di Marine Aubry-Morici
[E’ uscito da qualche mese per le Edizioni il verri Dico a te, lettore. Saggi narrativi dell’estremo contemporaneo di Marine Aubry-Morici, con una postfazione di Daniele Giglioli. Ne presentiamo un estratto].
Il saggio non è un genere, è una pratica. Non è una forma vincolante, ma un protocollo di scrittura duttile e poliedrico. Non è una forma nuova, risale come minimo ai tempi degli Essais di Montaigne. I libri davanti ai quali la critica si trae d’impaccio definendoli «tra» narrativa e saggio, non sono banali incroci di genere. È il ritorno di un’antica linfa, una forma dimenticata fattasi però indispensabile agli scrittori del nostro tempo: il saggismo. Qual è il perché di questo ritorno, per esempio nei libri di Emmanuel Carrère, di Vitaliano Trevisan o di Geoff Dyer? Da dove viene questa sensazione di qualcosa di familiare che al tempo stesso fuoriesce dagli argini conosciuti, spiazza le nostre abitudini, ci seduce, ci cattura, parlandoci insieme del presente e di temi che sono lì da sempre? La risposta è semplice, ma problematica. Il saggio consente a una soggettività di rendere intelligibile il mondo, o almeno un frammento di esso, senza preoccuparsi dell’unità della forma. In questo libro, apprezzeremo il gusto degli scrittori per il détour, per l’imprecisione, per la gioiosa erudizione dell’amateur che ama pontificare con brio. Perché il narratore-saggista vede il mondo come un terreno di gioco, con una fonte infinita di intuizioni, di illuminazioni, di speculazioni potenziali, che tuttavia non si possono cogliere in una forma sola — e sicuramente non quella del romanzo.
Non sono certo la prima a parlare di «saggio narrativo» o di «personal essay». La critica, italiana ha registrato per tempo questa tendenza letteraria del primo ventunesimo secolo, sottolineandone la vitalità editoriale ed estetica sin dalle prime teorizzazioni dei cosiddetti «anni Zero»[1]. Il termine «saggio» mette tuttavia in imbarazzo critici e studiosi. È gravido di connotazioni auliche, dotte, serie, lo si associa di solito alla critica letteraria, al pamphlet politico oppure alla scrittura scientifica. Esiste oggi invece un folto gruppo di scrittori che ne dimostra la vitalità nella narrativa. In continuità con la tradizione riflessiva e meditativa del saggismo storico, i nuovi saggi ipercontemporanei pensano, meditano, commentano e speculano, ma non si vietano di avvalersi degli strumenti della narrazione e della finzione.
È comprensibile la reticenza dei critici e studiosi di letteratura a parlare di «saggi» quando si trovano di fronte a testi che, pur avendo un marcato contenuto riflessivo, si presentano in modo narrativo, o nei quali si può addirittura parlare di un certo grado di finzionalità. Di conseguenza, è sembrato più cauto costruire espressioni composte da più elementi per definirli. Così è giunta fino a noi l’espressione di origine anglosassone di «saggio narrativo». Sempre più di frequente molti testi pubblicati dopo gli anni 2000 sono descritti come oscillante «tra autobiografia e saggio», «tra reportage, saggio e racconto», «a metà strada tra il diario e il saggio», «una sapiente miscela di»[2]. Ma tutte queste sinuose precauzioni non permettono tuttavia di affrontare queste scritture nella loro complessità. Anzi, lasciano addirittura pensare che sono e possono essere considerate solo come degli esperimenti isolati nella produzione dei loro autori, un divertimento marginale che non definisce la loro scrittura principale, quella romanzesca o scientifica.
