a cura della redazione di Machina

 

[E’ uscito negli scorsi giorni per Machinalibro il volume Nel sottosopra degli anni ottanta. Le contraddizioni di un decennio, a cura della redazione di Machina. Proponiamo come estratto dal libro questo dialogo tra Mario Tronti e Adelino Zanini]

 

LA POLITICA AL TRAMONTO

Dialogo tra Adelino Zanini e Mario Tronti

 

 

A.Z.: L’occasione propiziata da DeriveApprodi, la possibilità, cioè, di ragionare, oggi, con Mario Tronti, mi è giunta certamente molto grata – e per diverse ragioni, che credo sia superfluo menzionare. Anche se – o forse proprio perché – di occasione complessa si tratta. Perché non è affatto semplice dire-domandare rivolgendosi a chi è interprete di una lunghissima consuetudine con la fatica del concetto, del pensiero originario (non solo originale, direi); ed è so- prattutto difficile quando tale possibilità si dia in assenza del supporto offerto dalla ponderatezza del tempo lento, lungo e meditato della parola scritta, cancellata, riscritta.

È altresì vero che l’interloquire accentua la vicinanza e ammette una mediazione sempre possibile, una via d’uscita, laddove la durezza della parola scritta fatica molto di più nell’ignorare gli spigoli netti della «cosa». Insomma, cercherò di essere all’altezza di questo dialogo, nonostante tutto, ponendo tre momenti di riflessione. Il gergo che userò sarà quello della filosofia politica, ma a modo nostro, parlando il «dialetto delle nostre idee».

 

Il primo dei tre momenti. Gli anni Ottanta e oltre, la politica al tramonto, certo. Però, vorrei partire, spalle al futuro, dal dopo che è stato ed è e che rimanda incessantemente all’origine. La prima questione che pongo è peraltro una questione di metodo, si sarebbe detto un tempo – Hegel diceva: il concetto che conosce se stesso. In breve: sulla base della

premessa che non c’è spirito libero che non sia pensiero di una parte – in questo senso, e solo in questo, eventualmente, si darebbe «grande pensiero» –, mi piace intendere l’insieme del tuo lunghissimo sforzo intellettuale come una sorta di fenomenologia dello spirito rovesciata, in cui l’assoluto è sempre e solo espressione di una parte, storicamente determinata e rivendicata.

 

Dunque, si potrebbe provvisoriamente ragionare (per- mettimi l’espressione, con cui intento in realtà stigmatizzare la consueta accusa di «idealismo della classe operaia») di una metafisica politica (ove il meta indicherebbe un oltre/ dopo la contingenza, ma non la mondanità); una metafisica politica che a un tempo ha cercato (e a partire da un certo momento storico forse ha dovuto cercare) e cerca risposta sia all’osservazione di Musil – «Quale rapporto deve avere con la realtà l’uomo dello spirito?» –, sia a quella di Simone Weil – «La collettività è più potente dell’individuo in tutti gli ambiti, salvo uno: il pensiero» –, osservazioni entrambe da te richiamate. Credo sia questa l’anarchica imprevedibilità dell’intelligenza, in rapporto alla disciplinata adesione a una dimensione collettiva di partito, di cui ragiona a tuo riguardo Franco Milanesi.

 

Ebbene, accetteresti una simile lettura/riduzione/con-testualizzazione del tuo pensiero – se intesa, va da sé, non come contemplazione, stupore, bensì come «critica»? In fondo, non c’è grande filosofia politica che non abbia dietro di sé una grande metafisica-critica; non c’è, modernamente, una filosofia della praxis che non presupponga una «distruzione creatrice» (critica e crisi, insieme). Poi, la prassi, in quanto azione, si spinge sempre oltre (sto ovviamente saccheggiando le Tesi su Feuerbach …).

