di Marco Zonch

 

Molte tra le pagine migliori che siano state pubblicate in lingua italiana tra la fine degli anni Novanta e i primi duemila sono state scritte da Aldo Nove. Confortano questo giudizio libri come (Super)Woobinda (1996 e 1998) o Amore mio infinito (1999), e molte delle prose che in questo stesso periodo l’autore pubblica in riviste e antologie più o meno note e il più delle volte oggi dimenticate. Si tratta di testi capaci, fortuna a parte, di porre il lettore di fronte a comportamenti e situazioni impossibili da semplificare attraverso il filtro del rifiuto/approvazione. Non si può per esempio leggere il primo racconto di Woobinda, Il bagnoschiuma, se non ammettendo di aver provato lo stesso “struggimento merceologico” che lega il protagonista al sapone del titolo, e che lo spinge all’omicidio. Una catena causale, questa, che sembra fatta apposta per negare al lettore distanza, e la possibilità pacificatoria di esprimere una condanna che non riguardi anche lui stesso. Riassumendo, testi capaci de-semplificare sul piano emotivo, intellettuale e morale la posizione di chi legge, e dunque di problematizzare il suo rapporto con il presente. Va inoltre detto, perché tornerà utile tra un attimo, che molti dei testi di questo Nove riescono nell’impresa senza ricorrere a situazioni estreme, pulp/splatter se si vuole, ma evocando emozioni più contenute, o parlando d’amore, come nel caso di una grottesca Lettera d’amore a Megan Gale.

 

Per il giudizio appena espresso oltre a questa de-semplificazione, se così la si può chiamare, conta naturalmente anche la qualità materiale di lingua e stile. La si può inquadrare, ritengo, come ricerca e raggiungimento di un punto di equilibrio tra prosa e poesia, e tra modi differenti di intendere la poesia stessa. I testi di questo periodo, infatti, sembrano essere stati scritti provando a guardare contemporaneamente a due autori diversi, il “novissimo” Nanni Balestrini e l’“innamorato” Milo De Angelis, che lo stesso Nove riconosce come suoi maestri (link). Risultato di questa mediazione è la messa al centro della pagina dell’io,[1] di cui non si racconta lo svuotamento misticheggiante ma quello operato dalla televisione e dal consumismo. Ma si può poi anche rischiare e dire, forse, che Nove sembra andare alla ricerca di una parola che come quella innamorata sia, sì, «impertinente e beffarda», ma non «indifferente ai conclavi della giustizia»;[2] non almeno se con giustizia intendiamo qualcosa che si trova al di là dei partiti e forse anche della storia. Il più vistoso risultato di questa mediazione è però la centralità che Nove assegna alle cose minute, all’infanzia, all’amicizia e soprattutto dell’amore, sentimenti a cui sono dedicati molti dei testi – Il mondo dell’amore (in Gioventù cannibale), Amore (in Woobinda), Lettera d’amore a Megan Gale, Amore mio infinito – di questo primo periodo. Televisione e tardo capitalismo pervertono però questi sentimenti e il loro oggetto, sostituendo al rapporto con l’altro quello con le merci e con gli idoli del capitalismo. Insomma, in questa fase cannibale avviene una complessa mediazione con la tradizione secondo novecentesca, soprattutto poetica, il cui risultato è la costruzione del filtro attraverso cui Nove fa passare la lingua dei giovani, quella della pubblicità e tutte le inesattezze grammaticali e le distorsioni sintattiche – si potrebbe proseguire – che popolano e danno ritmo (nel senso del ritmo del verso) alla pagina.

 

L’equilibrio raggiunto in questa fase si spezza all’inizio degli anni duemila, quando si apre una lunga fase di ripensamento – per una periodizzazione più precisa – di cui il primo segnale è forse la pubblicazione di Fuoco su Babilionia (2003), testo in cui Nove raccoglie le poesie di fine anni Ottanta, inizio Novanta. A questo ritorno alle origini, a cui in qualche modo appartiene anche La più grande balena morta della Lombardia (2004), si accompagna inoltre la sperimentazione di altri generi letterari (Lo scandalo della bellezza, 2005) e la progressiva normalizzazione di lingua e stile. Conta però soprattutto la graduale (ri)messa al centro dei problemi spirituali della primissima ora (Maria, 2007), che sembra diventare definitiva dopo La vita oscena (2010), e a cui seguono romanzi come Tutta la luce del mondo. Il romanzo di San Francesco (2014) e un peggioramento dei risultati artistici. Non solo, come detto, la lingua si normalizza ma viene anche meno la capacità dei testi di provocare le difficoltà emotive, morali e intellettuali – e linguistiche – che rendevano grande la scrittura del primo Nove. Tanto Il bagnoschiuma era capace, a un tempo, di avvicinare e repellere il lettore, tanto la riscrittura del racconto in occasione dei vent’anni di Woobinda (Anteprima mondiale, 2016) riesce a separare lettore e protagonista, offrendo giudizi netti e negativi sulle sue scelte di consumo e sui valori a esse sottese.

