Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di  
  
Emanuele Leonardi e Giulia Arrighetti

 

[Pubblichiamo la postfazione di Laura Centemeri al volume di Davide Olori, Il futuro non è scritto. Disastro, territori e organizzazione sociale, in uscita a luglio per i tipi di Orthotes Editrice].

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La scommessa del possibile contro l’esproprio del futuro

di Laura Centemeri

In questo libro, il cui titolo chiarisce fin da subito un partito preso per il “possibilismo”, Davide Olori tesse sapientemente una trama analitico-interpretativa in cui si intrecciano la discussione dei diversi paradigmi che sono operativi nella ricerca sociale sui disastri, i dati ricavati da una serie di rigorose ricerche empiriche e il ritorno riflessivo su oltre un decennio di esperienze di indagine e azione in contesti di ricostruzione post-terremoto.

Ne risulta una rappresentazione del disastro come “fatto socio-ecologico totale”. Se per l’antropologo Marcel Mauss un “fatto sociale totale” è capace di mettere in moto l’intera società e le sue istituzioni, parlare dei disastri come di fatti socio-ecologici totali vuol dire sottolineare che i disastri, qualsiasi ne sia la fenomenologia, sono momenti che gettano luce non solo sui processi che presiedono al mantenimento dell’ordine sociale, o alla sua trasformazione. Fanno anche uscire dall’ombra in cui sono tradizionalmente relegate le interdipendenze tra i modi dell’organizzazione sociale della sussistenza umana, le infrastrutture che li supportano e le ecologie materiali che ne risultano.

 

Davide Olori presenta il disastro innanzitutto come un oggetto di indagine su cui la ricerca sociale ha misurato tanto il proprio potenziale di contribuire ad elaborare strumenti utili al governo delle popolazioni e dei territori quanto la propria capacità di portare uno sguardo critico su questi stessi modi di governare, in ragione del loro legame con processi che naturalizzano diseguaglianze. Da un lato, cioè, la ricerca sociale ha operato all’interno del patto che del disastro fa un’esternalità, un effetto inatteso di un sistema altrimenti ben funzionante, l’anomalia da ricondurre alla norma, l’eccezione che conferma la regola. È il modello che ritroviamo nell’idea oggi tanto alla moda del Building Back Better: ricostruire tutto come prima, meglio di prima.

 

Dall’altro lato, la ricerca sociale ha scardinato questa visione mostrando che il disastro è il prodotto di un’organizzazione sistemica in cui costi e benefici sono distribuiti ingiustamente ma funzionalmente alle ragioni del potere (inteso come potenza, come potere di potere) e del profitto. Per chi si ricostruisce meglio? Meglio rispetto a quali regimi di valutazione? Chi decide cosa è meglio? Chi decide cosa è danno e cosa non lo è? Chi decide cosa e come debba essere riparato? Questi interrogativi illuminano processi che sono altrettanti momenti di incertezza, tanto epistemica quanto normativa, in cui si dà a vedere la complessità politica del disastro, dei processi di definizione dei danni e dei modi della loro riparazione

Il disastro appare allora come un momento politico di prim’ordine, un campo di battaglia dove si moltiplicano conflitti ma anche controversie. Sì, perché il disastro è un momento politico ma anche, sempre e inscindibilmente, socio-tecnico. Per questo è un fatto socio-ecologico totale, perché chiama in causa anche quella membrana connettiva tra società e ambiente che è costituita dall’insieme delle scelte tecniche attraverso cui l’organizzazione sociale si traduce materialmente in un complesso di infrastrutture che “mettono in forma” le interdipendenze materiali in modo da garantire un certo tipo di ordine, tanto sociale che materiale.

 

Il momento politico del disastro obbliga a interrogarsi sulle trasformazioni sociali e socio-tecniche, a mettere in luce le differenze tra trasformazioni che operano il più delle volte per accelerazione e intensificazione di processi pregressi e trasformazioni che consistono, molto più raramente, in forme di riconfigurazione dei processi e di redistribuzione delle risorse, dei poteri, delle responsabilità. Il disastro come momento politico è un osservatorio delle dinamiche dell’azione collettiva, da cui è possibile mettere in luce tutte le difficoltà del mobilitarsi e il ruolo sempre più centrale che hanno le questioni tecniche nelle mobilitazioni contemporanee. Al tempo stesso permette di vedere all’opera le istituzioni dello Stato e le logiche che guidano i loro interventi. Proprio l’esistenza dello Stato burocratico moderno, con la sua promessa di previsione, garanzia e sicurezza che giustifica l’introduzione di apparati di controllo e sorveglianza, fa sì che il disastro possa potenzialmente configurarsi come uno “choc morale” che porta a denunciare le responsabilità e le incompetenze. Il disastro si configura allora come una “prova di realtà” per lo Stato e come un’occasione per una sua critica radicale. Se non fosse che ormai da tempo gli Stati appaiono preoccupati in prevalenza per la sicurezza dei mercati e degli investimenti di stakeholders capaci di far muovere percentuali di PIL. Il succedersi di situazioni di crisi sembra tradursi in un progressivo disincanto rispetto alle istituzioni della democrazia rappresentativa, incluso l’esercizio della critica, laddove queste istituzioni siano ancora operative.

