[In un mondo sempre più complesso e stratificato ha senso tornare a discutere, in modo aperto, critico e libero, del rapporto fra autenticità e scrittura poetica. Per questo, partendo da una ricerca di Maria Borio e da un dialogo fra quest’ultima e Laura Di Corcia, è nata l’idea di allargare la discussione ad altre poete e poeti, in vista di una tavola rotonda che si terrà a PordenoneLegge il prossimo settembre. Il dibattito, sotto forma di intervista, sarà ospitato dai litblog Le parole e le cose, Nazione indiana e dal sito di PordenoneLegge stesso. Il primo a rispondere ai quesiti è Roberto Cescon.]

 

L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?   

 

 

C’è stato un tempo in cui un’anima nobile non era quella fedele a se stessa, ma quella in cui spontaneamente le intenzioni e i comportamenti si accordavano al sistema di valori propri della classe dominante. L’esperienza individuale non era un ideale di comportamento; non c’era neppure un sé al quale essere fedeli. Nemmeno il conosci te stesso socratico o l’esame di coscienza di Seneca erano volti alla scoperta del vero sé, che stava piuttosto al di là dell’individuo e delle sue passioni: sono cosciente di me quando mi libero dalle emozioni e dalle passioni per approdare a me in quanto parte della natura.

Poi la cultura dell’umanesimo, i processi di urbanizzazione e di mobilità sociale, la dissimulazione e i valori illuministi di libertà e uguaglianza hanno portato a concepire l’esistenza individuale unica e originale, in sé importante. Allora si è autentici quando si esprime la propria individualità, si combatte per la propria libertà[1], emancipandosi (in solitudine) dalle pratiche sociali.

 

Questo ideale eroico di autenticità ha pervaso la vita comune[2], mentre oggi è divenuta un ideale di massa. Sii te stesso, come tutti. L’autenticità è estetizzata e consumata, ma soprattutto sembra che sia conquistata all’apparir del sé, non più nella solitudine interiore. Pensiamo al privato pubblico, alle telecamere negli spogliatoi, alla televisione-verità (di fronte alle telecamere vogliamo vedere la verità delle persone), ai fake self, al cibo autentico e genuino che ci rende autentici, alla ricerca spasmodica di luoghi più autentici di altri da visitare, ai compiti autentici assegnati a scuola, ai seminari per liberarsi dagli ostacoli che ci allontanano dal vero sé (e magari per incrementare gli score aziendali), all’arte che serve a esprimere se stessi, all’ormai diffuso fenomeno dello scioglimento dei matrimoni (da quando sto con lui non sono più me stesso, anche se quando l’hai conosciuto ti sentivi proprio te stesso) e all’istituzione familiare imperniata sul benessere psicologico dei suoi membri, al ricorso alla chirurgia estetica per tornare al sé migliore (e giovane), al genere non più come condizione biologica, ma come esperienza identitaria, alla pelle sovraimpressa dei tatuaggi per mostrare il proprio vero volto. Sembra che l’autenticità sia volta al piacere e al benessere e debba essere esposta al cospetto dell’altro, anzi è proprio all’interno di uno spazio comune che è possibile trovare se stessi.

 

