di Durs Grünbein (trad. di Rosalba Maletta)

 

[E’ uscito di recente per Le lettere il volume Poesia, filosofia e le loro peripezie di Durs Grünbein, a cura di Rosalba Maletta. Ne presentiamo un estratto].

 

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Sognare, di che si tratta, poetare? A me pare pur sempre una spedizione nell’inconosciuto più remoto. Per capriccio dico: tornare lentamente a galla in una capsula dal fondo del mare. Riavvolgere tutte le scene vissute, tutti i film visti. Attraversare di nuovo, molto lentamente o con cadenza accelerata, tutte le città percorse a piedi. Rivivere tutti i conflitti con le persone che ci è capitato di incontrare; tutti gli amori, le relazioni, gli incontri sessuali, solo in maniera più consapevole, più drammatica. La “banda” dei Surrealisti ne ebbe sentore. Il Surrealismo fu una strategia atta a proiettare il linguaggio nella dimensione onirica passando dalla poesia alla filosofia e viceversa. Rimbaud, spiegaci che cosa hai inteso dire con la tua formula. Faceva davvero sul serio con la frase: «Je est un autre»?[1] Davvero sognava di essere un altro? Sappiamo solo che era spesso in viaggio assai lontano da casa, nell’inferno dei poveri a Londra e nel cuore dell’Africa, e tuttavia egli era sempre in sé. Eppure, in tutta l’innocenza che trascende il soggetto (della filosofia) e ancor più il senza nome (il pioniere della poesia), la sua opera ci dice: “Noi ti affermiamo, metodo!”. Un diciassettenne supera tutte le barriere, comprese quelle sociali, ed è perennemente in fuga come l’eterno vagabondo.

 

Nel sogno ci solleviamo dalla forma in movimento della vita: scambiamo la posizione dell’attore con quella dello spettatore che vive le proprie azioni come fossero di qualcun altro. Ci poniamo domande del tipo: questo significa “sì” o “no”? Prima che giunga la risposta, scivoliamo di nuovo nella nostra bolla personale, con la tuta di protezione per condizioni estreme, quelle di massima pressione subacquea, mille miglia sotto il mare. Ci sbarazziamo dei pochi inseguitori come fossero alghe rimaste attaccate all’attrezzatura. Torniamo indietro attraversando il giorno e la notte, l’aria e l’acqua, i paesaggi e le città, infine veniamo a galla, ci risvegliamo e fiduciosi incontriamo noi stessi. Il sonno è solamente una condizione marginale, durante la quale la coscienza può cambiare il proprio stato di aggregazione.

A cosa tende chi si dedica alla poesia? Quando al posto del proprio Io personale, quello che lo guida lungo le giornate, il garante della sopravvivenza nella società, pone l’“individualità poetica”, [2] come la chiama Hölderlin? Se lo sapesse in anticipo, non riuscirebbe a scrivere nemmeno un rigo. Non vale la pena iniziare, quando il risultato espressivo è già stabilito. Eppure scrivere poesie, come hanno riferito molti di coloro che vi si sono provati, significa fare una scoperta negli archivi più intimi, decifrare testi che già da tempo in quegli archivi erano depositati. Seguire con la certezza di un sonnambulo una linea immaginaria che, senza che fosse possibile anticiparla, alla fine puntava a qualcosa di universale. Una linea rivolta verso gli eventi naturali, verso i processi storici, nei momenti riusciti rivolta alla bellezza in tutte le sue manifestazioni frattali. Tale è la legge del calcolo poetico[3] di cui parlava Hölderlin — non tanto un sistema formale di regole standardizzabili, quanto piuttosto un flusso vivace in mezzo alla corrente in cui i concetti vanno alla deriva e le tesi dei filosofi si consumano.

 

Eppure, secondo una sorprendente intuizione di John Keats, contemporaneo di Hölderlin, così formulata nella famosa lettera a Richard Woodhouse del 27 ottobre 1818: «[…]  riguardo al Carattere poetico in sé e per sé […] non esiste in sé e non ha un sé − è tutto e niente. […] Il Poeta è la più impoetica delle cose che esistono; perché non ha Identità – ne è continuamente in cerca – e riveste qualche altro corpo».[4] Hölderlin, Lamento di Menone per Diotima: «Esco ogni giorno, e sempre un altro cerco, /».[5]

 

