di Gergely Légrádi (traduzione di Dora Varnai)

 

[Pubblichiamo due racconti inediti dello scrittore ungherese Gergely Légrádi, Gergely Légrádi è nato a Budapest nel 1975. Si è laureato in legge nel 1998 e dal 2002 insegna presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università ELTE. Ha pubblicato cinque romanzi e due raccolte di racconti, diversi suoi drammi sono in scena presso vari teatri ungheresi. È il direttore del portale di teatro online ungherese eSzínház].

 

Di fronte

 

Chiamate un dottore, presto, urlò qualcuno accanto a lui. Riconobbe la voce. Era quella di Kati, la vicina di casa. Non aprì gli occhi. Erano ormai due giorni che giaceva sdraiato nella stessa posizione. Da quando gli avevano comunicato la notizia del decesso. Glielo avevano detto per telefono. Lui aveva ascoltato senza dire nulla. Alla fine li aveva ringraziati, aveva salutato educatamente, e aveva riagganciato. Per qualche secondo era rimasto a fissare un punto davanti a sé, poi si era tolto l’anello dal dito e lo aveva appoggiato sopra quello della moglie. Lo aveva riportato a casa dall’ospedale poche settimane prima. Non riesco più a indossarlo, tesoro, ho tutte le dita gonfie. Si era avviato verso il letto. I suoi passi erano lenti, tutti uguali. Il suo ultimo sguardo era rimasto bloccato lì, a fissare rigido un punto del tavolo della cucina vicino al telefono. Si era sfilato le pantofole con gesti abitudinari, sdraiandosi supino così com’era, con i vestiti ancora addosso. Aveva chiuso gli occhi. Aveva continuato a respirare con calma, in modo regolare. E aveva ripreso la loro conversazione da dove l’avevano interrotta prima della telefonata. Stavano chiacchierando di qualche sciocchezza, di un nonnulla. Il telefono era squillato all’improvviso, proprio quando sarebbe toccato a lui rispondere. Stava giusto per pronunciare le prime parole della risposta. Si ricordava bene che cosa stava per dire un attimo prima che quella sommessa voce femminile gli facesse le condoglianze. Aveva quindi risposto alla domanda di lei come se fosse stata una cosa del tutto naturale che uno squillo del telefono avesse interrotto la loro conversazione. Stavano chiacchierando, come sempre, mentre giocavano a carte. Non c’è alcun bisogno di un dottore, pensò tra sé e sé. Stiamo bene, è tutto a posto. E continuò a tenere gli occhi chiusi. La loro conversazione stava andando avanti. Lui faceva una domanda, tirava una carta, ascoltava la risposta. La tratteneva lì, accanto a sé. Con le parole. Perché mica ci si poteva alzare così, nel bel mezzo di una conversazione, e andarsene via, a morire. Di sicuro non lo si poteva fare nel mondo in cui lui la stava trattenendo, nel mondo bloccato dietro i suoi occhi chiusi. Nel mondo tenuto al riparo dagli altri, dalle persone come questa Kati. Riesce a sentirci, signor Pista? Le fa male qualcosa? Riesce ad aprire gli occhi? Non ci penso proprio, sarei un pazzo ad aprirli! Per non parlare del fatto che stiamo chiacchierando, e siamo anche all’ultimo giro di carte, brontolò lui tra sé e sé. Signor Pista, mi riconosce? Sono Kati, la vicina della porta accanto. Mi dica solo se sente la mia voce, oppure faccia un cenno con la testa, va bene? Ma certo che ti riconosco, Kati cara, però adesso su, lasciaci finalmente in pace! Continuò a rimanere muto, immobile. La porta d’ingresso si aprì. Siete quelli del pronto soccorso?, gridò Kati verso l’anticamera. Il rumore di passi si avvicinò. Kati non alzò lo sguardo, continuò a parlare. Sono due giorni che non vedevamo più il signor Pista, così siamo entrati, e lo abbiamo trovato qui, poveretto. Non parla, non risponde, ha gli occhi chiusi, e respira a fatica. Il medico accarezzò con la mano sinistra il viso dell’uomo, e intanto appoggiò per alcuni secondi il pollice e l’indice della mano destra sul suo collo. Per favore, esca fuori mentre io esamino il paziente. Con passi tranquilli il dottore si avvicinò al tavolo della cucina. Appoggiò la borsa accanto al telefono. Si accorse dei due anelli, il più piccolo circondato dall’abbraccio del più grande. Riposti nello stesso modo in cui, quando lui era ancora bambino, li lasciavano anche i suoi genitori, tutte le sere. Frugò con gesti meccanici nella borsa degli strumenti medici. Quando si avvicinò di nuovo al corpo sdraiato, si concentrò. Lo esaminò con attenzione, come previsto dal protocollo. Dalla testa ai piedi. Poi si mise seduto ad aspettare. Attese che finissero la loro partita.