Riprendendo la proposta di Maria Borio e Laura Di Corcia sull’autenticità come aderire provato della forma all’esistenza, va considerato che essere autentici è un’impresa non tanto perché la verità giace al fondo o per i cambiamenti cognitivi e sociali in senso espressivista, ma anche perché siamo noi stessi ad autoingannarci quando la parte cosciente della nostra mente è tenuta all’oscuro della “verità” presente a livello incosciente: ad esempio mentiamo a noi stessi, reprimiamo o manipoliamo ricordi, ci costruiamo una falsa immagine di noi per difenderci o apparire migliori, magari in contraddizione con il nostro comportamento. L’ultimo velo, prima del segreto, è sempre il penultimo. Non sto pensando alla distinzione operata dalla psicanalisi tra sistema conscio come una sorta di maschera che rende possibile all’organismo vivere nella società, e sistema inconscio in cui risiedono le intenzioni e le verità represse. L’autoinganno è infatti un dispositivo evoluzionistico che aiuta le specie a sopravvivere. Basti pensare al rapporto tra preda e predatore, tra parassita e ospite, agli inganni messi in atto dai virus per riuscire a entrare nell’ospite. Vi sono anatre che, minacciate dalla volpe, restano immobili fingendosi morte o esibendo un’ala spezzata. In Africa vive una specie di farfalle dal sapore sgradevole; nella stessa foresta si trovano altre cinque specie, ciascuna con colori diversi, che imitano lo stesso sapore. Le altre specie di farfalle dal sapore non sgradevole imitano le cinque specie velenose per mettere in difficoltà gli uccelli predatori. Pensiamo a quando usiamo eufemismi per attenuare concetti e condizioni socialmente poco tollerabili: negli anni Ottanta handicappato era un termine all’avanguardia, mentre oggi è atipico, in gara con diversabile, ma (o bisognerebbe dire proprio perché) il timore della nostra imprevedibile vulnerabilità è il medesimo. Pasolini in Appunti per un’Orestiade africana usa con disinvoltura la parola negro che oggi desterebbe indignazione. Lo stare al mondo degli organismi comprende comportamenti autoingannevoli. Chi indaga l’autenticità deve farne i conti.

 

Per mettere in questione l’argomento ancora più alla radice, si potrebbe sostenere che la lingua stessa è un filtro inautentico tra il nostro stare al mondo e l’esserne coscienti, perché ci distanzia dal sentirci vivi nell’esperienza, rappresentata tramite la lingua. Bergson chiama «intelligenza» questo modo di stare al mondo esclusivo dell’essere umano, mentre agli altri animali appartiene l’«istinto». Egli descrive l’affascinante scena della vespa[3], che riesce sempre a pungere il fiore, compiendo un’azione naturalmente perfetta, poiché la vespa non «ha» il fiore, ma lo «è», cioè il suo agire è immediato, automatico, in quanto parte dell’ambiente. L’uomo invece non «è» le cose, poiché − a causa dell’intelligenza, dice Bergson − egli simbolizza l’esperienza tramite la lingua, abitando così il mondo da una distanza. L’essere dentro la vita, fuori da se stessi, stare nel movimento delle cose senza porsi come differenza, è ciò che manca all’uomo e ciò di cui la lingua reca traccia nel fondo della catena prosodica.

 

A riguardo, viene da pensare all’interpretazione di Melandri del concetto di mimesi in Aristotele e nel mito platonico della caverna[4]. La mimesi rende possibile rappresentare le cose, ma esse sono luce abbagliante, mentre le loro ombre nella caverna ci consentono di situarci nell’ambiente. La mimesi è allora la propensione dell’essere umano a comprendere l’ambiente tramite la lingua, sapendo che egli scriverà sempre l’ombra delle cose. In particolare dalla lingua resta fuori proprio questa propensione, malgrado essa sia la condizione che anima la lingua e che si traduce nel compiersi dell’opera. La lingua (ma questo discorso vale anche per altre forme di rappresentazione simboliche e estetiche) può dunque esprimere l’ambiente, ma non la relazione con l’ambiente. Non si tratta della distanza incolpevole della lingua dai fenomeni, quanto della possibilità di concepire tale relazione soltanto nei termini della sua espressione. Questo impulso, secondo Melandri, si trova all’origine dei generi letterari. Essi hanno infatti una genesi, che segna il loro sviluppo storico, e far parte di un divenire permette di intuirne l’origine, cioè qualcosa che precede lo sviluppo temporale delle forme e che è intimamente connesso alla condizione umana. È proprio il divenire storico dei generi che allude a uno scaturire precedente e lo anima da fuori.