 

M.T.: Le tue domande sono molto difficili. Tu sei un economista filosofo, una specie molto rara. Ho letto il tuo bellissimo libro Ordoliberalismo, dove intrecci analisi economica critica e pensiero politico. Le tue domande meriterebbero

una risposta scritta e meditata, però cerchiamo di semplificare le risposte. I due libri, Con le spalle al futuro e La politica al tramonto, del 1992 e del ’98, non a caso stanno dentro gli anni Novanta. Gli anni Novanta sono la coda del decennio precedente, gli Ottanta, in cui è accaduto di tutto, dall’una e dall’altra parte della barricata, dall’una e dall’altra parte dei grandi protagonisti della storia di allora. Il capitalismo ha rivoluzionato se stesso e in questa sua rivoluzione, abituale nella sua natura, ha preso la politica come un avversario da combattere e da sconfiggere. Gli avvenimenti storici sono molto indicativi della fase, perché con la fine degli anni Ottanta crolla il grande esperimento di costruzione di una società alternativa al capitalismo. Un esperimento che non ha saputo tenere il campo, il punto di forza che aveva raggiunto. Un’esperienza che si era indebolita già prima, fino al disastroso crollo. Ciò mi ha coinvolto molto nel pensiero, che è un pensiero sempre in lotta con la storia: in quel decennio Ottanta e poi nella sua coda, vince la storia contro la politica. La storia è la ripetizione del sempre uguale, di ciò che è avvenuto e deve ancora fatalmente avvenire. Non a caso ho praticato molto il concetto, anch’esso hegeliano, di destino.

 

A proposito di Hegel, sono stato sempre un po’ hegeliano nel metodo, seguendo l’indicazione marxiana. È molto bella la definizione che hai dato di una mia «fenomenologia dello spirito al rovescio», non lo aveva ancora colto nessuno questo punto. Se la storia va profeticamente, secondo una direzione di antico cristianesimo, verso una meta finale, salvezza e ripetizione delle cose che sempre avvengono, la politica cerca di trattenere questo destino. Negli anni Novanta non c’è stata più una forza trattenente. Ho usato molto il termine katechon: di fronte a questa forte irruzione di una storia vincente, crollato quel mondo che apparentemente e di fatto si poneva come alternativa, non c’è stata più la forza che ha trattenuto. Di lì in poi la storia ha dilagato.

 

Con la spalle al futuro è un libro che raccoglie dei saggi che avevo scritto per «Bailamme», una rivista di spiritualità e politica. Il binomio spiritualità e politica è molto importante, perché i due termini non coincidono né si contraddicono o contrappongono, e nello stesso tempo si integrano, devono integrarsi. Qualche tempo fa avevamo istituito una rubrica insieme a Marcello Tarì intitolata «Contemplazione e combattimento», perché il combattimento, la lotta, il conflitto, vuole poi un momento di interiorità contemplativa che approfondisce la coscienza del conflitto stesso. È proprio attraverso ciò che si può trasformare l’assoluto hegeliano in due forme di assoluto, ambedue partigiane, che si combattono. Politica e storia sono due forme di assoluto, l’una alla fine esclude l’altra; mentre contemplazione e combattimento, nello stesso momento in cui si contraddicono, si integrano. Ecco perché la politica ha bisogno di grande riflessione e pensiero. Quella grande politica, che io prendo sempre dalla dizione nietzscheana, è organicamente legata a un grande pensiero.

 

La difficoltà di quegli anni è stata l’impossibilità di approfondire questo tema, perché non c’erano più le forze soggettive dietro. Quel periodo conclude la fase dell’autonomia del politico cominciata negli anni Settanta, su suggestione schmittiana, o forse soprattutto machiavelliana. La conclude nel senso di un pessimismo antropologico che io mi porto dietro da allora e che ancora oggi coltivo, anche se faccio fatica a comunicarlo. Perché è un pessimismo che apparentemente sembra negare il conflitto, sembra rassegnazione al legno storto dell’umanità. Ho assunto un’antropologia negativa che ancora oggi sento molto forte quando mi guardo intorno e vedo questa umanità disperata, frutto di secoli di capitalismo di rapina e di mentalità borghese. Una mentalità che non riesce nemmeno più a essere grande borghese, ma che è medio-piccolo borghese. Non ci sono più i grandi borghesi con cui noi ci siamo confrontati nel Novecento, da Weber a Rathenau e Warburg. C’è una medietà di mentalità, diffusa, di massa. È sbagliato dire che questa è una società di individui, semmai è una società di individui massificati.