Occorre invece mettere a fuoco la spinta profonda che riporta l’atto del discorso all’interno della narrativa. Cominceremo prendendo atto della necessità dei narratori di prendere la parola in prima persona, ma non solo per parlare di sé. Proseguiremo illustrando le loro differenti ricerche formali, la creatività polimorfica con la quale combinano diversi linguaggi letterari. Vedremo infine che ne risulta un discorso narrativo-speculativo che, nella tradizione di Montaigne, non ha l’ambizione di capire tutto ma accetta, quando gioiosamente quando luttuosamente, l’impossibile totalizzazione del senso. Anzi, mi spingerei anche un po’ oltre: finora il saggio è stato analizzato come una naturale sottocategoria della non-fiction, presupponendo un pedigree comune tra esso e le varie forme della cosiddetta «letteratura della realtà», la quale è stata la chiave di lettura critica dominante degli Anni Zero. Vedremo invece che non fiction e saggio narrativo provengono da genealogie abbastanza diverse, con motivazioni e soprattutto obbiettivi divergenti, e che la finzionalità fa parte delle possibilità del saggio.
In sintesi, in controtendenza con la teoria secondo cui attorno all’inizio del XXI secolo emergono forme letterarie completamente inedite, vorremmo mostrare quanto l’antica pratica di scrittura del saggio abbia ancora da dire. Dagli Essais di Montaigne alle teorizzazioni dei grandi pensatori del genere come Lukács ed Adorno, come punti di riferimenti imprescindibili, il saggismo deve essere pensato come il modo letterario di cogliere un oggetto del mondo (o di oggettivizzarlo) con gli strumenti della riflessione e della soggettività. La nostra ipotesi muove dalla constatazione della moltiplicazione di testi in cui è possibile reperire tre dimensioni forti: riflessione, narrazione e autobiografia. Questo libro mira a verificare se, in che modo e in quale misura si possa parlare di una essayification della letteratura ipercontemporanea e come il saggio attuale tragga nuova linfa dall’imitazione di altri generi, letterari e non-letterari, allargando il suo repertorio di forme, procedimenti e figure.
Il saggio: una forma seria?
La necessità, e al contempo la difficoltà, di cogliere con precisione il fenomeno del saggio narrativo del XXI secolo emerge in un dialogo che – non a caso – coinvolge due continenti. Il dialogo si svolge tra una ricercatrice americana in letteratura italiana e francese della Princeton University, Christy Wampole, e lo scrittore, critico e universitario italiano, Walter Siti. Nel 2013, Wampole pubblica un articolo sul New York Times intitolato «The Essayification of Everything» in cui sostiene che il saggio è diventato la forma letteraria privilegiata dal nostro tempo:
Sembra che, nonostante la proliferazione di tante nuove forme di scrittura e di comunicazione, il saggio sia diventato il talismano della nostra epoca.[3]
La reazione di Walter Siti, pubblicata in un articolo di Repubblica intitolato «Il nuovo protagonismo dei figli di Montaigne», testimonia in primo luogo la frattura semantica tra il mondo intellettuale italiano e quello anglo-americano su quello che viene chiamato «saggio»:
Leggendo il pezzo di Christy Wampole mi sono inizialmente stupito della sua sicurezza sulla attuale fortuna editoriale dei saggi, ricordando le considerazioni di molti editori sul fatto che i saggi commercialmente «non tirano». Poi ho capito che lei per «saggi» intende qualcosa di quasi opposto al serio studio su un argomento […]. All’ombra del nume tutelare Montaigne, esalta l’opposizione al pensiero dogmatico e il saltare senza schemi di palo in frasca[4].
Come abbiamo già indicato, l’uso europeo del termine «saggio» riguarda principalmente tre cose: le forme di scrittura accademica (articoli); i testi di natura scientifica o politica (trattati o saggi); le forme di critica d’arte (recensioni in senso largo). Il secondo aspetto interessante della reazione di Walter Siti è che illustra perfettamente la reticenza a chiamare «saggio» una letteratura fondata su un pensiero non dogmatico e non sistematico, in altri termini, non completamente seria:
Spesso la superficialità sostituisce struttura e disciplina; il rischio che corrono molte opere è la carenza meditativa[5].