 

L’impulso dell’opera non è dunque da ricercare nella genesi dell’opera (ad esempio un evento nella vita dell’artista o la volontà in sé di creare l’opera), ma nella sua origine, vale a dire in quella propensione a comprendere l’ambiente, da parte del corpo, tramite la lingua, in una relazione tenuta insieme dal gesto che trasforma la materia non solo sonora. In particolare nella sequenza ripetuta dei gesti si fa largo la differenza tra il gesto consueto e quello che dà valore alla consuetudine del vivere, poiché il gesto intenzionale e rituale non è proteso al suo esito, ma sta nel processo, per dare valore all’agire stesso[5]. Ripetere quel gesto allora non è mai un ripetere identico, ma è tornare sempre nello stesso tempo. Dopo tutto repetĕre significa ritornare: un ritorno a cercare, ma anche all’inizio, per rinnovare qualcosa che si innesca nel movimento del ritorno.

 

È pur vero che comprendiamo l’ambiente tramite la lingua: tra il pensiero (determinato dai processi cerebrali) e la lingua, esiste, nella nostra mente, una relazione che precede il nostro parlare e che è innescata dal suono, presente già nel momento in cui si formano la sintassi e il lessico. È perciò il suono a consentire l’accadere della lingua, cioè del pensiero, nella nostra mente. Potremmo quindi intendere la lingua come filtro indispensabile e inautentico per stare al mondo. Non solo, ma comprendiamo le cose in termini di altre: per esempio, attribuiamo caratteristiche umane a entità inumane (es. Capo Nord, le gambe del tavolo, l’occhio del ciclone, la faccia della luna, i denti del pettine, la gola del camino) e caratteri fisici a entità non fisiche più astratte (es. «le sue idee vivranno per sempre», «la fine dell’anno scolastico è ormai vicina», «la loro relazione sta naufragando»). Tutto ciò con cui abbiamo a che fare è ricondotto al nostro modo di percepire il mondo perché la nostra specie comprende in modo metaforico, a causa della multimodalità neurale, cioè dell’integrazione tra neuroni motori e sensoriali. «La Juventus ha sconfitto l’Inter nell’ultima partita di campionato», «Hai colpito il suo punto debole». Non ne possiamo fare a meno, neppure in ambito scientifico, nel momento in cui bisogna definire nuove scoperte: big bang, brodo primordiale, buco nero, schiuma quantistica. Non possiamo farne a meno perché le metafore sono strumenti di comprensione che appartengono alla nostra esperienza percettiva e organizzano il nostro sistema concettuale e culturale.

 

Perfino la lingua poetica può essere considerata un artificio rispetto alla lingua della comunicazione. Non ricordo nessun amico che, smarrito o in crisi, mi abbia detto Spesso il male di vivere ho incontrato o Pace non trovo e non ho da far guerra, se non per appropriarsi di quei suoni in quanto incarnano il suo sentire. Tuttavia le pratiche formali della poesia sono volte a portarci nel vivo della nostra esperienza. Infatti l’origine (non finita) della poesia è la lingua dell’esperienza, legata al nostro essere situati nell’ambiente. Ma non basta. La poesia non è scavare finché troviamo la giusta vena da cui scaturisce uno sbocco del sé, ma è anche un metro, che è il modo in cui la mente percepisce il ritmo e che si nutre con la lingua altrui, l’eredità di altri esseri umani depositata nel tempo e rianimata nell’atto della lettura. L’esperienza entra in una forma in cui risuonano le braci linguistiche passate e vive. La poesia è allora un artificio che permette di dare forma alla voce. Potremmo dire che è il falso vero, una sorta di naturale artificio, che tende a far aderire la lingua dell’esperienza alla forma dell’esperienza. L’autenticità insomma non esiste, se non come campo di tensioni tra lingua dell’esperienza e forma dell’esperienza per comporre la voce che siamo, a patto di essere consapevoli delle insidie cognitive esplorate fin qui. Più che di autenticità potremmo  dunque parlare di voce: tocchiamo la nostra voce quando l’esperienza si compone in una forma. È la forma che invera l’esperienza, non ne è un effetto secondario. La forma riporta la lingua dell’esperienza (già distante dall’esperienza in sé) a quel punto che sentiamo vivo, senza mai raggiungerlo. Vi è sempre uno iato tra il vissuto e il compreso, ma la sfida impossibile è uscire da sé per sentire la vita, in un luogo − la lingua inverata dalla forma − dove i confini tra il visibile e ciò che accade nella mente si fanno permeabili e il sentire prevale sul comprendere, fermandosi sulla soglia della coscienza.

