[È uscito nella collana «Scrittoio», diretta da Riccardo Burgazzi, Andrea Gialloreto e Srećko Jurišić per l’editore Prospero, il primo libro di Ludovica Del Castillo, Scusami se tardo a tornare. Goffredo Parise, una questione di vita (pp. XIV-269, € 24). Per la cortesia dell’editore proponiamo la prefazione al volume di Andrea Cortellessa].
Una scrittura esposta
di Andrea Cortellessa
«Finché leggevo le tue dichiarazioni nei colonnini del “Corriere” potevo dire: ma sì, le solite cose che ogni tanto si dicono per cercare di scrollarci di dosso l’intellettualismo di cui non possiamo liberarci, rimpiangendo un modo di raccontare che tanto ormai non riesce più a nessuno perché è finito con i russi dell’Ottocento. Invece in pratica ci sei riuscito a fare qualcosa di diverso, da come si faceva ieri e da come si fa oggi, proprio nel modo di costruire il racconto, di mettere a fuoco il vissuto attraverso alcuni particolari e non altri, e a dare un taglio alla frase che è molto tuo e serve molto bene a quello che vuoi dire, insomma uno stile. E anche quel tanto di partito preso che ci metti nell’applicare questa tua poetica è proprio il segno del fatto che scrivi oggi, che “esegui un’operazione letteraria” (protesta pure) e il senso di quello che fai è proprio lì».
Chi scrive in questo modo a Parise – il 7 maggio 1973, a qualche mese dall’uscita del primo dei Sillabari, finito di stampare l’ottobre precedente – è uno scrittore molto diverso da lui che pure, qui come altrove, mostra di capire bene tanto i suoi presupposti (l’anti-intellettualismo, il disimpegno politico, il “sentimentalismo” da Parise ostentati con fare provocatorio nei suoi interventi e interviste a stampa) quanto la distanza che mostra, da loro, l’esito non meno che miracoloso di quel testo. È Italo Calvino che, senza entrare nel dettaglio dell’«operazione letteraria» del collega, allude a quanto di “costruito” vi sia nel «partito preso», al di là delle apparenze di una loro immediatezza perfettamente “naturale”, di quei brevi racconti che, dopo essere stati anticipati a loro volta sulle pagine del «Corriere della Sera», tanto stanno facendo discutere un’intellighenzia, quella italiana di allora, quasi compattamente orientata ai suoi antipodi. Del resto era stato proprio lui, Calvino, ad “agganciare” Parise, poco tempo prima, all’Einaudi (ci era riuscito, nello stesso periodo, anche con altri due transfughi dalla Feltrinelli traumaticamente orfana del suo fondatore come Giorgio Manganelli e Alberto Arbasino); e infatti, dopo le sospirate riedizioni del Padrone e del Ragazzo morto e le comete, è nei «Supercoralli» che ha visto la luce (con la copertina-manifesto del Cœur rouge di Giosetta Fioroni) il Sillabario n. 1.
Come ha scritto Marco Belpoliti alludendo al titolo del suo “libro segreto” e allora perduto (I movimenti remoti, appunto), i «movimenti» di Parise sono davvero quanto di più «remoto» si possa pensare, rispetto alla doxa ideologica e letteraria del tempo. Tanto che, oggi che da quella doxa siamo finiti in quella diametralmente opposta, e il sentimento della letteratura pare l’unica dimensione che preme a chi ancora si picchi di leggere (e, ciò che è più grave, a chi si ostini a scrivere), la «grazia» dei Sillabari, che tanto scandalizzava all’epoca, s’è fatta senso comune, per non dire moda: e quei racconti non a caso hanno goduto di pubblicazioni specifiche, riduzioni teatrali, registrazioni fonografiche. Ma oggi, più ancora che a suo tempo, ci si limita per lo più ad ammirarla e incensarla, quella «grazia», senza cercare di capire per quali vie abbia finito per illuminare la mano di Parise – come se dovessimo credere davvero in un dono degli dèi.
E se pure vogliamo ammettere questa “grazia” in senso letterale, come fa l’interessato scrivendo a Valentino Bompiani nel ’63 («purtroppo io credo nell’ispirazione. E questa ispirazione va e viene»), si capisce come a noi sublunari sia consentito interrogarci, invece, solo sul novanta per cento di traspirazione che segue al dieci per cento dovuto appunto all’ispirazione (secondo il detto attribuito a Thomas Alva Edison); o – volendo essere meno prosaici – sul secondo verso a partire dal quale secondo Paul Valéry, dopo il primo che pure secondo lui è un dono dei Numi, la responsabilità spetta tutta e solo a chi scrive.