Secondo Siti, non può qualificarsi saggio un discorso mal costruito, che disserta su tutto e su tutti. Va bene liberarsi dai vincoli esigenti e severi della scienza, senza però cadere nell’esibizionismo frivolo: l’autore-saggista deve sempre avere lo spessore di un Montaigne o di un Kierkegaard. Di fatto, la critica di Siti tocca un nervo scoperto: lo spettro dei social e la loro logorrea egocentrica è sempre in agguato. Di conseguenza, sembra necessario portare esempi nobili ed alti di saggismo per separare l’erbaccia dal buon grano, e preservare il vero saggismo da altre forme di discorsi leggeri, la cui fonte è poco autorevole se non addirittura superficiale.
Quella di Siti è una concezione elitaria del saggio, molto diffusa, in un panorama in cui risulta assai difficile tracciare una frontiera tra saggismi legittimi e illegittimi. Essa scopre un punto debole del genere: la casualità e la disinvoltura di un discorso condotto da un “io” spontaneo e inesperto in una certa materia. Per tornare all’osservazione di Wampole, che definisce il saggio come una forma particolarmente adatta al nostro presente, proprio per la sua liquidità (è senza impegno, ovvero «non-committal»), la sua libertà (è non dogmatico, antisistema), la sua mancanza di serietà (in quanto “tentativo”, «essai») e soprattutto, per il suo egocentrismo, il saggio sarebbe lo strumento letterario emblematico dell’inizio di questo secolo. A sua volta, Alfonso Berardinelli sostiene che «la saggistica, la forma letteraria della riflessione, è il nostro più probabile destino letterario»[6] e la collega a un triplice fenomeno: la fine del romanzo[7], l’eredità della razionalità illuminista e il post-colonialismo. Wampole vede, inoltre, nel gusto, tipico del saggista, di unire il particolare e l’universale, la stessa tendenza a universalizzare in modo esistenziale i dettagli della propria vita quotidiana che ritroviamo nei social networks. Le orecchie del povero Walter Siti qui soffrono. E non resta qui che pregare per una «dolorosa autenticità» del soggetto, come la intendeva Kierkegaard:
Secondo Wampole, la «saggificazione di ogni cosa» equivale a porre sullo stesso piano il particolare e il generale: come mi sono alzato e che significato ha la vita, parlare di politica e di pizzerie. Come non riconoscere in una simile strategia il molesto protagonismo che ci viene gettato in faccia ogni giorno dai pensieri postati sui social network? Nel saggio come lo conosceva la mia generazione, tra il particolare e l’assoluto era tesa una corda che soltanto l’autenticità dolorosa faceva risuonare (basti pensare a Kierkegaard e alla sua ossessione per l’autenticità)[8] .
Quanto all’essayification profetizzata, o diagnosticata se preferiamo, da Wampole, Siti la guarda con il sospetto di chi ricorda l’annuncio bachtiniano della «romanzizzazione» dei generi[9]. Di fatto, forse non c’è parallelo possibile tra questo ritorno del saggismo e l’impeto del romanzo dal XVII secolo in poi. E bisogna sicuramente diffidare dal desiderio di scorgere mutazioni irreversibili nelle sabbie mobili del presente. La critica di Siti è estremamente pertinente quando sottolinea che il saggio, se assume contorni anarchici e informali, o se è solo un invito al relativismo formale ed euristico, non ha alcuna possibilità di abbracciare meglio la realtà, «l’ambivalenza del mondo», di quanto abbia fatto la romanzizzazione a suo tempo. La costruzione di una soggettività autentica diventa quindi il criterio principale di un saggismo non di superficie, in grado di raggiungere un vero e proprio discorso letterario e meditativo. Raccogliere la sfida e riuscire a dire qualcosa di profondo sul mondo significa creare un discorso che integri in modo armonioso e brillante dimensioni autobiografiche, narrative e riflessive. Vengono poi messe a servizio di quello che va chiamato un vero e proprio laboratorio del senso. Solo così gli scrittori contemporanei, quando diventano narratori-saggisti, riescono a creare effetti di intelligibilità e a dare senso al nostro presente, così come aspirano a farlo – o forse come noi vorremmo che facessero.
