di Mariano Croce
“Una via sicura per eliminare ogni ricordo del sacro da un luogo sacro (interni di cattedrale, pronai, sagrati, cripte, colonnati ec.) è di farne risuonatori di concerti di musica sacra, dove i partecipanti diventano un pubblico”, scriveva Guido Ceronetti in Pensieri del tè. E sembra davvero che della politica, di questo edificio un tempo sede di liturgie mistiche e terragne al contempo, rimanga solo l’epistilio a ospitare una turba di baccanti in concerto, con il pubblico assiepato nel suo perimetro, esposto a un profluvio di esibizioni di dubbio decoro. In effetti, oggi la politica satura le nostre vite non meno che qualche decennio fa, capace com’è d’insinuarsi in ogni canale della comunicazione mediatica, che è polimorfa, e anche un po’ perversa. Siamo però lontanissimi dai tempi in cui l’azione politica era tesa a dar forma alla comunità di destino, a disegnare la trama e l’ordito dell’esistenza comune, a smerigliarne le superfici e gli angoli in vista dell’agognato e pluribus unum. Di quell’idea titanica e altera di politica non rimane più nulla, se non la sua ombra più cupa, quella della guerra, anch’essa svilita a calcolo interessato per la supremazia geostrategica in chiave di finanza globale.
Eppure la domanda inevasa è se la socialità umana, persino quel poco di poco che oggi rimane, sia pensabile senza quella componente all’apparenza naturale e per certo atavica che è appunto l’associazione specificamente politica. Secondo l’ipotesi che qui di seguito vorrei considerare, l’associazione specificamente politica costituisce una forma di unione umana che si distingue da ogni altro tipo di associazione, pubblica o privata. In questa chiave, la domanda di cui sopra può essere resa come segue: è possibile senza la politica costruire e perpetuare un che di comune, foss’anche non proprio un destino collettivo, polverizzatosi ormai in corpuscoli di vita privata, epperò minimamente solido e condiviso?
Se, come si dirà in conclusione, la risposta di chi scrive è che sì, ahimè, è possibile oggi fare senza la politica, ad articolare il no è la recente, monumentale opera di Damiano Palano, divisa in due volumi usciti per i tipi di Scholé Editrice Morcelliana: Animale politico. Introduzione allo studio dei fenomeni politici (2023) e Politica. Un’introduzione (2024). Si tratta di testi che – dicono i loro sottotitoli – vogliono in primo luogo introdurre alle metodologie e ai temi chiave della teoria politica, e per certo lo fanno con chiarezza e competenza indiscutibili. Eppure, almeno nell’idiosincratica lettura di chi scrive, fanno molto di più, perché, mentre introducono, articolano delle tesi di notevole spessore filosofico, che vorrei brevemente commentare. In quanto segue, farò riferimento in particolare a Politica.
Sarebbe insensato proporre la sintesi di un lavoro che vanta la discendenza diretta da quelle poderose opere di fondazione teorica che si potrebbe pensare racchiuse nell’archivio filosofico del Novecento, tanto è forte la loro pretesa di abbracciare diversi campi del sapere. Il doppio volume di Palano stupisce per la capacità di mettere assieme una batteria di saperi in modo tanto agile quanto accorto e puntuale, offrendo così ragioni molto robuste a difesa del carattere fondativo del vincolo politico. Ma può dirsi senza timore di svilire l’opera che l’approccio “multidimensionale” adottato approda a una tesi energica e tutt’altro che di poco rilievo: al netto di un necessario aspetto di verticalità, dunque di comando e coercizione, la politica è un particolarissimo fenomeno “orizzontale”, quella che, in richiamo a Hannah Arendt, l’autore caratterizza come dimensione “dell’infra” (p. 38).