È quello che fa in questo suo libro Ludovica Del Castillo: la quale mette capo in questo modo a un decennio di studi su Parise che, sin dal principio, hanno avuto al centro proprio il suo libro “donato dagli dèi”, i Sillabari. Come dice lei stessa commentando un altro exploit parisiano per certi versi tanto semplice quanto enigmatico, L’eleganza è frigida che vede la luce giusto dieci anni dopo (nello stesso 1982 del Sillabario n. 2), «l’armonia non è uno stato di grazia casuale, è una ricerca dolorosa e inesausta di conciliazione degli opposti». Il nucleo della sua ricerca consiste dunque nel sesto capitolo, che offre l’analisi comparata dei racconti nel loro passaggio dalle colonne del quotidiano ai libri del ’72 e dell’82. Uno scrutinio non solo e non tanto tradizionalmente variantistico, il quale non viene trascurato ma offre esiti tutto sommato limitati (non è il labor limæ in senso stretto, al livello dunque dell’elocutio, quello congeniale a Parise che – col suo eccezionale talento giornalistico – spesso scrive davvero come invasato da una forma di action writing: per parafrasare in campo letterario un’attitudine, più che una tecnica, a lui ben nota nel campo della pittura), bensì un’analisi strutturale della dispositio, da parte dell’autore, dei singoli lemmi nella cornice d’insieme: ovvero in quello che Maria Corti – giusto in quegli anni, e ragionando proprio su Calvino – chiamò «macrotesto».
Per questo, per inciso, il libro di Del Castillo prende le mosse da quella che giustamente riconosce come la “svolta” decisiva nel suo percorso (una svolta affrontata non solo da Parise, si capisce, in quei primi anni Sessanta), e cioè dal Padrone. Se i suoi libri precedenti erano davvero frutto di un istinto infallibile e quasi animale, da quel momento in poi – con una sensibilità, soprattutto a partire dal viaggio americano del ’61 qualche anno dopo descritto con toni affascinati ad Andrea Barbato, che lui non chiama in questo modo ma a posteriori non si può che definire “postmoderna”: vicina appunto a quella di certo Calvino, ma anche all’Arbasino della Gita a Chiasso e dei suoi tambureggianti reportage appunto americani sul «Giorno» – Parise scrive seguendo una non dichiarata ma ben ricostruibile (e da Del Castillo, infatti, attentamente ricostruita) «operazione letteraria».
Un’operazione dal decorso, diciamo, sinusoidale: da un massimo di aderenza “in negativo” alla temperie sociale e culturale del suo tempo, con l’alienazione e la reificazione dell’individuo descritte in toni grotteschi e parodici nel Padrone, plumbei e lancinanti nel Crematorio di Vienna (testo subito successivo nella stesura, anche se pubblicato con notevole ritardo: quando cioè il suo autore è già volto ad altri lidi), a una massima presa di distanze, da quello stesso mondo “oggettuale” e “seriale”, con la deliberata reductio allo stadio “primario” dei «sentimenti» o, per meglio dire, dei sensi: quella segnata, naturalmente, dai Sillabari. È una rivoluzione copernicana, questa di Parise, che Del Castillo sintetizza benissimo con la formula del passaggio «dall’assenza all’essenza».
