di Adelelmo Ruggieri

 

Grandi viaggi, rubrica a cura di Adelelmo Ruggieri

 

[Con questa ottava puntata, si conclude la rubrica Grandi viaggi a cura di Adelelmo Ruggieri].

 

Il mio luogo favorito era dall’altra parte del villaggio, in un angolo dell’insenatura, sotto scogli coperti di liane.

Stevenson, Nei mari del sud

 

 

Di qui a breve farò un viaggio; di certo non lo si può dire “grande”, almeno nello spazio, nel tempo può essere. Devo rivedere la foce del Tesino. Ci abitavano dei parenti. Erano molto cordiali e allegri. Era la prima metà degli anni sessanta. Come si andasse laggiù non lo rammento. I miei genitori non guidavano. Le distanze si moltiplicavano alla ennesima potenza. Quelle brevi si facevano grandi, e quelle grandi prendevano a negare la realtà. Forse si andava con un fratello di mio padre che invece guidava. So che era di domenica. So che erano le prime ore del pomeriggio, e so che era sempre bella stagione le volte che si andò, e così deve essere quando tornerò sulla foce, e i parenti imbandivano un tavolo nell’orto, e a questo modo la visita fungeva anche da cena anticipata. E i grandi si sedevano intorno al tavolo e i ragazzini giocavano nell’orto, e i genitori prendevano a chiamarli, ché era ora, ché era pronto, ché era questo, e anche quello, e loro, i ragazzini continuavano a correre tra le piante. E una volta di quelle uno di noi disse di raggiungere la foce e gli altri assentirono. Quando fummo sulla foce ci sedemmo uno accanto all’altro in una sorta di insenatura, e restammo lì, per parecchio tempo. Il silenzio che si fece fu interrotto soltanto da uno dei sei, o cinque o quattro che erano, che si mise a canticchiare una qualche canzone di allora. A una qualche distanza si vedevano già le palme alte dei lungomare? Non rammento. Quando rientrammo, era tardi, i genitori tenevano sul viso una grande apprensione ma non ci domandarono nulla. Era così tanta la loro trepidazione (che ci fossimo persi, in chissà quale chissà dove) che la tavola era ancora intonsa. Solo quando tutti fummo seduti ci chiesero dove fossimo stati. Nessuno di noi rispose. Chissà perché. Poi iniziammo a mangiare. Gli adulti facevano silenzio e si sbrigavano, domani era giorno di fatica operaia, toccava rientrare. Non c’era la solita allegria di quei pomeriggi festivi, e non era lo stesso silenzio di noi ragazzini seduti a una qualche sponda della foce, soltanto un’ora prima. Mangiammo in silenzio anche noi, come in silenzio eravamo rimasti sulla foce. Stavano insieme quei due silenzi, quello sulla foce e l’altro nell’orto, ma il primo lo intendevo (come può intendere qualcosa di così tanto invisibile un ragazzino di undici anni), il secondo mi fece impressione, ma non so se “impressione”  è la parola che era e ci vuole; lasciò una traccia, è più giusto così.

 

La prenderò alla larga per giungere alla foce di allora, aggiungo cento chilometri, farò la Via Valdaso fin su alla Madonna del lago (una volta chiesi la ragione di quel toponimo, C’era un lago? Ci fu una apparizione? E chi lo sa, vedi su Wikipedia, mi venne drasticamente risposto), e da lì a Rotella, dove il Tesino nasce. Non distante da dove comincia la via che mi sono prefisso, c’è un faro alto sul mare. La sua voce è fatta di tre lampi bianchi con un periodo di quindici secondi, così ho letto. Venne attivato nel 1887, distrutto durante la seconda guerra mondiale, ricostruito nel 1950, è un faro tenace. Appena sotto sorge un cimitero marino, con i cipressi slanciati che inquadrano il faro di verde scuro. Capitò che lo visitai. Nell’incasso intonacato di una sostruzione lessi dei versi che dicevano del tempo che passa e va, ma non ha età. Giusto, passa e va, ma ha non età. Una delle ultime volte che andai a Rotella fu una decina di anni fa. Pranzai in un ristorante del corso. C’era il focolare acceso, era gennaio. Erano molto cordiali ai tavoli. Prima di pranzare avevo raggiunto due vulcanelli (si tratta di piccolissimi “vulcani” di fango) non distanti. Ne avevo sentito dire. Fu facile trovarli. C’era un gruppo di case. Mi dissero di chiedere lì. Saranno state le dodici. Suonai a un campanello. Venne ad aprirmi un signore di mezza età. Mi presentai, Sono qui per i vulcanelli, sa dirmi qualcosa? L’altro mi guardò perplesso, poi indicò con la mano dove stavano. Scorgo due monticcioli arrotondati, alti due metri, circa, diametro lo stesso, appena sopra un fosso. Intanto si presenta anche lui, si chiama Luigi. Gli chiedo se posso appuntare le sue parole. Certo. Poi prese a parlare piano, di modo che io le trascrivessi, L’eruzione avviene di rado, mai nella siccità, sempre dopo un periodo di piogge; viene fuori argilla sciolta, un diametro di circa un metro; sale lentamente, delle volte nemmeno si avverte che sale; escono centinaia di metri cubi di melma, invadono il fosso delle laure; in altri posti esce solo acqua colorata, qui no, questo delle laure è di sola melma consistente. Le laure sono gli allori? Certo. Poi mi disse che potevo scendere a vederli, il fondo era suo. Scesi a vederli, mi fermai a un metro di distanza, tenevano un che di rischioso. Da Rotella, a seguire, tornerò a Castignano non distante. È che lì, in uno slargo dove ha inizio il borgo, c’è il calco di una celebre stele italica, una copia a segnalare una origine. L’iscrizione è redatta in una variante dialettale di una lingua antica comunemente identificata come «sabino». L’alfabeto è quello sud piceno; come le altre scritte italiche utilizza, con aggiustamenti locali, i caratteri derivati dal greco, e in ragione di ciò è possibile leggere il testo, ma la traduzione rimane controversa; la scarsità di confronti non consente di verificare il significato di tutti i vocaboli. Fa così, ho letto: matereíh patereíh qolofítúr qupíríh arítih ímih puíh púpúnum estufk apaiús adstaíúh súaís manus meitimúm. Venne rinvenuta nel 1890 in località Monte Calvo (arando i contadini la trovarono, mi disse una signora del posto, su, sotto San Bernardino, E dov’è San Bernardino? Su. Trovarono altro? Nient’altro). È alta 146 cm e larga 30; si rastrema in alto; la datazione, VI ac / V ac del medio adriatico. Forse salirò su a Monte Calvo, ho visto, saranno tre chilometri. Poi scenderò a Ponte Tesino. Faccio pranzo lì stavolta, c’è un ristorante, lo hanno chiamato Il ponte, giustamente, il ponte è proprio lì. E di certo accadrà, seduto al tavolo, che inizierà a prendermi una forte fascinazione per quanto ho visto e insieme visto nel ricordo, e sarà come stare in un quadro di una contrada lontana, nello spazio e nel tempo, dentro il recinto delle cose, che quello è e quello rimane, tanto il recinto che le cose che lo definiscono, ma in un differente equilibrio di luce e passato, di ombra e futuro. Poi, verso la foce, tutto prenderà a farsi costruito e ingorgato, sfocato e veloce. Dal ponte alla foce sono diciotto chilometri, il fiume in tutto ne misura trentasette. Su Street View non c’è traccia della casa con l’orto di sei decenni fa. Forse – quanti forse –, è stata modificata, forse non era sulla riva sinistra come pensavo, e nemmeno così vicina alla foce, come è nel ricordo di ora, quello di un altrove dove l’esistenza si mostra non come il succedersi degli accadimenti, ma come una quiete.

 

[Grandi viaggi, gennaio 2023 / maggio 2024]

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