Non si creda tuttavia che i due libri si limitino a celebrare il carattere sorgivo di un fare comunità che ha come destino la felicità pubblica. Infatti, con massicce iniezioni di realismo (che gli vengono da Gianfranco Miglio, Carl Schmitt e altre celebrità del campo realista), Palano precisa che la dimensione della politica implica una molteplicità di aspetti costitutivamente ineliminabili, che la rendono “una sfera inevitabilmente tragica” (p. 478). E benché ai giorni nostri la tragedia si vada via via trasformando in farsa, secondo Palano la politica è destinata a tornare in tutta la sua portata, perché la logica dell’economia e lo sviluppo tecnologico, nella loro pur innegabile arborescenza, sono supplenti inadeguati: dove c’è necessità di prendersi cura di un destino comune, come dinanzi alle sfide che il presente sembra imporci, c’è bisogno della politica. Vediamo dunque cos’è questa forza antichissima, che oggi ritorna per spodestare gli abusivi supplenti, o quantomeno promette di farlo.
Sin dalle prime pagine, Palano fa obliqua professione metodologica, là dove innesta la riflessione politica nell’antropologia, come a voler mettere in chiaro da principio il carattere fondativo della politica. Bisogna tuttavia precisare lo statuto di quel “fondativo”, che non significa sempiterno né consustanziale alla socialità. La formazione di un’identità collettiva è infatti “un processo potenzialmente riconoscibile in qualsiasi raggruppamento umano, e non soltanto nelle comunità propriamente politiche” (p. 75). Detto altrimenti, i collettivi umani esistono anche senza politica. Nessun “panpoliticismo”, quindi, che tenderebbe appunto a qualificare ogni manifestazione di socialità come politica. Ad avviso di Palano, la comunità propriamente politica presuppone sì l’esistenza di un collettivo, ma il suo tratto saliente è da rinvenirsi altrove, ossia in “un qualche fattore coesivo” (p. 79), che descriverei qui come uno specifico “punto di vista” comune: quello dal quale ogni membro del collettivo percepisce e riconosce l’esistenza di una forma che lo accomuna agli altri membri.
Detto con maggior dettaglio, la dimensione propriamente politica implica la percezione (implicita e irriflessa quanto si vuole, ma condivisa) del fatto che si dà una gerarchia tra i diversi collettivi che compongono il sociale – ad esempio, ciò che induce il membro di una data congregazione religiosa, pur al suo interno molto coesa, a ritenere che gli interessi della congregazione non possano prevalere sugli interessi della più ampia comunità di cui essa è parte. La comunità ultima, quella che prevale su ogni altro collettivo, è lo spazio proprio della politica. Sicché, se si desiderasse una qualche definizione provvisoria, proporrei quanto segue: “politica” è quella comunità i cui interessi, agli occhi dei suoi membri, prevalgono sugli interessi degli altri collettivi di cui pure costoro fanno parte, siano questi fondati su un elemento religioso o di genere o di classe o di qualsivoglia natura.
In questa chiave primariamente “orizzontale”, uno dei meriti indubbi della teoria di Palano è di rifiutare l’abusata concezione del potere come comando e coercizione. Beninteso: non che il potere svanisca. Tutt’altro. Diventa piuttosto un fenomeno caratteristico, sì, ma derivativo. Così facendo, mentre dà al potere un aspetto meno angusto, l’autore rimuove ogni patina di irenismo dalla nozione di comunità: non c’è comunità propriamente politica che non si fondi su una qualche gerarchia, più o meno formalizzata ed eventualmente riconfigurabile, in forza della quale un gruppo esercita il potere mediante il monopolio dell’uso legittimo dei mezzi di coercizione. In questa formulazione, il termine “legittimo” non può essere omesso, perché, come puntualizza Palano sulla scorta di Max Weber, la comunità politica non può poggiarsi sulla mera minaccia, né su promesse di benefici contingenti (p. 165). Proprio perché insiste sull’aspetto che ho sopra definito percettivo, il vincolo politico deve radicarsi nella convinta autocomprensione dei soggetti di essere parte della comunità. Il potere, pertanto, non è mai riducibile al solo comando, perché questo deve dimostrarsi capace di costituire e mantenere un’organizzazione che garantisca la soddisfazione generale e la stabile continuità della struttura gerarchica.