In questa prospettiva, invece di saggio, propongo qui di parlare di saggismo, inteso come una modalità o una pratica e, seguendo le parole di Gerhard Haas, di considerarlo come «un principio creativo che impregna forme eterogenee»[10]. Il saggismo è una disposizione d’animo e un atteggiamento legato a un «genere portato, per sua natura, all’apertura di un pensiero che cerca sé stesso, all’esperienza che si deve provare, alla liberazione critica che prende rischi – andando a contro-doxa[11]». Lo spirito del saggismo si radica nella sua triplice etimologia: latina, cioè «exagium», pesare un oggetto ed esaminarlo in tutte le sue forme e da tutti i punti di vista; italiana ovvero «saggiare», misurare la resistenza di una cosa; infine, francese, dal verbo «essayer», che significa sperimentare, tentare, avventurarsi fuori dal conosciuto per trovare nuove vie, tracciare percorsi che portano lontano, ma forse da nessuna parte.
La fabbrica culturale dei termini generici
Né la produzione italiana, né la produzione europea hanno aspettato il XXI secolo per sviluppare una grande tradizione del saggio. Tuttavia, per via di una successione di slittamenti semantici nel corso della storia del genere e del termine, oggi non parliamo più della stessa cosa quando ci riferiamo al «saggio» o alla «saggistica» in Italia, all’«essai» in Francia e a «the essay» nel mondo anglosassone[12]. Il dibattito è reso ancora più inestricabile dal fatto che il saggio è un anti-genere. Sfugge ad ogni tentativo di definizione presentandosi sempre in opposizione agli altri generi. Anzi, la posizione del saggio tra i generi letterari varia a seconda delle aree linguistiche e nazionali, e non va sottovalutato il fatto che si tratta del prodotto di una vera fabbrica culturale di generi.
Per esempio, la contiguità tematica tra il saggismo e le scienze umane, le cui produzioni vengono anch’esse chiamate «saggi», ha creato confusione con il concetto di «saggistica», termine che dovrebbe essere riservato al trattato di scienze umane, alla critica d’arte e alla scrittura politica[13]. Si è inoltre radicata l’idea che il saggio rientri solo ed esclusivamente nella sfera della non-fiction. Ormai megacategoria, contenitore mettitutto, e ripiego classificatorio, la non-fiction, espressione classificatoria importata dagli Stati Uniti, ha assorbito il saggismo. Il fatto che uno dei primi volumi che tratta della nozione di literary non fiction, nel 1989, abbia associato il saggio alla non-fiction, cioè abbia messo insieme prosa di idee, scrittura creativa giornalistica e romanzi basati su fatti reali, ha certamente contribuito a trascinare il saggismo nel vortice omologante della non-fiction[14]. Possiamo ipotizzare che, a partire da questo momento, il New Journalism, cioè l’insieme di testi letterari caratterizzati da una dimensione giornalistica-investigativa, abbia creato un paradigma in seguito applicato al saggismo. Questa deviazione ha inoltre generato un altro malinteso: il termine «saggio» è diventato sinonimo di «basato su fatti reali», facendo da ulteriore garanzia di aderenza a fatti reali e attestati[15]. Per esempio, non è raro sentir dire che Gomorra di Roberto Saviano è un saggio narrativo, solo per sottolineare la veridicità della maggiore parte dei fatti raccontati. Tali scostamenti e approssimazioni si organizzano sullo sfondo di una generale riduzione del saggismo ai criteri tracciati dalla stessa non-fiction, nonostante quest’ultima derivi da un’altra nomenclatura, che raccoglie molteplici forme di testi basati su eventi reali, ma soprattutto quest’operazione oscura la principale caratteristica del saggismo, ovvero il connubio tra soggettività e riflessione[16]. Anzi, allo stesso tempo, dall’altra parte dell’Atlantico, così come in tutto il mondo anglosassone, la parola «essay» è usata per designare alternativamente forme accademiche, giornalistiche o letterarie, generalmente brevi, che combinano una voce personale e un’argomentazione su temi universali o culturali: spesso viene relegato nell’ambito di scritture universitarie, se non addirittura scolastiche.