 

L’individuo massa, non l’individuo semplice. L’individuo non massificato sembra ancora una risorsa positiva rispetto alla massificazione dell’individualismo e quindi dell’egoismo proprietario. Io vedo una decadenza dell’umanità, non a caso si arriva a parlare di postumano, perché questo tipo di umanità ha probabilmente concluso il suo ciclo e non può dare nulla di più di quello che ha dato.

Faccio un po’ fatica ad accettare il termine metafisica, per ragioni anche di abitudine filosofica, e poi perché oggi si parla di metapolitica e non ho mai capito bene che cosa sia. Io però tengo fermo che una politica, se vuole combattere la storia, deve andare anche oltre la storia per come viene avanti. Questo mi avvicina al termine che preferisco, quello di trascendenza. Conflitto e trascendenza possono stare insieme? Io penso che debbano stare insieme, perché il conflitto è quello che arma la soggettività in modo da farla crescere, autorganizzare, od organizzare dall’alto, come preferisco io; mentre con la trascendenza devi guardare oltre il presente e la storia. Oggi viviamo in un tempo definito di presentismo, in cui tutto è qui e nient’altro c’è, oltre a questo. Non solo non c’è più futuro, ma non c’è nemmeno passato. Il presentismo è inteso come un presente isolato dal percorso passato e dal futuro, da ciò che viceversa assicurerebbe una direzione della storia che, una volta individuata, si possa combattere. È più difficile combattere questo presente chiuso in se stesso. Ciò è un grande motivo di decadenza della forma umana e ha tante manifestazioni. Una manifestazione empirica, una prova di fatto, è rappresentata dagli orientamenti elettorali delle persone: non c’è più un orientamento, si sceglie l’ultima novità che appare sul mercato proprio come si sceglie al supermercato l’ultimo prodotto indicato dalla pubblicità. È un’umanità subalterna all’ordine attuale delle cose, che è molto difficile da combattere.

 

A.Z: Trovo interessante la diade conflitto/trascendenza perché, se da un lato rettifica la mia interpretazione, dall’altro mi sembra che possa confermare l’intenzione che avevo e che forse non ho espresso col termine più appropriato. Dunque, una seconda questione, che riprende i temi su cui ti sei già soffermato, permettendo, spero, di approfondirli.

 

Appena fuori dagli anni Settanta, ricordavi e ribadivi come la politica, da Machiavelli in poi, non potesse che essere arte della mediazione. Riletto quarantatré anni dopo, Il tempo della politica mi pare trattenesse, tutt’intera, la convinzione che la politica fosse ancora davanti: non solo da farsi, ma anche che potesse essere nuovamente ridispiegata, una volta assunta la cultura politica della crisi – scrivevi –, il che portava in corpo però la necessità di fare i conti con la crisi della prospettiva rivoluzionaria.

 

Domando: al di là delle molte contingenze, il prezzo pagato dalla parte (e quando dico parte includo quanto intendeva Rossana Rossanda quando parlava di «foto di famiglia» allargata, ragionando non a caso sulla lotta armata sconfitta ancor prima che finita); dicevo, il prezzo pagato dalla parte per non aver saputo riarticolarsi-estendersi – ossia, rifiutare la narrazione capitalistica della crisi – non denotò, oltre all’esaurirsi della distinzione tattica/strategia – peraltro, io credo, storicamente naufragata, e per sempre, ben prima –, non denotò, dicevo, quello che potremmo definire appunto il lato tragico del Kommunismus? Il non poter fare a meno della mediazione e lo smarrire in essa, di volta in volta, le ragioni egemoniche di parte, il proprio radicalismo strategico? Insomma: il tragico del Novecento, un secolo che non termina. Trent’anni or sono, mi era sembrato possibile ragionare del Moderno come residuo; oggi nel presente mi sembra di poter cogliere piuttosto un ibrido, che della lotta operaia e delle lotte di parte, la nostra, si è nutrito – ma la sostanza di- rei è la stessa, salvo che sono proprio le ragioni egemoniche di parte a funzionare sempre meno come detonatore. Tutto questo è detto molto chiaramente in Con le spalle al futuro del 1992, ove scrivi. «Il punto di vista unilaterale non ha perso una battaglia, ha perso la guerra con la totalità. […] la forza lavoro non è riuscita a farsi a sua volta un tutto parziale autonomo». Quindi, la forza lavoro, che era già stata classe operaia, ridiventa capitale variabile. Per dire, insomma, che la sconfitta è stata ancor più cocente, se possibile. Eppure, milioni e milioni di donne, uomini, bambini, lavorano, oggi, sotto padrone, se non peggio.