Per questa ragione, uno dei termini chiave della definizione multidimensionale di Palano è quello di “organizzazione”, nella sicura consapevolezza che i modi dell’organizzazione siano storicamente molteplici. In quest’ottica, e in forza di felici incursioni nel campo dell’antropologia politica, Palano identifica il momento della storia dell’umanità in cui l’organizzazione si fece propriamente politica in un salto che risale a poco meno di seimila anni fa, quando ciò che venne configurandosi come “classe politica” cominciò a rappresentare “un elemento pressoché costante nelle società umane” (p. 255). Insomma, la politica, come rimarcato sopra, non è eterna né inscritta nel sociale, e si è manifestata come tale nella breve storia della esseri umani quando tra essi venne stabilizzandosi la percezione di una distinta importanza tra i vari collettivi di appartenenza e quando, dunque, i consociati riconobbero l’esistenza di una gerarchia, più o meno organizzata, che potesse soddisfare il bisogno di riproduzione della comunità stessa senza ricorso alla forza e senza strappi irrimediabili.
In questo ricchissimo affresco, Palano non manca di puntare la luce della teoresi sull’angolo più buio e meno edificante della politica: la percezione che esista un collettivo che fa da acme della vita sociale presuppone un sempre possibile scontro tra collettivi. Se gli interessi di un collettivo debbono prevalere su quelli degli altri, c’è la possibilità sempre presente che si diano momenti in cui la comunità propriamente politica si senta sotto minaccia e debba reagire con la forza. Detto in termini più prosaici ma non meno realistici: l’esclusione del nemico interno e la guerra al nemico esterno sono evenienze ineliminabili della politica. Se Palano discute nel dettaglio i “gradi dell’inimicizia” (pp. 342-353), in questo mio breve scritto una sintesi di quelle dense pagine sarebbe inefficace oltreché svilente del ragionamento nelle sue varie articolazioni. Eppure, nell’analisi delle proposte avanzate dai vari autori che nella storia del pensiero occidentale hanno abbracciato un’antropologia pessimista, la tesi di Palano emerge con nitore: l’azione propriamente politica è determinatio che sempre implica la negatio, e lo fa in modo strutturale, intrinseco, non già come sgradita conseguenza dell’incisione del confine tra un “noi” e un “loro”.
In tal senso, seguendo Konrad Lorenz, Palano scrive che “non esiste semplicemente una connessione tra amicizia (dentro il gruppo) e inimicizia (rispetto a coloro che ne sono estranei), ma si deve riconoscere che i sentimenti dell’amicizia e dell’amore sono una conseguenza dell’aggressività di alcune specie animali, tra cui un posto di particolare rilevanza spetta ovviamente all’Homo sapiens” (p. 378). In altre parole, la politica non organizza la mera riproduzione del noi, ma riduce la pericolosità dell’umana coazione a eliminare l’altro indirizzandone tutta l’aggressività verso chi sta fuori dalla comunità. Sicché, si mettano su tutte le teorie della giustizia che si vogliono, e le si difenda con tanto di sofisticate architettoniche razionali, ma l’idea di poter eliminare il carattere dell’esclusione dalla politica è o illusione o inganno – quanto per Schmitt altro non era che dolosa impostura.
C’è troppo di più nella possente analisi di Palano perché se ne possa qui dar conto senza sminuirne la portata – un di più che attraversa con eleganza i campi della letteratura e dell’arte, con riferimenti puntuali che mai fanno da semplici abbellimenti o esercizi di stile (in particolare, colpiscono l’appropriatezza e l’estro degli eserghi). Preferisco allora tornare sulla questione con cui si è aperto questo scritto, vale a dire, se oggi ne vada del ritorno della politica come intesa nei due volumi di cui qui si parla o se essa sia piuttosto destinata alla quiescenza, dopo qualche millennio di sicuri successi. Sulla questione, non che Palano sia impermeabile al dubbio.
In effetti, nelle parti conclusive del capitolo quinto, in richiamo alle analisi di Alessandro Pizzorno, si fa riferimento all’odierna dirompenza di una “politica” assai meno politica, una politica “minima”, riconducibile “a una serie di scambi politici, all’amministrazione delle rendite di posizione detenute dalle diverse organizzazioni”, “che non rinuncia alle identità, ma che tende a confrontare le varie richieste – e i vari interessi – svolgendo calcoli non molto diversi da quelli che contrassegnano gli scambi economici” (p. 448). Eppure, al netto dei pericoli che Palano intravvede in questa tendenziale “minimizzazione”, l’esaltazione della politica “assoluta” che emerge nelle quasi ottocento pagine complessive soverchia i preoccupati riferimenti alla sua mediocre forma degenerata.