 

Titolo originale: Szemben, prima pubblicazione in: Szemben, Napkút kiadó, 2016

Traduzione: Dóra Várnai

 

*

L’azzurro del cielo

 

Era ferma, nuda, davanti allo specchio. Osservava il proprio viso, gli occhi azzurri, l’ampio arco delle sopracciglia che li sovrastava. Era fiera di quegli occhi brillanti, che distoglievano l’attenzione dalla mascella troppo sporgente. E dalle orecchie leggermente a sventola. Ogni volta che poteva, se le copriva con i capelli. Invece per la mascella non c’era nulla da fare: si muoveva di continuo, come se masticasse sempre qualcosa. Le labbra non erano né troppo sottili né troppo carnose, giuste giuste per i baci, le dicevano ridendo i genitori. La curva delle spalle descriveva un bell’arco, la parte superiore delle braccia era tonica e muscolosa. Fece scorrere la mano lungo il ventre e sopra i seni. Quello di sinistra sembrava un po’ più grande, e anche un po’ più in alto. Trovava i propri capezzoli eccitanti. Non appena se li toccava, si indurivano, diventavano ruvidi. I seni erano troppo appuntiti, e piccoli. Aveva ormai fatto pace con la pancia. Si era impegnata molto per avere gli addominali scolpiti, ma nonostante tutti gli esercizi in palestra, non ci era riuscita. Continuò a far scorrere la mano, scendendo sul pube. Era completamente liscio, senza peli. E ultimamente le sembrava anche più gonfio. I fianchi e la vita erano a posto. Le cosce erano muscolose, ma avrebbe preferito averle più lunghe. Anche solo di pochi centimetri. Le ginocchia andavano bene, i polpacci erano ben torniti, non a caso le piaceva indossare le gonne. Péter, quel ragazzo arrivato da poco, non era riuscito a dirle altro che “hai delle gambe fantastiche”. Che stupido sfacciato! Il collo dei piedi le sembrava bellissimo, e le piacevano anche le dita dei piedi, tranne i mignolini, che erano troppo addossati al quarto dito. Proprio per questo preferiva non mettersi i sandali. Fece un passo indietro e si girò di lato. Risalì ora con lo sguardo dal basso verso l’alto, seguendo le curve del proprio corpo. I piedi sembravano disegnati da un artista. Le mani arrivavano a metà della coscia, le dita erano lunghe e bellissime. Se tirava in dentro la pancia e stringeva un poco le natiche, la linea descritta dal fianco e dalla vita era perfetta. Le costole non si vedevano, i seni puntavano in avanti. Il collo lungo e sottile metteva in risalto la bella forma della testa. Si avvicinò allo specchio e osservò le linee azzurre che si intrecciavano nel blu delle iridi.

 