Il modo specificamente parisiano di costruire il racconto, per dirla con Calvino, ossia il suo mettere a fuoco il vissuto attraverso alcuni particolari e non altri, il taglio dato alla frase in cui consiste il suo stile, si rivela frutto – nell’analisi minuziosa di questo libro – appunto di un taglio, o meglio di una serie di “tagli”: non solo quelli, in senso letterale, dei tre cosiddetti «Sillabari esclusi» (cioè dei racconti Benessere Borghesia, Obbedienza e Politica che, sebbene usciti sul «Corriere» nella rubrica «Sillabario», non figureranno né nel primo né nel secondo dei Sillabari in volume), ma il “taglio”, cioè l’orientamento dato al “disegno” architettonico dei due libri, non risponde ovviamente al feticcio della «poesia», che non aliterebbe su quei testi a differenza che negli altri, bensì a simmetrie interne che rispondono a un ordine essenzialmente tonale, cioè musicale. L’onomastica dei personaggi, per esempio, non viene analizzata da del Castillo solo per censire l’autobiografismo (che è del resto un presupposto generale dei Sillabari, ma se è per questo dell’intera opera narrativa di Parise) dei vari episodi, come non si è mancato di fare in passato, ma soprattutto per evidenziarne gli effetti di eco e ribattitura (quasi simili a quelle che nella poesia trobadorica, alle origini della composizione lirica moderna, si chiamavano coblas capfinidas; e chissà che Montale nel ritrarlo «incapsulato in una botte» nel Diario del ’72, ispirandosi al «sillabario» Caccia, soprannominandolo Jaufrè – cioè Rudel, il cantore provenzale dell’amor de lonh – non alludesse pure a questo) che guidano il loro rabdomantico artefice nel “comporre” la sua partitura. En passant, l’analisi variantistica (nella fattispecie, di uno dei rari passi aggiunti da Parise nel passaggio dal quotidiano al libro: nel «sillabario» intitolato Sesso) consente pure, a Del Castillo, l’effetto collaterale di corroborare la datazione invalsa, al 1979, per l’altro inedito che ha segnato la fortuna postuma di Parise: L’odore del sangue.
Proprio un’altra serie di riverberi, fra il Sillabario n. 2 e il tormentato romanzo (cui mancò proprio, per quanto di minima entità, l’ultima lima dell’autore – e in verità si sente) di quella Roma abbrunata di ossessioni sessuali e violenze politiche, consente del resto a Del Castillo di spiegare un altro piccolo o grande mistero. Cioè l’abbandono del secondo Sillabario all’altezza della lettera «S»; allorché, more solito, Parise chiamò in causa la «poesia» dalla quale asserì d’essere stato «abbandonato»: perché lei, la «poesia», si sa, «va e viene, vive e muore quando vuole lei […]. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore». Volendo sforzarci di “tradurre” questa frase in termini meno idiosincratici, se non più razionali, ad abbandonare Parise in quei plumbei anni Settanta (l’ultimo dei racconti, Solitudine, esce sul «Corriere della Sera» all’inizio dell’80) fu appunto «la vita», cioè l’energia esistenziale necessaria alla struggle for life – viene da dire nei termini cari al discepolo di Charles Darwin – che sempre più sentiva affievolirsi col declinare delle sue condizioni di salute: eloquenti, in tal senso, i foschi propositi autodistruttivi a più riprese enunciati, allora, in forma più o meno esplicita.
A dissipare la vitalità disperata – e sempre disposta a volgersi nel suo simmetrico contrario: come solo nel “fratello” Pasolini, per il quale Parise provava tanta Antipatia personale quanto un’inconfessata attrazione ideologica – era stato un decennio di dispendio di sé dalla neppure così segreta matrice nichilista: nella quale l’«inviato speciale», come scrisse una volta l’amico Andrea Zanzotto, indulgeva con speciale compiacimento al brivido delle «piste nere» che più lo mettevano a repentaglio (la storia dei suoi ripetuti viaggi in Oriente è tutta nel segno non solo del pericolo fisico, sugli elicotteri dei marines in azione di combattimento, ma anche della provocazione temperamentale, prima che ideologica, nei confronti degli occhiutissimi mandarinati comunisti). Non è affatto un caso che la costellazione che fa capo all’altro capolavoro di Parise, Guerre politiche, rappresenti l’altro fuoco del libro di Ludovica Del Castillo.
Il titolo di un suo capitolo, Professione: reporter, parafrasa quello d’un celebre film di allora, di Michelangelo Antonioni (che a sua volta passò più d’un guaio, non tanto dissimile da quelli del collega scrittore, quando pagò il proprio tributo – ma in modo, si vede, non abbastanza ossequioso – all’ossessione “cinese” della sinistra d’allora col suo documentario Chung Kuo Cina); e mette a fuoco l’attitudine al reportage di chi, senza tanto teorizzarlo (come aveva fatto invece un suo idolo di gioventù, Truman Capote), ha inventato, nella nostra letteratura, il new journalism e la più tipica non-fiction: che tanto ha fatto scuola negli scrittori (e nei cineasti) delle generazioni successive.