 

Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?

 

Per tornare alla suggestione della prima domanda, per realizzare l’autenticità non vi è altra via se non nella forma, che compone l’esperienza in una voce, fissandola nello spazio condiviso della lingua. In quel luogo una voce, rianimata nell’atto della lettura, entra nel corpo di un altro. Come?

Non è questione che coinvolge solo la biografia dell’autore, in quanto la persona che dice io appartiene a chiunque, perché ciascuno può percepire così il vissuto. Secondo Deleuze, «ogni volta che scriviamo, facciamo parlare qualcun altro. E innanzitutto facciamo parlare una certa forma»[6]. Nel mondo moderno a parlare sono le “singolarità pre-individuali, impersonali, che non si riducono né agli individui, né alle persone, né a un fondo indifferenziato. Sono singolarità mobili, veloci e volanti, che passano da uno all’altro, che fanno effrazione, che formano delle anarchie coronate, che abitano uno spazio nomade”[7]. A questo proposito Deleuze si riferisce alla «quarta persona singolare», un’espressione usata dal poeta Ferlinghetti per indicare un io-chiunque, in cui l’esperienza esce dall’individuo per risuonare in quella dell’altro. Se consideriamo la voce nei testi come una singolarità, ci attestiamo a un livello di lingua che racconta i frammenti dell’esperienza individuale per mostrare una condizione comune: ciascun essere umano è incarnato e situato con il corpo nell’ambiente e ciò che percepiamo diventa il nostro mondo, che accade nella mente a partire dal nostro agire nello spazio. Il nostro modo di percepire è colloidale e crea nella mente un campo di presenza vissuta dove dentro e fuori si tengono insieme (sono «visti» allo stesso modo), lasciando una incolpevole lacuna, poiché, a causa della nostra propensione biologica e cognitiva, non siamo in grado di percepire le cose mentre accadono (la coscienza ci allontana dal sentire), ma tramite la lingua e le sue forme cerchiamo di rinnovare l’intensità di un presente ricordato. Siamo tra, vicini e distanti dalle cose, sospesi nell’incompiuto dove spazio e tempo, vivi e morti esistono simultaneamente. L’autenticità potrebbe  dunque essere lo scrivere in quarta persona, dentro e fuori l’esperienza per abbracciare un punto di vista comune, mostrando il consistere fragile dell’essere umano, nella cui mente colloidale s’incarna il vissuto.

 

Fare esperienza è cosa comune del nostro stare nel mondo. La nostra vita è costellata di esperienze. Potremmo però considerare l’esperienza − mi si perdoni il poco spazio che raddensa l’argomento in una suggestione − non come un evento, ma come un processo che consente alle cose di accadere. Voglio dire che l’esperienza si trova in ogni evento contingente, ma innanzitutto è l’atto di accadere, è il processo-vivente che permette ovunque e ogni volta l’accadere delle cose, è l’atto del vivente che vive qui e ora, nella relazione.