Sia come sia, nella luminescenza della politica “assoluta” e nel lucore di quella “minima”, il punto di dissenso con Palano, che inclina me al pessimismo, delinea anche al contempo lo spazio per un possibile consenso. Provo a renderne conto come segue. Concordo sul fatto che la politica non sia un tratto ineliminabile della socialità umana e che i collettivi adottino strategie molteplici – strategie, diciamo così, impolitiche – per farsi e disfarsi da sé. La politica, detto altrimenti, ha una storia, che, come tale, ha un inizio e una fine, o quantomeno dei lunghi periodi di on and off. E se è vero che le sfide del nostro presente chiamerebbero a una presa in carico del destino comune, quindi a una considerazione propriamente politica del nostro periclitante futuro, i collettivi oggi sembrano seguire strade ispirate a una ben più significativa contingenza. Penso qui – ad esempio e per mera inclinazione teorica – al ricorso dei cittadini alle Corti come crescente strategia per vedere soddisfatte le proprie rivendicazioni in termini di sempre più numerose (e giustiziabili) batterie di diritti. Oppure ai corpi di diritto amministrativo, prodotti da organismi senza mandato elettorale, ma non per questo meno efficaci nella loro forza vincolante, fuori e dentro gli Stati. Oppure infine – ma la lista è lunga – alle authorities e alle agenzie di rating che delineano di fatto traiettorie obbligate per le legislazioni nazionali.
Ecco – voglio allora rovesciare l’imponente tesi di Palano in chiave di proposta, non pienamente consentanea ma non pienamente inconciliabile: credo sarebbe del tutto fuorviante liquidare i processi appena menzionati come sintomi di una crisi della politica o del trionfo di razionalità in gergo dette “neoliberali”. Credo siano piuttosto l’esito del rampicante incedere di altri modi di fare il collettivo, che eliminano o ridimensionano considerevolmente quegli aspetti da Palano attribuiti alla politica propriamente detta. Vincoli meno stretti, obbligazioni sinallagmatiche, gerarchie fluttuanti tra collettivi, vaghezza nelle linee di verticalità, comunità inclini a fulminee ridefinizioni di chi è amico e chi no.
Così, del luogo un tempo sacro rimangono le tracce a mo’ di memoria per una società che soffre dell’amnesia detta retrograda, per la quale non c’è nulla prima dell’evento presente. Per mio conto, non sono del tutto pessimista, perché ho in simpatia le modalità di stupefacente finezza e mirabile ingegneria con cui i collettivi si fanno e si disfano in tendenziale autonomia e con grande smania di presentismo. Ma per il tipo di politica affrescata in Animale politico e Politica temo ci sia bisogno di un qualche salto, che eguagli o quantomeno emuli quello compiuto dall’umanità nel Neolitico.
Leggo: “Siamo però lontanissimi dai tempi in cui l’azione politica era tesa a dar forma alla comunità di destino, a disegnare la trama e l’ordito dell’esistenza comune, a smerigliarne le superfici e gli angoli in vista dell’agognato e pluribus unum.”
Vedo che è difficile trovare il coraggio, in Italia, di servirsi del termine proibito: Nazione. Occorrerebbe invece fare una distinzione tra il sentimento nazionale e le varie forme di associazionismo e comunitarismo di tipo nazionale o transnazionale, cui il testo di Croce sembra, in maniera restrittiva (se ho ben capito), riferirsi
Galli della Loggia ci illumina sul significato particolare che il termine “politica” riveste in Italia. Nel suo “L’identità italiana” (Bologna: Il Mulino, 1998) si legge (p. 93): (…) la politica in Italia si lega sempre di più ad una dimensione di esclusivo potere, viene considerata e praticata come puro esercizio di autorità e come appropriazione-distribuzione di risorse pubbliche”. Ed ancora (p. 94): “(…) ed è questo che fa terribile difetto nell’esperienza italiana: la politica pensata ed agita come definizione (e realizzazione) dell’interesse collettivo (…)”.