 

Domanda, a bruciapelo: secondo te, quanto il «concetto» e la «pratica» di «classe operaia» erano irrimediabilmente vincolati all’esperienza occidentale, alla sua cultura e, insieme, alla sua civilizzazione? Pongo questa domanda non solo in ragione di una inevitabile revisione storiografica conseguente all’imporsi e diffondersi dei postcolonial studies, ma anche perché mi chiedo se quella specificità non fosse sin dall’inizio irrimediabilmente vincolata all’esperienza occidentale, quindi, «inesportabile». Molteplici forme di sovversione sociale, in molte parti del mondo, non hanno mai avuto quel carattere, quel rigore, quella forma organizzativa…

 

M.T.: Ragioniamo per un momento sul termine politica, nella forma e nella sostanza. A me è capitato di dire e scrivere che la politica cammina su due gambe: conflitto e mediazione. Se una sola di queste due gambe non funziona, la politica non cammina, crolla a terra. Purtroppo la politica è condizionata dal fatto che è nello stesso tempo una pratica e un pensiero. Io sostengo che non si può fare politica senza pensarla, ma nemmeno pensare alla politica senza farla. Altrimenti usciamo fuori dall’ambito della politica stessa. Ho provato a fare ambedue le cose su terreni diversi, ma anche su monti contrapposti. Nell’esperienza giovanile dell’operaismo, in fondo, abbiamo tentato di introdurre una pratica politica, complessa, che andava a saggiare, anche per esperienza diretta, la soggettività operaia. Nello stesso tempo c’era una necessità di produrre pensiero su questa soggettività, su come essa si muoveva. Scoprimmo che quel soggetto operaio era molto pragmatico: quando andavamo con i volantini davanti alle fabbriche in sciopero, gli operai ci chiedevano se fossero soldi. Quella formula, che poi ha avuto una sua fortuna, della «rude razza pagana», descriveva proprio questa figura operaia, molto poco teorica e molto pratica. Voleva risultati, salario, sicurezza sul lavoro, agibilità del conflitto in fabbrica, voleva migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, non gli interessava la rivoluzione. Lenin questo lo aveva capito quando diceva che la spontaneità operaia da sola produce soltanto interessi parziali. Per dare sostanza rivoluzionaria di prospettiva bisognava introdurre la coscienza politica dall’esterno. Ciò voleva dire che il partito doveva produrre il salto dalla pratica alla teoria.

 

Allora si usava il binomio tattica e strategia. Non sempre sono state poi praticate al meglio, a volte sono state confuse. Un conto è come la praticava la socialdemocrazia, un conto è come la praticava la componente comunista del movimento operaio. Sono due cose non solo diverse, ma alternative. Io ho cercato di realizzare questa pratica e questo pensiero, nell’esperienza operaista saggiando la componente operaia per vedere se lì era possibile una soggettività che mettesse in crisi dall’interno il capitale. È molto giusto quello che dici: la forza lavoro è oggi diventata solo capitale variabile, perché non c’è più quel tentativo di portare la coscienza politica dall’esterno, quindi è fatalmente risucchiata. Mi accorsi che con l’esperienza operaista, soprattutto attraverso la rivista «Classe operaia», non si andava oltre un certo limite oggettivo. Io ho una formazione di partito, comunista. Tutti dicono che io sia il fondatore dell’operaismo, ma io non sono nato operaista: sono nato comunista, la mia origine è in quel grande partito popolare che in Italia era il Pci. Mi sono accorto che quegli straordinari personaggi che hanno dato vita all’operaismo politico si stavano riducendo alla formazione di piccoli gruppi; io invece, con la mia formazione comunista, ho sempre avuto un deciso rifiuto di ogni forma minoritaristica della politica. La politica deve portare con sé una grande collettività. Non a caso, quella parte ostile all’eccessiva politicizzazione dell’operaismo è poi andata a finire nei famosi gruppi minoritari, Potere operaio, Lotta continua, a cui non ho mai aderito. A un certo punto mi sono accorto che alcuni di loro erano più anti-comunisti che anti-capita- listi, il loro obiettivo polemico era il Partito comunista e ciò per me non era sopportabile.