Era ferma, nuda, davanti allo specchio. Osservava i propri occhi, e quel viso ben noto, che aveva disegnato intorno al loro azzurro. Era brava a truccarsi, riusciva a evidenziare o a nascondere tutto ciò che voleva. La mandibola non si muoveva più costantemente, si contraeva solo quando la facevano innervosire. Si era rassegnata anche alle orecchie, ormai. Per anni aveva dormito con una fascia sulla testa, sperando di appiattirle. Le sembrava che fossero in effetti un po’ meno sporgenti adesso. Visto che non c’era più bisogno di coprirle, si era anche tagliata i capelli. Del resto si era stancata di perdere tutto quel tempo ad asciugarli. Solo Péter le ricordava ogni tanto quanto fossero belli e lunghi quando si erano conosciuti. Le sue spalle erano ancora ben modellate, però la parte superiore delle braccia era più massiccia. Si guardò i seni. Poi li sollevò con le mani, dandogli più forma. Non c’era che dire, i ragazzi glieli avevano rovinati per bene, a furia di succhiare. Quando aveva ancora le mestruazioni, si gonfiavano abbastanza, diventando più rotondi. Non erano più tanto appuntiti adesso. Il passare degli anni almeno in questo era stato d’aiuto. La pelle della pancia era diventata striata, non aveva retto al rapido alternarsi di crescite e riduzioni di volume. Inutilmente aveva provato a usare varie creme. Ma almeno i fianchi non si erano allargati troppo. Né le gravidanze né i parti avevano spinto in fuori le ossa. La fica era rasata, come voleva la moda odierna. E poi a Péter piaceva così, e gli piacevano anche i suoi seni. Diceva che finalmente, ora che i ragazzi erano cresciuti, si poteva riappropriare di ciò che era suo. Le gambe erano la parte del corpo su cui si notava meno l’avanzare dell’età. Non avevano perso nulla della loro compattezza e della loro forma. Niente cellulite. Nel vestirsi metteva sempre in risalto le gambe e il punto vita. Anche il collo dei piedi era rimasto bello. E non le importava più che cosa pensassero gli altri delle sue dita accavallate. Se solo poteva, dalla primavera all’autunno, indossava sempre scarpe aperte o sandali. Fece un passo indietro e si girò di lato. Risalì ora con lo sguardo dal basso verso l’alto, seguendo le curve del proprio corpo. Si mise in punta di piedi. Come se avesse i tacchi alti. I piedi erano bellissimi. Il sedere non era più tanto sodo, forse si era abbassato un poco, ma non c’era di che lamentarsi. E se teneva le spalle e il collo ben dritti, allora non c’era da barare molto nemmeno con il reggiseno per potersi permettere un abito aderente e scollato. Si avvicinò allo specchio e provò a guardare dietro le iridi. L’azzurro e il blu si erano confusi.

 

Era ferma, nuda, davanti allo specchio. Dal suo viso erano scomparsi i colori brillanti. Al loro posto c’era una miriade di rughe e di solchi. La maggior parte intorno alla bocca e agli occhi. Si guardò le orecchie. Erano cresciute. Come a tutti i vecchi. Le orecchie continuano a crescere sempre, per tutta la vita. Il volto invece sembrava essersi rimpicciolito. O forse erano solo le rughe a restringerlo? Gli occhi erano gli unici a non essere invecchiati. I capelli erano sbiaditi, le labbra più secche e screpolate, ma gli occhi restavano luminosi. I muscoli della mascella si contraevano spesso. La testa tremava in maniera appena percettibile. Se ne accorgeva dagli sguardi curiosi dei nipoti. Non amava il proprio collo. Ogni ruga svelava il numero di anni passati. Le spalle sembravano essersi accorciate, la pelle delle braccia era flaccida. Con la mano rugosa si toccò il seno destro. Il capezzolo non reagiva più. Al posto del seno sinistro c’era solo la cicatrice. Lei l’aveva presa abbastanza bene, Péter molto meno, quando avevano saputo che quella era l’unica soluzione. Le pieghe sulla pancia nascondevano i segni delle gravidanze. La vecchiaia fa scomparire molte cose. Si guardò in mezzo alle gambe. Non si rasava più da parecchio tempo. Péter non c’era più, e non c’era nessun altro per cui farlo. E poi c’erano altri punti dove toccava combattere contro i peli. La forma delle gambe era forse l’unica cosa che non la deludeva. Mostrava ancora come dovevano essere quelle gambe una volta. I muscoli avevano ceduto, le ossa e le vene erano diventate più visibili qua e là, ma la linea dei polpacci, l’arco disegnato dal collo dei piedi erano ancora rivelatori. D’altra parte, le dita dei piedi avevano continuato ostinatamente ad accavallarsi, litigando tra loro. Per questo non le piaceva più indossare scarpe chiuse e strette, metteva solo quelle facili da infilare e sfilare. Fece un passo indietro e si girò di lato. Risalì ora con lo sguardo dal basso verso l’alto, seguendo quelle che erano state le curve del suo corpo. Cercò di mettersi dritta, ma la colonna vertebrale non le obbediva più. Si avvicinò allo specchio. Il bianco dei suoi occhi si era ingrigito, i decenni passati avevano disegnato delle borse sotto gli occhi. Ma l’azzurro, l’azzurro del cielo, era ancora lì, riflesso dentro lo specchio.

 

Titolo originale: Az ég kékje, prima pubblicazione in: Élet és Irodalom, n. LXIII/22, del 31/5/2019

Traduzione: Dóra Várnai

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