La posizione delicata del saggio narrativo non è solo lessicale. In libreria, perché spesso considerato come intellettuale ed elitario, la sua posizione è precaria e sempre a cavallo tra i reparti, consegnandolo a un destino meno commerciale.. La parola «saggio» spesso non favorisce le vendite, e il libro rischia di essere relegato al di fuori dei banconi redditizi della narrativa, nei vari scaffali delle scienze umane e sociali. (…)
Un’ars combinatoria ipercontemporanea
Ad essere problematica, partendo dal critico per arrivare al libraio, è la combinazione di varie forme letterarie operata dal saggismo narrativo. La coesistenza di due modalità percepite ingiustamente come opposte e incompatibili, la narrazione e il discorso, lo accomuna a molti altri generi legati alla non-fiction: il motivo è che il saggismo si basa sulla presa in prestito di strategie testuali e formali che appartengono ad altri generi non finzionali, in particolare l’autobiografia, la biografia, il reportage, il trattato (o saggio scientifico). Di recente, la critica ha molto enfatizzato, spesso con ottimi e solidi ragionamenti, la nozione di ibridazione nelle forme narrative italiane del XXI secolo[17]. Tuttavia, seguendo un altro approccio, è possibile concepire il saggismo narrativo come un’ars combinatoria basata su una mimetica generica. Riprendo, per svilupparlo, il concetto proposto da Max Bense:
Si tratta del frutto di una ars combinatoria letteraria. Il saggista è un esperto di combinazioni, un instancabile produttore di configurazioni su un determinato oggetto. Tutto ciò che ha una possibile esistenza, anche soltanto vagamente affine all’oggetto che costituisce il tema del saggio, rientra nella combinazione e realizza una nuova configurazione. Il trasformarsi della configurazione che attiene a quell’oggetto è il senso dell’esperimento, e non è tanto la palese definizione dell’oggetto stesso quanto piuttosto la somma delle configurazioni, attraverso le quali esso diviene possibile. […] Tutti i grandi saggisti erano esperti dell’ars combinatoria e possedevano un’immaginazione straordinaria[18].
Tratterò a lungo del demone mimetico del saggio. Secondo la mia ipotesi, il saggismo non ragiona tanto per classificazioni e generi testuali, ma per funzioni intercambiabili, tra le quali troviamo forme della narrazione, del discorso e dell’invenzione letteraria. Così la forma può diventare l’oggetto del testo; il discorso sulla finzione può scivolare nella finzione come cornice di enunciazione, o viceversa, la narrazione o il saggio serviranno, a seconda del testo, come forma unificante o come forma accessoria[19]. Il saggista orchestra allora innumerevoli trasmutazioni all’interno del testo che, pur sembrando a prima vista rotture generiche, non cambiano invece nell’essenza più profonda la sua natura: queste trasmutazioni sono in realtà una permutazione delle funzioni iniziali, nello spirito di quello che Gérard Genette, in Figure III, chiamava una «poetica aperta»[20]. Questa logica sfrutta le possibilità di un sistema di relazioni, le virtualità del libro e della realtà. Questa ars combinatoria è anche mimetica perché prende in prestito codici legati ad altri generi, utilizzando la letteratura come un serbatoio di modelli e li spaccia per varianti di essi. Li mette alla prova, li sperimenta e li fa deviare in base ai propri fini. Ecco perché non siamo mai veramente in presenza di una biografia, di un’autobiografia o di una critica d’arte. Gli scrittori saggisti del nostro tempo sono sensibili ai discorsi e alle narrazioni, finzionali e no, della realtà letteraria e extra-letteraria: spesso ne riprendono la logica ma riusano questo materiale narrativo e retorico secondo ciò che intendono dire loro. Lavorano con tecniche di giustapposizione e rifacimento di codici già prefissati («qualcosa che è già o almeno di qualcosa che è già esistito una volta» scrive Lukács[21]) che appartengono a uno o più generi vicini, per poi superarne le leggi. Tutto diventa allora una modalità che si può prendere in prestito: la biografia, la critica, il romanzesco, il poetico, il commento, il manifesto, l’odeporica, il reportage, il documentario, la fabula.
Evitiamo quindi, come primo approccio, di costruire traballanti definizioni essenzializzanti, spesso interdipendenti. In questo libro ho scelto di dissolvere la domanda «che cos’è il saggio?» per risolverla in quest’altra: «quando c’è saggismo?»[22] Ci consentirà di avvicinarci con maggior successo a un fenomeno proteiforme, poliedrico, e sfaccettato. Seguiremo qui l’idea di Irène Langlet: «pensare il saggio come genere implica di pensare il saggismo come un modo, un atteggiamento mentale»[23]. Non faremo una ricostruzione storica del genere del saggio, né del saggio narrativo. Per dirlo con Virginia Woolf: «non c’è bisogno di addentrarsi a fondo nella storia e nell’origine del saggio – se derivi da Socrate o da Siranney il persiano – poiché, come tutte le cose vive, il suo presente è più importante del suo passato»[24]. Ci accontenteremo – e non è poco – di imbastire paragoni diacronici con quello che ne hanno detto Montaigne e Virginia Woolf, padre e madre del saggismo narrativo.
Una forma del nostro tempo?
Provate a chiedere l’ultimo libro di Emmanuel Carrère in libreria, V13: vi condurranno nel reparto «saggistica», dove lo troverete in mezzo ai libri di inchiesta attorno al mistero di Emanuela Orlandi[25]. Il suo interesse per il processo degli attentati di Parigi, evento reale e concreto, lo esclude dalla narrativa, lo accomuna ad altri testi che hanno per argomento la giustizia, anche se in maniera radicalmente opposta: il tema è la forma. In libreria il saggio narrativo fatica ad esistere come forma letteraria, ma anche gli autori nei paratesti o nelle interviste manifestano una certa confusione nel definire la loro stessa scrittura. Sono consapevoli di scrivere saggi narrativi oppure sono dei Messieurs Jourdain ignari di praticare il genere, per riprendere la formula di Walter Siti sui suoi debutti nell’autofiction[26]? Molti scrittori fanno ormai riferimento alla tradizione del saggio, esprimendo un senso di affinità con una comunità alternativa di «narratori»[27]. Si ispirano spesso a Thomas Bernhard, proprio per la sua narrazione al limite del monologo, a Montaigne e Woolf, ma anche ad altri saggisti come Hazlitt, Kierkegaard, De Quincey, Lamb, Barthes. E come Geoff Dyer suggerisce nella prefazione di uno dei suoi saggi narrativi – idea già presente a partire da Adorno[28] – «questo stile free lance, invece, rappresenta l’incarnazione contemporanea di un’idea profondamente tradizionale dell’uomo di Lettere»[29]
Note
[1] Vedere R. Donnarumma, Ipermodernità, Il Mulino, Bologna 2014 e L. Marchese, Storiografie parallele, Cos’è la non-fiction, Quodlibet, Macerata 2019.
[2] Vedere per esempio il modo in cui l’editore Il Saggiatore presenta il libro di Geoff Dyer Per pura rabbia: https://www.ilsaggiatore.com/libro/per-pura-rabbia.
[3] C. Wampole, The Essayification of Everything, in “The New York Times”, 26 maggio 2013. Traduzione mia.
[4] W. Siti, Il nuovo protagonismo dei figli di Montaigne in “La Repubblica”, 7 luglio 2013.
[5] Ivi.
[6] A. Berardinelli, La forma del saggio e le sue dimensioni, in G. Cantarutti, L. Avellini e S. Albertazzi (a c. di), Il saggio. Forme e funzioni di un genere letterario, Il Mulino, Bologna 2007, 44.
[7] A. Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo, Sulla narrativa italiana, Marsilio, Venezia 2011.
[8] W. Siti, Il nuovo protagonismo dei figli di Montaigne, cit.
[9] Cfr. M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001.
[10] G. Haas, Essay, Metzler, Stuttgart 1969, 36, Traduzione mia. Haas mutua questa formula a F. Sengle. L’invenzione del termine «saggismo» viene generalmente attribuita a Robert Musil ne L’Uomo senza qualità (con la parola «Essayismus»). Cfr. M. Marazzi, Belfagor, vol. 48, no. 3, 1993, 375–77.
[11] P. Née, Introduction de Le quatrième genre: l’essai, P.U.R., Rennes 2018, introduzione. Traduzione mia.