Dopo tante tempeste ideologiche è lecito concludere, oggi, che Parise – letteralmente cresciuto, a suo tempo, nelle redazioni dei giornali – è stato il più grande giornalista italiano della seconda metà del Novecento: se Curzio Malaparte lo è stato della prima metà. Entrambi hanno avuto in sorte di confrontarsi con la storia alla luce più viva, e più distruttiva, dei suoi fuochi; entrambi hanno saputo affrontare le “guerre politiche” del loro tempo, mantenendosi sul ciglio della controversia senza a ben vedere mai prendere parte davvero per una delle parti in lotta; entrambi hanno interpretato con gli strumenti letterari più attuali, fra quelli a loro disposizione, una vocazione squisitamente “corporale”, una «giostra dei sensi» che ai loro lettori hanno saputo trasmettere, nel bene e nel male, come nessuno prima o dopo di loro.
Ed entrambi hanno avuto, non a caso, un temperamento eminentemente visivo. «Io scrivo per immagini e non per concetti», suona una delle dichiarazioni più citate di Parise. E non tanto, stavolta, nel senso dell’immaginazione attiva che come si ricorderà Calvino evocava, per la sua inventio narrativa, nella «lezione americana» sulla Visibilità; quanto piuttosto nell’attitudine – tanto meno cerebrale quanto più sensuale – al «visto cogli occhi» («U must c with your own eyes» dirà il suo miglior continuatore, il Vitaliano Trevisan di Black Tulips). Il marchio a fuoco lancinante del «sillabario» Fame, che torna sullo scenario sconvolto del Biafra esplorato in uno dei reportage di Guerre politiche, è il manifesto indimenticabile di questa poetica dello sguardo che non a caso non si mancò di leggere, allora, in continuità con l’école du regard del «Nouveau roman» francese. Ma di quello l’action writing di Parise era tanto meno programmatico, e tanto più istintivo: non senza la brutalità che l’esempio appena fatto illustra senza remissione. Non a caso volle prendere le distanze, all’indomani della pubblicazione dell’Eleganza è frigida, dal precedente difficilmente aggirabile dell’Impero dei segni di Roland Barthes: che gli pareva, a torto o a ragione, troppo analitico e intellettualistico.
Eppure – Parise non poteva saperlo, ché queste pagine sono rimaste inedite sino al 2003 – proprio Barthes, nelle lezioni da lui tenute fra il ’78 e l’80 al Collège de France sulla Preparazione del romanzo, s’era a lungo interrogato su una possibile parentela strutturale fra due sue passioni in apparenza remote fra loro, l’haiku e la fotografia: entrambe forme di «semplificazione fulminante», per dirla appunto con una nota formula di Parise, che è irresistibile accostare alla maniera dei Sillabari (e di quei “post-Sillabari” che sono le bellissime prose di Lontano).
La visività parisiana, sulla quale comprensibilmente s’incentra parte cospicua della sua attuale fortuna critica, consiste in quella che Ludovica Del Castillo chiama, con un’altra formula di grande efficacia, «scrittura esposta». Esposta nel senso dell’idiosincratico soggettivismo («una forma ibrida, memoriale, in prima persona») che s’incentra non tanto sui concetti e sugli umori, quanto – direbbe lo spinoziano Deleuze – sui «percetti» di chi dice «io»; ma costantemente esposta, pure, «a emergenze umane violente che avrebbero potenziato la sua vena poetica». Nonché esposta, se si vuole, come una pellicola fotografica sempre pronta a impressionarsi dei colori e delle forme del mondo.
Un po’ come uno scrittore che apprezzava, il Christopher Isherwood che si paragonava a «una macchina fotografica con l’obiettivo aperto», e un artista che ammirava, l’Andy Warhol che con una Polaroid viveva sempre a tracolla e diceva di voler «essere una macchina», non solo in Cara Cina dove cerca esplicitamente di mutuare un’ottica fotografica, l’atteggiamento del Parise reporter – nota con acutezza del Castillo – è «deliberatamente quello del testimone: un osservatore che cerca di essere il più possibile oggettivo». Ma non con l’asettica deontologia di un occhio neutrale. Quello di Parise è, viceversa, un occhio sempre parziale, coinvolto, emotivamente impressionabile, come appunto un materiale fotografico analogico: e infatti, anche a distanza di decenni, reca i marchi mnèstici di quelle impressioni (come, sopra tutte, quelle in tutti i sensi violente del Vietnam). In questo senso si può mutuare la definizione, di Franco Marcoaldi, del suo «occhio vivente».