 

Dopo l’esperienza operaista è cominciata «l’autonomia del politico», che giustificai così: la classe operaia si deve armare di tutte le forme che la politica moderna ha preparato, per questo ho ricominciato, da Machiavelli in poi, a vedere quali di queste forme potessero essere riutilizzate. Da quel momento la mia pratica politica si è molto indirizzata sui livelli istituzionali, tanto è vero che ho scritto tutti quei saggi che riguardano l’origine dello Stato moderno. In questi giorni è uscito, a cura di Damiano Palano, Hobbes e Cromwell (Mimesis 2023), con un’appendice di altri scritti sul politico. Questa pratica politica non ha mai raggiunto l’altezza del pensiero politico, di ciò ne ero molto consapevole. Oggi, più che tattica e strategia, uso i termini di mediazione e visione. La politica deve stare per forza dentro la contingenza, altrimenti gira a vuoto, non produce nulla. Lì ho pagato qualche prezzo: nella mia pratica politica, anche istituzionale, avevo una condotta che nella mia interiorità vedevo come limpidissima, ma che da fuori è stata vista in modo ambiguo ed equivoco. Ė un prezzo che ho dovuto pagare, non mi ci sono soffermato più di tanto.

 

Si pone oggi un problema, a proposito della tua domanda a bruciapelo: qual è oggi la nostra parte? Evidentemente il capitalismo industriale, con la scomparsa delle grandi fabbriche che tenevano insieme la classe operaia con possibilità di azione politica, non esiste più. Mantenendo il punto di vista di parte, qual è la parte che possiamo contrapporre all’altra parte? Questo è il tema che dovremmo approfondire. Io non ho una risposta immediata. Ho una risposta che, soprattutto negli ultimi tempi, si è rigirata sulla geopolitica. Penso che oggi le parti si stiano disegnando nel mondo, anche se in modo confuso e ambiguo. Bisogna allora individuare se c’è una parte che si può indirizzare contro l’altra. Ė vero che l’esperienza operaia nel capitalismo industriale è stata un’esperienza occidentale, però è stata capace di irrompere fuori dall’Occidente. Vediamo immensi paesi popolatissimi che hanno assunto la forma capitalistica occidentale, ma non in modo passivo, bensì politicamente. Lì c’è una sfida ancora in corso che mi interessa molto seguire: non so fino a quando potrò seguirla, ma consiglio a tutti di farlo. Parlo soprattutto della Cina, ossia un capitalismo che vede saldamente alla direzione dei processi qualcosa che si chiama Partito comunista, con tanto di falce e martello. È una grande sfida: chi vincerà? Il capitalismo riassorbirà questa direzione politica, o questa direzione politica sarà capace di portare il capitalismo a trasformare se stesso, riproponendo poi in altre forme un orizzonte di tipo socialista? È una domanda a cui oggi non possiamo rispondere, ma tra un po’ di tempo vedrete che si avranno delle risposte, in un senso o nell’altro.