Da cui il filosofo Giorgio Agamben trae la conclusione: «L’esperienza poetica è l’esperienza vergognosa di una desoggettivazione, di una deresponsabilizzazione integrale e senza ritegno, che coinvolge ogni atto di parola e situa il sedicente poeta in un rango persino più basso della stanza dei bambini […]».[6] E si spinge ancora oltre mettendo in discussione come individuo nel suo insieme questo strano essere che vaga senza posa assumendo le voci più diverse e cambiando spesso tono nel giro di poche righe. Agamben dichiara che (nel migliore dei casi) si tratta del puro medium linguistico: «“Io parlo” è, dunque, un enunciato altrettanto contraddittorio che “io sono un poeta” secondo Keats. […] 3) L’enunciato “io sono un poeta non è un enunciato, ma una contraddizione in termini, che implica l’impossibilità di essere poeta […]».[7]

 

Note

 

[1] La prima lettera, indirizzata al maestro di Charleville, Georges Izimbard, data al 13 maggio 1871: Arthur Rimbaud, Œuvres. Texte établi par Paul Harmann, Mercure de France (impr. Aulard), Paris 1958, pp. 305-306: https://fr.wikisource.org/wiki/Lettre_de_Rimbaud_%C3%A0_Georges_Izambard_-_13_mai_1871 (ultima consultazione 3 febbraio 2023). La lettera a Paul Demeny, del 15 maggio 1871, non prevista per la pubblicazione, divenne il manifesto di un modo del tutto nuovo di concepire il lavoro poetico e, a mio giudizio, innerva ciò che Grünbein chiama der Dichtungstrieb (Durs Grünbein, Skizze zu einer Psychopoetik, cit., p. 33). Questa seconda lettera è, universalmente conosciuta come Lettre du Voyant: Arthur Rimbaud, Correspondance. Texte établi par Roger Gilbert-Lecomte, Éditions des Cahiers Libres, Paris 1929 (p. 51-63), reperibile anche online: https://fr.wikisource.org/wiki/Lettre_de_Rimbaud_%C3%A0_Paul_Demeny_-_15_mai_1871 (ultima consultazione 4 febbraio 2023).

[2] Friedrich Hölderlin, Prose, teatro e lettere, cit.: Sezione: Scritti teorici, “Una volta che il poeta sia padrone dello spirito….”, pp. 732-757. Il concetto di «individualità poetica» è esplicitato a p. 743 e ss.

[3] Hölderlin ne scrive in Note sull’Edipo: «[…] la poesia necessita di principi e limiti particolarmente saldi e caratterisitici. / Fra questi vi è appunto quel calcolo normativo» (Friedrich Hölderlin, Prose, teatro e lettere, cit., pp. 763-773, p. 763). Nelle chiose a “Note alle traduzioni di Sofocle” Reitani definisce questo Gesezlicher Kalkül: «L’interna logica dell’opera d’arte […]» (Ibidem, pp. 1509-1519, qui p. 1511).

[4] John Keats, Lettere sulla poesia, a cura di Nadia Fusini, Oscar Mondadori, Milano 2005, pp. 130-132. Il testo originale insiste sul soggetto neutro: «As to the poetical Character itself […] it is not itself – it has no self – it is every thing and nothing. […] …a Poet is the most unpoetical of any thing in existence; because he has no Identity—he is continually in for—and filling some other Body». La lettera è reperibile al link seguente: https://en.wikisource.org/wiki/Letter_to_Richard_Woodhouse,_October_27,_1818 (ultima consultazione 3 febbraio 2023).

[5] «Täglich geh’ ich heraus, und such’ ein Anderes immer, /»: Friedrich Hölderlin, Poesie. Scelta, introduzione e traduzione di Luca Crescenzi. Testo tedesco a fronte, BUR, Milano 2001, pp. 178-189. Si riporta anche la versione di Reitani: I lamenti di Menone per Diotima: «Ogni giorno io esco, sempre in cerca di altro,», in Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche. Edizione tradotta e commentata e revisione del testo critico tedesco a cura di Luigi Reitani con uno scritto di Andrea Zanzotto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pp. 226-235, p. 226; commento, pp. 1421-1431. Nel contesto dato si è scelta la resa di Crescenzi che evidenzia in maniera netta l’alterità che abita il poeta.

[6] Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (Homo sacer III), Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 104-105 (trattasi del cap. 3 La vergogna, o del soggetto).

[7] Grünbein combina qui a montaggio due riflessioni di Agamben: la prima è a p. 108 del succitato Quel che resta di Auschwitz. La seconda è invece a p. 104.

 

[Immagine: Auguste Rodin, Le penseur].

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