Anche in questa esasperata visività non si può negare che Parise abbia precorso i nostri tempi. Piacciano o meno, è oggi che riconosciamo come vere le parole sprezzanti rivolte da Parise nel ’65 a Giuseppe Prezzolini: «la parola scritta, usurata nella sua essenza, è una sorta di linguaggio cirillico che scomparirà al più presto. In questo paese poi, di materia pura, di materia visiva». Di quell’anno è Il padrone, che nel suo provocatorio anti-psicologismo (anche a fronte delle tematiche più “attuali” del dibattito socio-politico d’allora) ostenta un’estasi delle superfici non meno che oltranzistica, commisurabile a quella dei più audaci e provocatori esperimenti della Neo-avanguardia allora sugli scudi (“scandalosa” la cover editoriale, nella quale Parise ottiene che venga riprodotto un fumetto disneyano).
È un caso che l’ultimo libro da lui licenziato (il quale oltretutto assomma pagine di diversi periodi, per lo più risalenti agli anni Sessanta) sia Artisti, che esce due anni prima della morte precoce, nell’84. Qui Parise non manca di far cenno alla sua remota vocazione di pittore, a suo dire abortita all’atto di visitare la Biennale del ’48 e constatare, nell’occasione, come il mondo espressivo al quale avrebbe voluto dar vita era stato già tutto esplorato da pittori come de Pisis e Chagall. Ma qui si legge pure, a proposito di Renato Guttuso, che guardando un dipinto «non c’è niente da capire: basta guardare; quello che vedi è tutto chiaro, e comprensibile ed enumerabile, quello che non vedi non c’è». Mentre in un’intervista ancora successiva si legge che «l’immagine supera qualsiasi parola scritta, perché parla da sola. È una cosa che si vede, che si tocca». Anche un altro scrittore suo amico che ha frequentato spesso e in periodi diversi il mondo degli artisti, Alberto Moravia, teorizzava che di fronte alla vera arte «non c’è niente da dire». Eppure il silenzio ermeneutico di Parise, chiamiamolo così, a differenza di quello come suo solito tautologico di Moravia, è colmo di umori e movenze che – più sulla personalità degli artisti che sulle loro opere – ci dicono invece moltissimo. È davvero singolare la pagina del ’75 su Guttuso nella quale lo scrittore dialoga non col pittore, secondo una ben attestata tradizione, bensì direttamente col suo dipinto più celebre, La vucciria: a dispetto dell’epochè alla quale s’è già risolto, resta nel primo una qualche resipiscenza, e allora cerca di «definire e incasellare dentro un qualche schema possibile quello che ho visto», ma il dipinto respinge ogni suo tentativo: «non c’è nulla da definire […]. Ci sono le cose che ci sono e che hai visto, e basta». Parise resta interdetto, sospeso: «sono ammirato e perplesso. […] Perché quello che dici è troppo semplice. Eppure sento che non lo è».
È così. La reductio al «sentimento» dei Sillabari, o alla pura immagine del «basta guardare» di Artisti, è certo una «semplificazione fulminante», ma in sé è tutt’altro che «semplice». Ha a che fare anzitutto con la sua ostinazione percettiva, naturalmente, ma anche con la complessa ambivalenza del vitalismo di Parise, col determinismo biologico che spettralmente interroga il fantasma delle sue origini, forse soprattutto col suo acutissimo senso fisiognomico. Ha ricordato il più sensibile dei suoi biografi, Nico Naldini, la sua «attenzione alla presenza delle persone, alla fisiognomica, ai messaggi del corpo e alle sue espressioni, specie se seminascoste o occulte»: quello sguardo penetrante e talora in apparenza malevolo col quale scrutava i difetti di chi incontrava, i loro imbarazzi, i loro inherent vices nei quali spiava, in effetti, quelli che paventava come i propri. «Quello sguardo», secondo Naldini, non era «indagatore, bensì, per così dire, intensamente speculativo». Dove del termine si dovrà trattenere non solo la componente specificamente ottica ma anche quella, per così dire, filosofica. Diceva Barthes nella Camera chiara che la sua strenua attenzione al dettaglio, e al punctum col quale lo trafiggeva, era funzionale al progetto, o piuttosto al sogno, di una «mathesis singularis» che si potesse sostituire a quella «universalis» coltivata da Leibniz. Una scienza non delle medie e delle norme, ma delle eccezioni e delle singolarità.
Se c’è un autore che incarna questo sogno, nel Novecento letterario italiano, è il più idiosincratico e il più radicale, il più impulsivo e il più emotivo, il più prensile e il più rapido. Il più esposto, il più fulminante.
[Immagine: Foto di Ugo Mulas].