 

A.Z.: La tua risposta è molto articolata. Non vorrei però tornare a ragionare su questioni relative alle scelte che divisero l’operaismo, fanno ormai parte della preistoria di ciò di cui stiamo discutendo. Sul minoritarismo c’è casomai qualcosa d’altro da dire e che tu dici. Il tramonto della politica, affermi, porta con sé, tra l’altro, la minaccia della consolazione minoritaristica, contro la quale, se ben intendo, richiami (an- che, non solo) il nesso tra mistica e politica – per ragionare, come esercizio di pensiero, e forse non solo, data la tradizione teologico-politica a cui il tuo riflettere è molto legato. In Con le spalle al futuro, ricorri ad esempio alla tradizione paolina, e leggi: «Una speranza di cui si veda l’attuazione non è speranza: Chi mai spera ciò che vede? Ma sperare ciò che non vediamo, vuol dire attenderlo con costanza».

 

Domando: non è, per così dire, nichilistica questa attesa? O quanto potrebbe esserlo? E se evocassimo, della stessa tradizione paolina, il celebre passo ove è detto: «Noi vediamo ora come in uno specchio, in enigma; ma allora vedremo faccia a faccia»; e, soprattutto, se evocassimo il commento di Agostino, ove egli afferma che il grande enigma consiste nel fatto che, qui e ora, «non vediamo ciò che non possiamo non vedere»; una condizione in cui le cose «si sanno non sapendole e, sapendole, non si sanno» – tanto che – si potrebbe aggiungere – non facciamo ciò che non potremmo non fare; ebbene, potrebbe essere questa, traslata in politicis, la condizione che determina «la volontà senza possibilità di decisione» di cui ragioni in La politica al tramonto (1998)? Insomma, che cos’è politica a questa altezza? Un’attesa che passi la notte, un affidarsi provvisorio, ma non rassegnato, alla semplice buona amministrazione, una sorta di weberismo di ripiego; ovvero, la tragedia novecentesca vera e propria, che sormonta ogni decisione?

 

Inoltre, in La politica al tramonto, solleciti, comunque, un ritorno a parlare, autorevolmente, in nome di una parte. E torna Bloch. Ti domando, quindi, come sia da accostarsi «all’attesa senza speranza» da te pur definita. E ti domando poi fino a quando la «contingente eternità della condizione umana» di cui ragiona Quinzio da te menzionato possa tenere insieme – o meglio, contenere – «visione apocalittica del futuro e lettura realistica del presente», avendo perso la grande politica ogni autonomia – osservi – e noi, con essa, la possibilità di «parlare a nome di una parte». E poi, quando lo stesso Quinzio, altrove, afferma: se gli uomini «potessero essere giusti, non potrebbero a loro volta che distruggere tutto», oltre che alludere a una contingente eternità, non sembra prefigurare una pura ineffettualità?

 

Come vedi, ritorno di nuovo alla questione per me decisiva. Che resta della politica di fronte alla continua tensione tra mediazione senza speranza, attesa senza speranza, e ineffettualità di fatto di una pratica storicamente risolutrice perché sovvertitrice? Se la politica è mediazione, non è che questa mediazione si è del tutto esaurita nella distinzione tra tattica e strategia? Ovvero, non è che questa mediazione ne ci abbia da sempre condannati a dover prendere atto che la radicalità non è mai in grado di effettuarsi senza pagare alla mediazione un prezzo talmente alto che, alla fine, della radicalità nulla resta?

 

M.T.: Sono bellissime domande che mi coinvolgono molto, perché vanno nel profondo delle questioni e dei miei pensieri di questo periodo. Mistica e politica, un binomio che cito come un possibile sbocco di pensiero, poi lo rimando, perché trovo cose più urgenti a cui dedicarmi. Adesso sto scrivendo, qui nella tranquillità della campagna, un testo che chiamo, con una suggestione hegeliana, Il mio tempo appreso col pensiero. In questo testo mi misuro di nuovo con la storia novecentesca e post-novecentesca. Un tratto di storia che non solo ho pensato, ma che ho vissuto. Dunque mi sento di dire delle cose facendo mia quella bella espressione di Lukács, pensiero vissuto. Soprattutto dopo il trauma dell’89-91, ciò che è stata definita la più grande catastrofe del Novecento. Solo partendo da lì si capiscono i nostri giorni, è soltanto allungando lo sguardo sul passato che riusciamo a capire.