[12] Per una storia del termine, così come alla differenza tra saggismo, saggistica, saggificazione, si rimanda alle prime pagine di G. Haas, Essay, cit., 1-5.
[13] Cfr. A. Berardinelli, La critica come saggistica, in Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, Feltrinelli, Milano 1990.
[14] C. Anderson (a c. di), Literary nonfiction, Theory, Criticism, Pedagogy, Southern Illinois University Press, Carbondale 1989.
[15] Vedere M. Ferraris, L’imitazione dell’Anticristo, in Silvia Contarini, Maria Pia De Paulis, Ada Tosatti (a c. di), Nuovi realismi: il caso italiano. Definizioni, questioni, prospettive, Transeuropa, Massa 2016, 25.
[16] C. H. Klaus, R. Scholes, Elements of Literature: Essay, Fiction, Poetry, Drama, Film, Oxford University Press, Oxford 1969, 46.
[17] Vedere R. Palumbo Mosca, L’invenzione del vero. Romanzi ibridi e discorso etico nell’Italia contemporanea, Gaffi, Roma 2014.
[18] M. Bense, Sulla prosa del saggio, in S. Benassi e P. Pullega (a c. di) Il saggio nella cultura tedesca del ‘900, Biblioteca Cappelli, Bologna 1989, 187.
[19] Seguiamo qui anche l’idea di Barthes in Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino 2001.
[20] G. Genette, Figure III, discorso del racconto, Einaudi, Torino 2006, 6.
[21] G. Lukács, «Essenza e forma del saggio» in Il saggio nella cultura tedesca del ’900, cit., 99.
[22] Riprendiamo l’idea di N. Goodman in Languages of Art, Hackett Publishing, 1976 e Ways of Worldmaking, Hackett Publishing, 1978 di sostituire la domanda «What is art?» con «When is art?». È l’approccio suggerito da I. Langlet nelle sue ricerche più recenti sul saggio, «Essai et théorie de l’essai», in Le quatrième genre: l’essai, cit.
[23] I. Langlet, L’abeille et la balance, Penser l’essai, Classiques Garnier, Parigi 2015, 145.
[24] V. Woolf, Il saggio moderno in Voltando pagina, Saggi 1904-1941, Il Saggiatore, Milano 2011, 180.
[25] Esperienza personale alla Feltrinelli di Largo Argentina a Roma, nei giorni che hanno preceduto la consegna di questo libro nel settembre 2023.
[26] W. Siti, Un realismo d’emergenza, conversazione con Walter Siti, cit.
[27] A distinguersi per la grande consapevolezza della propria singolarità è lo scrittore inglese Geoff Dyer, rappresentativo di un sentimento comune a molti: «(…) ho scoperto Roland Barthes, Walter Benjamin, Nietzsche, Raymond Williams e, fondamentale, Berger, e ho capito che esisteva un altro modo di essere scrittore, al quale potevo permettermi di aspirare. Al pari di Aldous Huxley, perciò, mi considero “una specie di saggista ingegnoso quanto basta da cavarsela a scrivere un tipo di narrativa assai limitato”» Cfr. G. Dyer, Il sesso nelle camere d’albergo, cit., 5.
[28] T. Adorno, Il saggio come forma, cit., 116.
[29] G. Dyer, Il sesso nelle camere d’albergo, cit., 6.
Grazie per l’anticipazione, mi pare un volume interessante: il saggismo degrada l’internet dei cosiddetti contenuti e, ancora peggio, quelli artificiali dei pappagali ammaestrati LLM: trattazioni sghembe, citazioni a caso, ragionamenti illogici, allucinazioni, sentimentalismo copia-incolla che vengono poi amplificati dai social media verso il basso e dall’editoria accademica verso l’alto, con notevoli distorsioni nel fondamento illuminista del dibattito pubblico democratico. Non credo che in Italia si abbia la percezione di cosa questo comporti effettivamente sui testi e sui riceventi? Ai convegni si gioca con midjourney e chatgpt, come faceva in principio il gruppo 63 a meta’ secolo scorso. Saluti.