Ad esempio se bevo un bicchiere di vino, al mio naso giunge il suo profumo, nelle mie papille gustative il suo sapore, mi ricordo di averlo già bevuto un’altra volta, l’estate scorsa, con un’amica, oppure non è vero ma ripenso a lei lo stesso, oppure posso sentire in quel sorso la mandorla, il pomodoro, il pepe bianco, la mineralità magari delle arenarie di origine ecocenica. Ma c’è un punto senza spazio e tempo in cui non ci sono né io né il vino, c’è solo il processo che consente a questa esperienza di accadere. Io e il vino, la mia coscienza e il mondo percepito dalla mia mente ci siamo perché esiste questo processo, che si verifica ogni volta in cui ovunque accade qualcosa. Ogni organismo non è solo vivente ma, in quanto vivente, è il processo che accade.

 

Se il desiderio, come spiega Lacan, viene dall’altro ed è quindi la traccia di una relazione o di un linguaggio che mi pre-esiste e dentro il quale oriento e contratto la mia identità, in cosa consisterebbe l’autenticità? E come essa potrebbe essere calata in una produzione letteraria? Per Andrea Zanzotto, ad esempio, a fronte di una natura che diventava inautentica con l’industrializzazione, la lingua e lo stile potevano mantenersi depositari dell’autentico. Lo stile e la lingua autentici dovrebbero cercare in ogni caso un nostro – per riprendere Natalia Ginzburg – “lessico familiare”?

 

L’incontro con la lingua avviene perché c’è chi si rivolge a un neonato, facendo divenire il suo pianto un appello. Qualcuno l’ha riconosciuto e l’ha accolto, agganciando il suono a un senso. Prima di entrare nella lingua, c’è solo un essere vivente che esprime un suono indistinto, legato ai bisogni di un corpo che gode di se stesso[8]: una condizione fuori dal tempo, da cui invece, nell’incontro con la lingua, affiorerà come coscienza individuale, in grado di simbolizzare la propria esperienza. Si compie così l’ingresso nell’umano e, al contempo, si abbandona quello stare dentro la vita, cosa per sempre inaccessibile al sé cosciente, se non attraverso l’imperfetto approssimarsi della lingua alle cose.

 

Addirittura, secondo Dean Falk, il bipedismo sarebbe alla base dell’origine del linguaggio o, meglio, delle nuove esigenze comunicative tra madri e figli, in un’ottica che considera i presupposti biologici per la nascita del linguaggio tra i sette e i tre milioni di anni fa. Infatti la stazione eretta ha modificato la pelvi e ristretto il canale del parto, facendo diventare il partorire delle ominine più doloroso di quello delle australopitecine. Il restringimento del canale del parto, unito al progressivo aumento del volume del cervello, sarebbe stato un vero e proprio «collo di bottiglia dell’evoluzione»[9], che causò da un lato miliardi di morti tra madri partorienti e neonati più grossi, dall’altro la nascita dei feti con capacità motorie e neurologiche più limitate, da sviluppare nel tempo, nonché predisposti al bipedismo, senza la forza necessaria per aggrapparsi alla madre, come invece accadeva prima (grazie alla prensilità delle dita dei piedi) e come accade tuttora ai primati non umani. Nello spostarsi insieme al piccolo − per raccogliere bacche e radici o altre attività simili − queste madri furono costrette a «mettere il bambino per terra»[10], perdendo il controllo e la vicinanza costanti e avendo pertanto bisogno di un nuovo modo per trovarlo: la voce. Questa serie di fatti, plausibili, avrebbe creato l’esigenza di instaurare una forma di comunicazione vocale, basata più sul contatto emotivo che sull’informazione da trasmettere, la quale avrebbe poi contribuito alla nascita del protolinguaggio. Questa sorta di linguaggio emotivo, chiamato «maternese» o «baby talk», presenta caratteri comuni nella nostra specie: ad esempio l’intensità di tono più alta (che esprime maggior vicinanza e amichevolezza rispetto ai suoni più gravi e aggressivi o ostili), la duplicazione e l’allungamento delle sillabe all’interno della parola e di alcune parole all’interno delle frasi, le parole più concrete e semplici, legate in particolare alle parti e alle funzioni corporee, i verbi al presente, le domande, i costrutti speciali o modi di dire. L’esposizione all’aspetto musicale e emotivo del linguaggio avrebbe spinto a apprendere l’uso degli organi fonatori per comunicare[11].