 

Ora sono più interessato al tema della memoria che al tema della speranza. Qualche anno fa ho scritto un testo il cui titolo era Disperate speranze, è il «principio speranza» di Bloch che oggi non si vede come sia possibile realizzarlo. Mi aiutano molto i testi biblici, soprattutto neotestamentali, di cui faccio molte citazioni nei miei ultimi testi. Non si vede una possibilità di attuazione della speranza stessa, anche quella dizione blochiana di «speranza concreta» non morde molto nella realtà. Mi interessa far ricadere questo passato sul presente, mettere in crisi questo presente attraverso il suo passato, più che attraverso un possibile futuro. Sembra una rinuncia, ma non lo è. Anzi, è forse un passo in avanti. Mistica e politica: prevede una speranza che possa realizzarsi. Mi aiutano i testi biblici che hai citato, ma anche quelli del Gesù profeta, o i libri profetici dell’Antico Testamento, sono testi di grande valore. Il Gesù profeta che diceva: «quelli che non vedono, vedranno; quelli che vedono, saranno accecati». Ci sono formulazioni ultraradicali nel Nuovo Testamento, soprattutto nei testi evangelici e nella predicazione cristiana. C’è un tema che oggi evoco e non riesco ancora ad affrontare, perché premono cose più urgenti, che mi muovono nella speranza di inserirmi nella realtà, anche in questo presente, per cercare le possibilità di cambiarlo. Non mi rassegno al fatto che questo presente sia così assoluto: è un’illusione, ne sono consapevole, ma è così. Ogni volta che mi capita la possibilità di intervenire in un dibattito politico, pubblico, lo faccio, perché penso che possa accendere in alcune men- ti, io spero almeno in quelle più giovani, una scintilla, quella scintilla leniniana che può incendiare una prateria. Lo faccio perché non posso non farlo, perché è nella mia natura, per chi la politica voglia pensarla ma anche praticarla.

 

Filosofia politica è una disciplina di insegnamento accademico, io non mi sono mai detto un pensatore politico, ma un politico che pensa. Tra il pensiero e la politica il primato è sempre quello della politica, il pensiero viene dopo. Per concludere, c’è un tema che mi sta molto a cuore, che evoco e poi non approfondisco: è il rapporto tra comunismo e cristianesimo, tema affascinante. È stato detto che, in fondo, il comunismo è un’eresia del cristianesimo. Basta leggere gli atti degli apostoli e vedere quelle comunità che mettevano tutti i beni in comune, leggere i padri del deserto che si allontanavano dal mondo ma parlavano ancora del mondo. Quel famoso «essere nel mondo ma non essere del mondo», è una cosa che mi si addice molto: stare dentro con le mani e con la pratica, stare fuori con il pensiero. Mi chiedo sempre come mai comunismo e cristianesimo si siano sempre così aspramente combattuti, quando si poteva forse trovare una via comune. Certo, c’è l’istituzione Chiesa, che ostacola questa via comune; però, se si torna a quei testi, a quelle personalità che erano i padri del deserto, c’è un’affinità.

 

Io non parlo mai di socialismo, perché penso che socialismo sia una parola degradata. Socialismo è stato anche socialdemocrazia e socialismo realizzato in quel modo in Unione Sovietica; credo sia una parola irrecuperabile. Mentre la parola comunismo è ancora fresca, non intaccata dalla storia, proprio perché dà una dimensione dell’oltre, di un oltre non definito. Ma si può ben definire l’oltre? Non credo. L’oltre lo definisci quando sei dentro l’oltre e devi costruire qualcosa di nuovo, ma prima non puoi definirlo. Basta evocarlo. Inviterei le persone più sensibili, perché è proprio questione di sensibilità umana, ad assumere questi temi, a riflettere su questa straordinaria questione, a comprendere, cioè, come si riaggancino queste due grandi esperienze storiche. Non è un tema teologico, ma teologico-politico. Se si introducesse un elemento del genere nella riflessione sarebbe una rottura in quella medietà piccolo borghese stratificata e stabilizzata in questa società. Un cuneo che spezza e riproduce grandi pensieri e grandi prospettive.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *