di Laura Pugno


Tavola dei nomi e delle materie è un nuovo ciclo di interviste a scrittori e scrittrici, su un loro libro.

A ognuno di loro assegnerò una materia reale o immaginaria – sappiamo che è la stessa cosa –, visibile o invisibile, astratta o concreta, che il loro libro mi evoca, e chiederò di commentare questa scelta.
A ogni scrittore o scrittrice, poi, chiederò di scegliere un nome, alias di parlare di qualcuno, qualcosa, reale o immaginario – anche qui –: luogo o persona, soggetto umano animale vegetale minerale o all’incrocio di tutti questi mondi, del presente o del passato, o addirittura del futuro, che fa parte della materia del libro o che è stato determinante nell’innescare o nel far compiere il processo creativo che ha portato al libro stesso.



 

Ecco la tua materia

 

Olga Campofreda, in Ragazze perbene (NN), la tua materia è la fuga dal passato e dal futuro. In che modo si ricostituisce un orizzonte verso il fuori dentro un romanzo, con i mezzi della scrittura? E quanto tutto questo ha a che fare, per te, con il ricostituire questo orizzonte fuori dal romanzo?

 

Fuggire dal passato è un concetto tutto sommato accettabile nella sua dinamica, perché ci lasciamo dietro quello che dietro sarebbe finito comunque. Nonostante tutto, oggi la macchina nostalgica si è fatta più potente che mai, e tornare al passato, più che fuggirlo, è diventata la norma nel contesto di un presente che non riusciamo ad afferrare del tutto. In Ragazze perbene ci sono molti riferimenti agli anni Novanta e ai primi duemila, a partire dall’esergo tratto da una canzone di Britney Spears. Il mio intento non era quello di creare un consolatorio effetto nostalgico, quanto quello di indagare  –  a partire da quegli elementi di pop culture  –  i valori abbracciati (o rifiutati) da un’intera generazione che si avviava a diventare adulta.

 

Se prendere le distanze dal passato oggi suona controcorrente, fuggire dal futuro costituisce una vera e propria infrazione. Con Ragazze perbene volevo indagare soprattutto quest’ultimo movimento, che per alcuni aspetti mi ha coinvolto anche sul piano biografico.

Nella cultura occidentale abbiamo un’idea del tempo come qualcosa di lineare. Secondo questo concetto scappare dal futuro significa tornare indietro oppure restare immobili. Ma se invece si riuscisse a contemplare la possibilità di uno spostamento laterale? Il sentiero sterrato è un’immagine che tornava spesso nei giorni più intensi di scrittura del mio romanzo: c’era una strada lastricata, tutta dritta, sulla quale i miei protagonisti erano stati immessi alla nascita, e poi c’era un percorso diverso, disordinato, non ancora battuto da nessuno e tutto da esplorare. Percorrere la strada predisposta da altri significa adeguarsi alla tradizione e a un ruolo sociale che a essa risponde, spesso senza problematizzare questa condizione, ma anzi, dandola per scontato. Il sentiero sterrato rappresenta invece l’esplorazione, l’indagine verso altre possibilità che non ci erano state raccontate, ma che pure – per necessità ontologica  –  speravamo possibili.

 

Il mondo di provincia che racconto in Ragazze perbene è stato per molti anni anche il mio. Parlo di Caserta, ma in verità a questo toponimo si intrecciano una serie di luoghi non necessariamente geografici quanto politici e sociali: la borghesia meridionale, il pensiero cattolico, una cultura conservatrice. Tutti questi concetti convergono principalmente nell’idea che esistano ruoli e comportamenti ben precisi che distinguno le donne dagli uomini: la cura, la remissività, la dolcezza, l’accoglienza, per le prime; la forza, il dominio, il potere economico, la gestione della comunità, per i secondi. Fuggire da questo rigido schema significa in effetti prendere distanze da un futuro già scritto, laddove restare e opporsi al sistema risulterebbe troppo difficile, perfino rischioso. L’allontanamento iniziale della protagonista è una forma di opposizione politica che lei però non riconosce subito come tale.