 

L’articolarsi della voce nello spazio sonoro è il modo in cui il linguaggio accade nel tempo ma, nell’accadere, esso evoca un altro tempo inafferrabile e impersonale, dove siamo entrati in contatto con la parte più viva di noi. Quel tempo ci prolunga e ci supera, situandosi tra noi e l’altro. Così i nostri contorni si dissolvono in questo limite, che potremmo chiamare nowhere: un luogo che, mentre si fa presente, esce dal presente per essere presente a sé, insituabile. Ecco, nowhere è il limite di sé nella relazione con l’altro[12], relazione che costituisce il fondamento dell’organismo, visto che nulla in sé riesce a esserlo: non il concetto di specie (poiché, secondo una prospettiva già darwiniana, tutte sono legate da genealogie più o meno distanti), non la cellula (poiché impegnata a mantenere l’omeostasi tra il nucleo e l’ambiente esterno, rispondendo ai segnali esterni sulla base della propria storia), non i geni (in quanto il genoma, per funzionare, ha bisogno di tradursi in funzioni fisiologiche). Non ereditiamo solo il DNA, in cui sarebbe scritta la nostra unicità, bensì anche l’ovulo di nostra madre, con i mitocondri, i ribosomi e altri componenti citoplasmatici, la chimica dell’acqua, la chimica dei lipidi e di altre molecole la cui forma e le cui proprietà non sono codificate dal DNA. Quello che si trasmette tra organismi non è una sequenza specifica e definita, ma un insieme di materiali e condizioni che innescano una serie di processi vitali e che regolano le relazioni tra organismi. La relazione prolunga l’organismo, è un’eredità che attraversa le generazioni degli organismi come fossero un solo e unico organismo vivente. Anche la peculiarità linguistica dell’uomo proviene dall’esterno: dalla relazione con l’altro che si è preso cura di noi.

 

Dopo tutto, un segno è una laguna dove sfumano i confini dell’organismo e dell’ambiente: dove comincio io? Dove tu che mi ascolti? Quanto il mio segno ti cambia? Quanto il segno è la traccia di qualcosa che è avvenuto attorno a me? L’incedere di una volpe nel bosco assume significato per le sue prede e i suoi predatori, così come un nido su un albero o l’abbaiare di un cane che ne incontra un altro sotto i portici. I segni non stanno dunque solo nei suoni o negli eventi da cui scaturiscono, ma formano un tessuto che unisce gli organismi tra loro[13]e provengono dal passato, quello dell’organismo che incarna tutti quello che lo hanno preceduto, diventando parte di un processo che lo supera, e dal presente si protendono nel futuro, un futuro possibile, che vive adesso.

È come se la poesia volesse ricondurre la lingua alla pura dimensione segnica, fuori dal simbolico, a cui l’essere umano è però costretto. Un’impresa impossibile: sentire il respiro della vita prima che accada nella lingua.

 

Utilizzando il filtro problematico dell’autenticità, credi che le dicotomie che riguardano la postura del soggetto in poesia possano essere ripensate o ristrutturate?

 

Le dicotomie che riguardano la postura del soggetto in poesia − lirica e sperimentale, per intenderci − sono esiti stereotipici della stagione avanguardista, laddove da circa quarant’anni sono ormai messe in discussione in favore di una dimensione più ibrida e transmediale del fare poetico. Quando ci guardiamo alle spalle il quadro ci appare più più nitido e condiviso perché ha acquisito consenso nel corso del tempo, legato all’antologia di Mengaldo[14], che a sua volta veniva da un ampio lavoro critico. Non è una fotografia esatta, magari non sarà quella definitiva (basti pensare a Quasimodo scalzato da Saba nella triade primonoventesca o, più indietro, all’ormai accantonato Carducci), ma è condivisa, a differenza del nostro tempo, dove le costellazioni semantiche e formali appaiono in competizione tra loro e dove le antologie fotografano lo scenario in modo poco efficace.