 

Le ricerche, anche quelle di Olori, dimostrano che l’esperienza del disastro non si traduce necessariamente in una domanda sociale di cambiamento e, ancora meno necessariamente, in una domanda di cambiamento nella direzione di un intervento che agisca sulle condizioni strutturali da cui originano le vulnerabilità. Al tempo stesso il disastro e la sua memoria possono costituire una “riserva” di risorse utili alla critica nella misura in cui, con gli strumenti dell’analisi storica, si riescano ad incrinare le narrazioni ufficiali, dando voce a vittime silenziate, ridando corpo a perdite liquidate come ininfluenti. Il disastro, da questo punto di vista, è spesso un passato che non passa.

 

Ho fin qui evitato di definire cosa debba intendersi per disastro, ovvero di cosa parliamo quando parliamo di disastro. Da questo punto di vista, il lavoro di Davide Olori mette in luce un “sentiero stretto” percorribile tra le due alternative del realismo e del costruttivismo. Questo sentiero stretto consiste nell’articolare il più possibile un’analisi sistemica e un’analisi interpretativa. In altri termini, si tratta di considerare quella di disastro come una “categoria” che è stata forgiata per dare un senso a situazioni esperite come problematiche. Situazioni che possono essere lette, da una prospettiva sistemica, come l’esito di processi strutturali. Il senso che viene attribuito alla situazione problematica determinerà poi ampiamente le forme di apprendimento, tanto individuali che collettive.

Alla categoria di disastro sono associati dispositivi, strumenti, politiche, tutto un ordine del discorso che ha il compito di ricondurre la perturbazione nell’alveo del noto, permettendo l’azione pubblica. Altre categorie possono essere chiamate in causa, come quelle di crisi, di disgrazia, di crimine, di catastrofe per evocare solo alcuni dei possibili contro-discorsi. Si tratta allora di prestare attenzione al gioco del discorso dominante e dei contro-discorsi ma anche di ricostruire i contesti in cui questi discorsi e contro-discorsi riescono o meno a fare presa.

 

Interessarsi ai contesti e alla loro irriducibile singolarità richiede l’adozione di metodi etnografici di inchiesta per acquisire una comprensione profonda delle tessiture relazionali, tanto sociali che ecologiche. Richiede anche una temporalità lunga della ricerca, per poter riconoscere le permanenze e le invisibilità, le stratificazioni e il peso dei precedenti, la “storicità” del fatalismo e della rassegnazione. Il corpo a corpo con i luoghi del disastro è decisivo per far avanzare la ricerca. Permette di andare al di là tanto del contributo che si limita a fornire strumenti di gestione del disastro buoni per tutte le stagioni che, all’opposto, della denuncia dell’inesorabilità dei meccanismi che dei disastri si alimentano e che i disastri li riproducono. In entrambi i casi si prescinde dalla diversità e dalla specificità dei micro-mondi che si trovano in interazione tra loro e con i dispositivi della gestione dei disastri oltre che con i meccanismi che contribuiscono alla loro (ri)produzione.

 

Scriveva Honoré de Balzac che “non c’ è niente a questo mondo che sia di un solo blocco. Tutto vi è mosaico». L’attenzione al mosaico della realtà sociale comporta di interessarsi alla singolarità delle esperienze. La singolarità ci riporta a un’irriducibilità della vita alla norma, a un senso di possibilità e di apertura del futuro. Riannodare, con una sensibilità che si potrebbe definire vitalista, serve a richiamarci al dato di fatto che il futuro non è scritto – come Davide Olori ci ricorda. Questo non vuol dire alimentare un ottimismo incondizionato nelle virtù emancipatrici di una ritrovata alleanza con il vivente. Vuol dire, più modestamente, alimentare un approccio alla ricerca che è attento a cogliere i segnali di ciò che sfugge alle interpretazioni proposte o che le disconferma, e che obbliga a rimettere in discussione gli assunti da cui si è partiti. È, cioè, un antidoto al dogmatismo, alle profezie che si auto-avverano e un invito all’osservazione attenta come premessa di qualsiasi interpretazione.