 

Per raggiungere uno stato di consapevolezza, nella storia, è stato necessario mettere in scena un movimento contrario, quello del ritorno. L’occhio che osserva da lontano e poi torna vicino assume una visione presbite e miope insieme. L’antropologo Vito Teti chiama questo fenomeno ‘restanza’, la capacità di comprendere certi fenomeni sociali e culturali non da osservatore esterno, ma da insider, come il flaneur penetra sempre più a fondo la propria città attraversandola senza meta. Nel movimento di fuga e ritorno e più in generale dell’attraversamento dei confini, io ci vedo molto anche l’idea del soggetto nomade, così come è stato teorizzato da Braidotti. Clara, la mia protagonista, riesce a comprendere la forma del pensiero egemonico nel quale è cresciuta solamente allontanandosi da esso, uscendo fuori dalla sua sfera di influenza. Si tratta di un’esperienza che mi lega profondamente a questo personaggio, molto più di certi piccoli dettagli biografici che abbiamo in comune. Il romanzo è pieno di domande e la tensione narrativa credo sia tutta nella formulazione, anche solo parziale, di certe risposte. In tal senso, posso dire di aver usato la scrittura come strumento primario di ricerca.

 

 Scegli il nome

 

Chi, o cosa, è stato determinante, per te, nel costruire la tua protagonista in mezzo a molte altre analoghe protagoniste letterarie che nei romanzi della generazione dei trent’anni di oggi prendono gli stessi aerei, fuggono dallo stesso mondo, o vi restano, ma come se la fuga fosse già avvenuta? Tutte queste rotte intensamente solitarie stanno costruendo un soggetto femminile collettivo?

 

Nel 2019 dovevo andare a Boston per una conferenza e ne ho approfittato per fare tappa a New York. Avevo un grande desiderio: visitare Ellis Island e consultare i registri dei passeggeri per ritrovare i nomi di due antenati che all’inizio del Novecento avevano lasciato Portocannone, in Molise, per cominciare una nuova vita nelle Americhe, uno a Buenos Aires e l’altro a Baltimora. In quell’occasione, del tutto inaspettatamente ho trovato il nome di una donna, che, pur portando il mio cognome, non avevo mai sentito nominare nelle storie di famiglia. Si chiamava Eleonora e viaggiava sola con un figlio.

 

L’episodio di quella scoperta è rimasto con me per molto tempo. Nel 2019 avevo già in mente la storia delle due cugine che sarebbe poi diventata Ragazze perbene, la trama, anzi, c’era già quasi tutta. Quello che è cambiato è stato lo sguardo della voce narrante. Dopo aver consultato il registro dei passeggeri di Ellis Island mi sono trovata spesso a pensare a quanto il movimento verso il fuori per le donne spesso sia nato da una spinta diversa rispetto a quella degli uomini. Se i miei due antenati si erano imbarcati cercando fortuna, la mia lontana prozia era andata via per fuggire un sistema di valori che la teneva ai margini, che la faceva sentire sbagliata. Eleonora era una ragazza madre con un figlio avuto fuori dal matrimonio. Nella comunità non c’era spazio per lei, per loro.  E allora è partita. Ho pensato soprattutto a lei quando ho trovato la voce di Clara e ne ho fatto la narratrice del mio romanzo.

 

Non ho pensato in modo generazionale mentre lavoravo, anche se intorno a me cominciavano a venire fuori romanzi di autrici mie coetanee con le quali avevo in comune un senso di frustrazione sociale molto forte. Mi riferisco a Megan Nolan con Atti di sottomissione o a Naoise Dolan con Tempi eccitanti, che ho letto mentre già mi dedicavo alla stesura finale del mio romanzo. Non so se possiamo parlare di soggetto femminile collettivo se prima non si agisce sul significato dell’aggettivo ‘femminile’. Certamente si tratta di un soggetto collettivo che ha iniziato a problematizzare il concetto di femminilità, a comprenderlo come fenomeno culturale e a rifiutarlo, se necessario.

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