 

Potrebbe essere giunto il tempo di dare forma a un discorso comune, a partire da un numero ristretto di autori o di opere il cui valore riconosciuto consenta di tracciare categorie formali e tematiche che interrogano il nostro tempo in nome di un nuovo sentire: prendiamo atto dell’allargamento del concetto di lirica in relazione alla mutazione antropologica che ha generato sia la rivoluzione digitale sia una ulteriore svolta nel modo in cui gli esseri umani si concepiscono all’interno del vivente fino a comprendere il non umano. Del resto, la matrice lirica della poesia resta inevitabile, ma nella seconda parte del Novecento vi sono state diverse strategie di deindividuazione: la poesia per interposta persona, la drammatizzazione, le maschere e la finzionalità, la riduzione e lo sfaldamento dell’io lirico, la scrittura impersonale. I margini della lirica sono stati erosi in favore di una dimensione relazionale dell’identità (piuttosto che monadico-frammentaria), raccontata dalla soglia dello sguardo per abbracciare una dimensione naturale e cosmica. Queste strategie e questo particolare sguardo potrebbero essere le categorie critiche utili per tracciare un discorso comune sulle forme poetiche del nostro tempo, unite all’eredità porosa e all’inconsistenza dell’essere umano (chi prende parola in poesia? E in che modo?) nella rete dei viventi.

 

Nessun intento monolitico, dunque, deve spingere a scattare questa fotografia, dal momento che la tradizione è il modo in cui raccontiamo le opere degli esseri umani ogni volta in cui vi si posa il nostro sguardo orizzontale, simultaneo e mobile, facendo risuonare piani temporali sempre permeabili a seconda di come tra le generazioni prevalgono, di volta in volta, le diverse componenti cognitive. Tuttavia una fotografia può raccontare una scena poetica se riesce a radunare un consenso di valore, se riconosciamo che quelle opere e quelle forme rappresentano più di altre questo tempo.

 

[1] Chissà cosa significa, poi? Chiarirlo ci porterebbe da un’altra parte del discorso.

[2] Ideale alimentato anche dalla ricerca bohémien delle sensazioni intense che dilata il vissuto sottraendosi dalle miserie del quotidiano; l’elemento che in fondo caratterizza i movimenti giovanili degli anni Sessanta contro l’alienazione e la repressione sociale in nome del desiderio, della libertà, del prendere parola: paradise now, per tutti.

[3] H. Bergson, L’Évolution créatrice, Paris, Alcan, 1907, trad. it. L’evoluzione creatrice, Milano, Raffaello Cortina, 2002, p. 143.

[4] E. Melandri, I generi letterari e la loro origine, «Lingua e stile» XV, 3, 1980, pp. 391-431; Macerata, Quodlibet, 2014;

[5] Il gesto poetico indica se stesso, a differenza delle altre forme estetiche, come la canzone o la pubblicità, le quali non scaturiscono da tale tensione.

[6] G. Deleuze, Intervista a Jeannette Colombel, in «La Quinzaine littéraire», I, 68, 15 marzo 1969, pp. 18-19; in Id., L’île desert et autres textes, Paris, Éditions de Minuit, 2002, trad. it. L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, Torino, Einaudi, 2007, pp. 177-180.

[7] G. Deleuze, L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, op. cit., p. 177.

[8] Il «solamente vivente» di cui parla Agamben (G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi, 1982, p. 15) è un corpo che «si gode» (J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, 1972-73, Torino, Einaudi, 2011, p. 7), cioè è fatto per godere di se stesso.

[9] D. Falk, Finding Our Tongues. Mothers, Infants, and the Origins of Language, New York, Basic Books, 2009, trad. it. Lingua madre. Cure materne e origini del linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 80.

[10] D. Falk, ivi., «Putting the Baby Down (PTBD)», p. 84.

[11] Tuttavia lo scambio comunicativo madre−figlio non sarebbe stato possibile senza altri requisiti biologici. In particolare si vedano gli esperimenti di Rizzolatti e altri (G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaello Cortina, 2005) che hanno evidenziato la presenza di neuroni specchio nelle scimmie, importanti perché si attivano sia quando l’animale compie l’azione sia quando la vede compiersi. Il lobo frontale, nel quale sono presenti i neuroni specchio, corrisponde nell’uomo alla regione di Broca, uno dei centri più importanti per il linguaggio. A livello mentale, guardare, afferrare o dire di afferrare, ad esempio, un cucchiaio sono la stessa cosa. Si può desumere che il linguaggio fosse legato alla capacità di riconoscere le azioni e i gesti compiuti dagli altri, data la nostra propensione a capire le loro menti, proprio in virtù dei neuroni specchio, la radice biologica dell’empatia. Una volta perduta la possibilità di afferrare e aggrapparsi alla madre, forse gli esseri umani svilupparono la capacità di aggrapparsi alle cose con le parole: le aree cerebrali coinvolte nell’afferrare e nell’aggrapparsi (grazie alla perduta prensilità delle dita dei piedi) si sarebbero modificate per afferrare non solo con le mani, ma anche con le immagini, ovvero con la capacità di simbolizzare la realtà, raffigurando eventi e oggetti come suoni da esprimere agli altri.

La Teoria della mente (Theory of Mind, «ToM») è la capacità di comprendere la mente degli altri (es. quando riusciamo a spiegare o a intuire le loro azioni) attraverso il comportamento (D. Premack, G. Woodruff, Does the chimpanzee have a theory of mind?, in Behavioral and Brain Sciences, special issue: Cognition and Consiousness in Nonhuman Species, vol. 1, n. 4, «Cambridge Journals», dicembre 1978, pp. 515–526). A quanto pare, essa è una tecnologia cognitiva esclusiva della specie umana, che si sviluppa sin da quando il bambino percepisce i comportamenti della madre (o di chi si occupa di lui) come essere cosciente, perché egli è immerso in uno scenario emotivo di condivisione e cura. Come la coscienza della madre è presente nei suoi comportamenti, così gli esseri umani si percepiscono coscienti in quanto entrano in relazione tra loro.

[12] Georges Simondon definisce preindividuale la dimensione (presente nell’individuo) che precede e dà origine all’individuo stesso, il quale vive in una dimensione transindividuale. L’essere umano si individua a partire da un qualcosa che lo supera e lo lega all’altro. Il testo più noto di Simondon è la sua tesi di dottorato: L’individuation à la lumière des notions de formes et d’information (Grenoble, Jérôme Millon, 2005; trad. it. L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione, Milano, Mimesis, 2011). Per orientarsi sulle sue idee è utile Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni (Milano, Mimesis, 2014), a cura di E. Balibar e V. Morfino.

[13] Sulla scorta di Deacon, l’antropologo Eduardo Kohn sostiene che, siccome tutti gli organismi producono segni, il linguaggio simbolico, esclusivo dell’uomo, va pensato come una delle forme di rappresentazione, che anche le creature non umane possiedono. L’essere umano va inteso in continuità con queste forme di rappresentazione, in un approccio aperto cui tutti i viventi appartengono. In questo senso, secondo Kohn, le foreste pensano, e pensano perché sono vive, e il nostro essere vivi dipende dagli altri organismi, in un flusso continuo di segni e di relazioni (E. Kohn, How Forests Think: Toward an Anthropology Beyond the Human, Berkeley, University of California Press, 2013, trad. it. Come pensano le foreste. Per unantropologia oltre lumano, Milano, Nottetempo, 2021).

[14] P. V. Mengaldo (a cura di), Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978.

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