 

Da questa postura discende anche un modo di intendere la ricerca sui disastri come terreno di impegno pubblico, a partire da un’implicazione forte di ricercatori e ricercatrici nei territori disastrati. Questa implicazione è guidata proprio dall’individuazione di spiragli di possibilità che la ricerca ha vocazione a sostenere, a partire da un’implicazione diretta in attività di progettazione che danno corpo a un’altra visione della ricostruzione. Le pagine che Davide Olori dedica alla ricostruzione nell’Appennino Centrale ci parlano di un territorio trasformato in tabula rasa e messo a disposizione di un’immaginazione progettuale calata dall’alto, che poco ha a che vedere con quell’attenzione alla specificità e all’irriducibile singolarità dei contesti su cui ho insistito come chiave di volta di un’apertura del futuro a delle possibilità ancora da scrivere. Al tempo stesso, ricostruire capacità progettuali in queste aree fragili non vuol dire celebrare le fantomatiche risorse di resilienza di altrettanto fantomatiche comunità capaci di prendersi in mano o ancora meno incorniciare come buona pratica l’esperienza di qualche “eroico” innovatore portato a prova che “volere è potere”. Vuol dire rimboccarsi le maniche, lasciare temporaneamente da parte schermi e tastiere del computer, trovare modi di rammendare alla meglio tessuti sociali laceri, riparare ecosistemi rovinati, guadagnarsi la fiducia di quelle persone che lasciano qualche spiraglio aperto alla discussione, una porta socchiusa. Bisogna dare prova di affidabilità, far vedere che ci si tiene, e alla fine ci si ritrova che ci si tiene davvero.

 

Da questo impegno concreto, da questa implicazione personale nascono le condizioni perché la ricerca possa davvero essere al servizio di un futuro da scrivere democraticamente, anche in quei luoghi scivolati in una marginalità che li lascia vulnerabili non solo ai disastri ma agli appetiti di speculatori vecchi e nuovi, vicini e lontani.

Quello che la ricerca sui disastri dovrebbe fare confligge drammaticamente con quelle che sono le condizioni in cui ormai si esercita la ricerca sui disastri: precarietà e temporalità corta del progetto regnano tanto dentro come fuori le università, condannando la ricerca sui disastri a un’ampia irrilevanza sociale. Alla luce di ciò, appaiono preziosi i tentativi di costruire altri modi di fare ricerca sui disastri, pur con tutti i loro limiti. Ne è un esempio il collettivo di ricerca Emidio di Treviri, di cui Davide Olori è stato tra i promotori e che, tra le altre cose, ha cercato di riprendere il filo di un’eredità importante nella sociologia italiana, una tradizione che muove dalle esperienze di Danilo Dolci e il suo Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione nel Belice.

 

Questo libro, che parla principalmente alla comunità scientifica, testimonia di come “l’enorme fatica di intrecciare ricerca e intervento”, come scrive Vando Borghi nella prefazione al volume, sia una fatica necessaria tanto a rendere la conoscenza capace di fare presa sui processi reali quanto a riconfigurare le forme della conoscenza per evitare che la ricerca sociale si chiuda in un’auto-referenzialità pericolosa.

In un contesto in cui si moltiplicano le crisi e in cui proliferano gli scenari di collasso, è più che mai importante che la ricerca sociale, nel momento preciso in cui le mort saisit le vif, si schieri dal lato del vivo che si ribella al morto, scommettendo su un avvenire da preparare e non unicamente a cui prepararsi.[1]

 

Note

 

[1] Riprendo qui un’immagine dei sociologi Francis Chateauraynaud e Josquin Debaz in Aux bords de l’irreversible. Sociologie pragmatique des transformations, Editions Petra, Paris 2017, p. 141. È l’occasione per ringraziarli di un’amicizia ormai più che decennale e per sottolineare l’importanza dell’approccio sociologico da loro elaborata all’analisi dei rischi collettivi, delle situazioni di crisi e del catastrofismo. I concetti di presa e di micro-mondo a cui ho fatto ricorso nel testo rimandano ugualmente alla loro lettura pragmatica e pragmatista delle trasformazioni sociali.

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