatrum mundi. Quando Artaud invocava un teatro come peste, pensava non tanto al contagio, quanto al potere immediatamente rivelatorio: la capacità di metterci davanti a uno shock cognitivo, provocando un attrito con il già-conosciuto. Proprio perché riguarda una pluralità di attanti, il Covid-19 è per l’immaginario contemporaneo un veleno medicinale, che fa rivalutare i concetti di cura, di mediazione, di benessere, transitandoli nell’orizzonte di un sapersi reciprocamente intricati.

 

Abbiamo dunque la chance di non pensarci più soli, di concertare nuove narrazioni lontane dagli steccati del selvatico e del domestico, del “noi” e del “loro”, distinzioni che neutralizzano la potenza di ciò che sta accadendo in questa età di crisi feconde. Rovesciando una reazione esclusivamente preservativa al fenomeno, il Covid-19 può essere inteso come un virus che infetta benevolmente la nostra immaginazione, reintroducendo nella contemporaneità il confronto diretto con l’enorme rete di relazioni che condiziona il vivere comune: «Danneggiare una sezione della rete potrebbe benissimo equivalere a danneggiarsi a propria volta».[3] Concezioni che non sono certamente nuove, ma che hanno pagato il prezzo di due finzioni del disincanto: quella della “modernità” e quella dell’igienizzazione dello sguardo, con la sua nozione “generi- ca” ed estrattiva dell’universo non umano, per cui la “Natura” è un fatto straniero, piatto, ora salvifico ora minaccioso, comunque lontano e ovattato. Pur senza tralasciare l’inevitabile esotizzazione del fenomeno, Piero Camporesi, parlando per esempio del mondo “contadino” e “analfabeta”, evocava il thesaurus di interventi empirici che univano, nelle campagne, la salute delle donne, degli uomini, dei bambini e delle bestie, in un rapporto di reciproca interdipendenza. Curando gli ani- mali si operava beneficamente anche su se stessi; viceversa, la devastazione del mondo animale aveva conseguenze disastrose sul vivere “umano”, come nel caso della peste bovina:

La conoscenza delle patologie che colpivano i «bruti» dimostrava che il destino dell’uomo era (ed è) legato a quello delle bestie e che le scienze umane non possono fare a meno della mediazione del mondo animale. La peste bovina, la peste suina hanno rappresentato drammi sociali che l’enorme letteratura sulla pestilenza umana ha schiacciato e marginalizzato sotto montagne di cadaveri a due gambe. La cultura delle città, letterata, ha pressoché ignorato questo dramma delle campagne o, al massimo, l’ha esaminato sotto l’unico aspetto della perdita economica.[4]

 

Una mitologia incapace di confrontarsi con la vastità degli intrecci relazionali, tanto nella peste bovina quanto in quella del Covid, reitera senza sosta lo stesso micidiale errore: riconoscere la crisi come un fattore esclusivamente legato all’umano, e al suo universo economico. La questione del come “raccontiamo” la peste, introdotta da Camporesi, ha un ruolo meno marginale di quanto pensiamo: laddove il linguaggio spoglia, estrae, reifica e censura, rende il nostro attraversamento del mondo immensamente più povero. La privazione del contatto con parte dell’universo oltreumano è figlia anche della prepotenza della parola generica, sia essa “albero”, “pianta”, “fiore” o “natura”. Come il futuro della nostra specie «è intrecciato in modi inestricabili con i materiali che scegliamo di utilizzare per costruirlo»,[5] così le parole che impieghiamo per tessere le nostre narrazioni modificano le modalità in cui percepiamo e, soprattutto, la nostra disposizione a farci attraversare da ciò che non è familiare. La dysphoria mundi è anche una disforia dei nomi del mondo: l’avvertire uno sfasamento che ci rende sempre più insofferenti alla lingua dell’asservimento in favore di un’immaginazione poetica e anfibia. Questione che si riflette, pur con la sua problematicità, negli sconvolgimenti linguistici del dibattito attuale, che forzano il linguaggio in zone di dissesto più o meno efficaci.[6]

 

Il nome cattura, il nome estingue, il nome trattiene e agita nuove vite. Dentro i nomi vivono, ghiacciati nella loro tensione, altri fossili di rivolta. Scrive Gian Luigi Beccaria in un suo studio sulle parole perdute:

 

Le voci dei nostri dialetti serbavano una mitologia estinta; a fior di lingua, metafore che annodavano linguaggio, leggenda e mito. Serbavano raggelato, “grammaticalizzato”, ciò che un rito e un mito contenevano in forme viventi e concrete. Nella tradizione prescientifica e nella mentalità popolare la natura era vista come animata, abitata da animali, demoni e da erbe dotate di un’a- nima vegetale, ogni cosa aveva il suo genio, il suo spirito. […] Sussisteva una reale simbiosi tra l’uomo e il mondo vegetale, le piante, le erbe, gli odori, gli aromi, i succhi, i veleni.[7]

 

Il sottotitolo del libro di Beccaria collega le parole perdute ai santi, ai demoni e ai folletti, e sono forse proprio quest’ultimi a svelarci un’altra immagine incantata della contemporaneità. I folletti si prendono burla degli esseri umani: fanno dispetti, scombinano le matasse, occultano gli oggetti nei posti più disparati, privano le mucche del loro latte; queste creature amano i nodi del vento e i mulinelli in cui ballano, ma anche i luoghi più nascosti o “liminari”: sottoscala, cantine, grotte, solai, stalle e granai, spazi domestici immersi nella penombra:

 

Il folletto amava la zona più intima e appartata della cucina, il camino appunto e la sua cappa nera, questa “zona liminare”, di “passaggio dalla dimensione domestica e quotidiana, a una dimensione diversa”, un condotto “che metteva in comunicazione l’interno della casa con l’immensità remota del cielo”, la via dove passano i “messaggi del vento”.[8]

 

Il folletto, che sembra da molto tempo scomparso, continua invece a giocare la sua burla, a saltare le epoche e le tecnologie, a sfidarci a riconoscerlo nei luoghi liminari del nostro quotidiano. Come gli hush, come gli insetti stecco, i folletti riappaiono dove meno ce lo aspettiamo, magari proprio nelle versioni contemporanee dei focolari: le postazioni da cui ci connettiamo a Internet. In quanto soglia tra mondi, la «postazione casalinga dedicata al computer ha per molto tempo rivestito una grande importanza simbolica»;[9] è il luogo da dove “postiamo”, il condotto per la navigazione internautica, nel quale volteggia l’immensità dei mondi inesplorati. Forse proprio per questo alcuni folletti hanno scelto di abitare segretamente le postazioni dei computer, e gli utenti, come scrive Erik Davis, hanno incominciato, senza rendersene conto, a «trattare i propri PC come folletti fastidiosi e potenti, in un rapporto animistico con la macchina spesso incoraggiato dalle interfacce».[10] I folletti sono una declinazione della meraviglia animistica, del subbuglio delle migrazioni tra epoche, immaginazioni e tecnologie; riappaiono per canzonare la nostra idea di progresso assoluto, e le nostre formule del disincanto, molto prima dell’apparizione dei computer. Da questo punto di vista, è sempre Camporesi a raccontarci un’altra storia, nella quale i folletti diventano per un attimo enzimi.

 

Ci troviamo nell’Italia del primo Novecento, dove si è acceso un grande interesse per il kéfir, la bevanda miracolosa creduta alla base della longevità delle popolazioni caucasiche; ricchissimo di fermenti lattici, il kéfir si ottiene mediante la fermentazione del latte con enzimi vegetali e l’aiuto dei “bacilli benevoli” d’un fungo.[11] Per Camporesi, l’origine apparentemente divina della bevanda fa riaffiorare, nell’inconscio collettivo italiano di quel momento storico,

 

un nucleo sepolto di antiche credenze legate alla magia agraria e pastorale. I «bacilli benevoli» rappresentano la versione aggiornata dei folletti-enzimi che le culture dei campi e delle stalle ritenevano presiedessero ai processi di lievitazione del pane, di fermentazione del vino, di cagliatura del latte: i microdemoni della crescita trasformatrice, della trasmutazione delle sostanze, della moltiplicazione controllata (e benevola) ex putri, della fertilità della materia autoproducentesi in forme nuove, del rassodamento o della lievitazione. Spiriti folletti che avevano le loro abituali dimore nei letamai, nelle botti al buio delle cantine, o nell’umido calore fermentante dello sterco. I «bacilli benevoli» del fungo caucasico esprimono, con una terminologia ibridata dal nuovo lessico della scienza del primo Novecento, l’antica meraviglia del naturalismo animistico.[12]

 

Folletti-enzimi, folletti microdemoni: in ogni caso tecnologie della crescita e della trasformazione, creature a loro volta metamorfiche e ibride, tanto quanto noi. L’esistenza di questa storia ci ricorda, insieme al groviglio inestricabile di credenze e processi di “aggiornamento”, un’altra questione fondamentale: il rapporto tra alimentazione e mito, materia edibile e potere agente, nutrimento e dieta immaginativa.

 

Note

 

[1] P.B. Preciado, Dysphoria mundi, tr. di R. Arrigoni, Fandango Libri, Roma 2022, p. 25.

[2] Ibidem.

[3] «Tutti i corpi sono imparentati, inestricabilmente invischiati in una fitta rete di relazioni. E in questo intricato mondo di materia vibrante, danneggiare una sezione della rete potrebbe benissimo equivalere a danneggiarsi a propria volta», J. Bennett, Materia vibrante, op. cit., p. 49.

[4] P. Camporesi, La carne impassibile, op. cit., p. 239

[5] L. Tripaldi, Menti parallele, op. cit., p. 193.

[6] Si veda a tal proposito G. Cornelio, “Lo schwa e il valore magico della parola”, in «L’Indiscreto», 18 febbraio 2022.

[7] G.L. Beccaria, I nomi del mondo, op. cit., pp. 6-7.

[8] Ivi, p. 158.

[9] V. Tanni, Exit reality, op. cit., p. 196.

[10] E. Davis, Techgnosis, op. cit., p. 259.

[11] Cfr. P. Camporesi, La carne impassibile, op. cit.

[12] Ibidem.

 

[Immagine: Miniatura tratta da “L’Apocalisse di Cambrai”, scuola francese del XIII secolo. Ms. 422. Biblioteca comunale di Cambrai].

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