 

Drastico è dunque il cambiamento di rotta avvenuto di recente con Pulsar (2024), iconotesto e poema in prosa che sembra – purtroppo soltanto – segnare il ritorno di Nove a modi, strutture e forme della prima e migliore ora. Tra queste spicca il ricorso a una prospettiva infantile, che era già stata della Balena e di Amore mio infinito, e che in Pulsar viene adottata, con l’esclusione delle prime pagine, per scrivere la prima metà circa del testo. Altrettanto evidente è poi la vicinanza tra parole e frasi spezzate con cui si chiudevano i singoli racconti di Woobinda e con cui si chiudono, appunto, molte delle lasse di cui si compone Pulsar – assieme all’assenza di punteggiatura questo “trucco” davvero ci riporta alla lezione di Balestrini (link) e della neo-neo avanguardia degli anni Ottanta (È arrivata la terza ondata, Barilli, 2000). Forse però più che singole tecniche a segnare la vicinanza tra Pulsar e il primo Nove è l’aria di famiglia, il tono e il ritmo di frasi come: «Mia nonna mi diceva più avanti friulana della Teronia queste frasi ossia che erano come delle bestie e rubavano» (p. 30); o come: «Celentano era un disco che c’era vicino alla boccia di pesci rossi senza pallina» (p. 125). Costruzioni di questo genere, infatti, potrebbero senza difficoltà trovare posto in Woobinda, Puerto Plata market o in uno degli altri testi della prima ora.

 

Molto diverso è però l’orizzonte ontologico-spirituale e politico in cui lingua e strutture – ma in Pulsar tornano anche temi come televisione e merci – si collocano. Certo, come dimostra la silloge Madre di Dio (Poesia, nr. 91, 1996) la scrittura di Nove è sempre stata animata da preoccupazioni spirituali. È vero però anche che con l’aprirsi della fase cannibale queste preoccupazioni vengono messe in secondo o terzo, quarto piano. Ricompaiono, come detto, solo nei primi anni duemila e finiranno per occupare il centro della scena. Detto altrimenti, da un certo momento in poi al centro della scrittura di Nove si collocano concezioni sincretiche in cui religioni orientali, cristianesimo, suggestioni neoplatoniche e teorie scientifiche vengono tenute insieme da catene di analogie, e grazie alla polisemia di concetti come quello di luce – da qui il titolo Tutta la luce del mondo – o vibrazione. Di questa idea di mondo si deve tener conto leggendo Pulsar fin dal titolo, a meno di non voler andare incontro a fraintendimenti. Pulsar è infatti, nel libro, a un tempo il nome di una categoria di stelle e parola che può indicare il cuore («e il cuore era una pulsar», p. 147; vedi anche p. 230).[3] Una duplicità esoterica, in qualche modo, perché assume significato solo quando letta attraverso la lente di un neoplatonico principio di corrispondenza – il “come in alto così in basso” della tabula smaragdina – secondo cui micro e macrocosmo rimandano l’uno all’altro; nello stesso modo in cui luce e vibrazione, due concetti chiave per la riflessione ontologico-spirituale di Nove, permettono di percorrere il cosmo rivelando la segreta unità di cielo e terra. Qualcosa del genere vale poi, volendo fare un altro esempio, anche per la struttura circolare di Pulsar, che si conclude con alcune parole tratte dalle prime pagine del libro stesso – «Il protagonista di questo libro si chiama Antonello. […] Prossimo all’adesso con reverenza e brutale pietà» (p. 12 e p. 235) – e riportate nell’ultima in caratteri sbiaditi. Si tratta di una scelta che deve, ritengo, venir letta come correlato della concezione ciclica cosmo, di matrice induista, condivisa da Nove. Proprio così viene infatti usata la circolarità già in Zero il robot, favola illustrata (da Maria Tassi) che Nove dedica al racconto di una cosmogonia sincretica e, appunto, ciclica. Insomma, al cuore di Pulsar si colloca una fede sincretica e postsecolare, come del resto accade in molte altre scritture contemporanee.

 

Riassumendo, potremmo dire che Pulsar assomigli a Woobinda, da cui si distingue per l’importanza ricoperta dell’elemento spirituale. Allo stesso tempo però Pulsar non può neppure venir inserito nello stesso gruppo in cui si trovano libri come Maria, La vita oscena o Zero il robot. Conta la distanza stilistica ma anche quella politica. In Pulsar infatti – ma si leggano anche i Sonetti del giorno di quarzo (2023) – sono ormai divenuti apprezzabili i risultati dell’avvicinamento di Nove alle posizioni della destra antisistema; a quello che potremmo forse chiamare rossobrunismo. Si tratta di un passaggio segnalato, al di là di Pulsar, non solo da dichiarazioni pro-Trump, da affermazioni circa la lucidità intellettuale di Marcello Veneziani o di Diego Fusaro,[4] da quelle contro l’«ideologia woke» (Woobinda, 2023, introduzione)[5] e più in generale dalla deriva complottista avvenuta forse dopo/durante il lockdown. Di quest’ultima si trova traccia nell’attività social di Nove («Il temuto “Gr3at R3set” c’è stato», 2 maggio 2024, su Facebook; «Nuovo Ordine Mondiale», qui),[6] nei Sonetti («Big Reset», sonetto 68; «Deep State», sonetto 156; «Governo | mondiale», sonetto 246) e appunto in Pulsar, dove il lockdown viene descritto come un The Truman Show in versione «distopica» (p. 219). È però con ancora più preoccupazione che in Pulsar, all’interno di un elenco di cose e persone che l’io afferma avrebbe visto in futuro, sentiamo parlare di «certi postfascisti di paese (molto generosi nel regalare libri di Sorel, con la loro etica fuori tempo eppure rustica, antropologicamente rilevante, non c’è che dire)» (p. 31). Insomma, si tratta di affermazioni che, a scanso di equivoci, né in Pulsar né altrove vengono presentate attraverso il filtro dell’ironia o della provocazione. Sono purtroppo – valgono la continuità e la corrispondenza tra testi e paratesti – espressione delle posizioni politiche di Nove.

 

Pulsar è dunque, se possibile, un testo capace di esacerbare il rammarico per il punto d’arrivo del percorso artistico e intellettuale di Nove. Il testo è infatti artisticamente riuscito, dimostra anzi che Nove è ancora capace della potenza di un tempo ma, e allo stesso tempo, dimostra anche che il suo è un talento senza speranza. Perché dispera vedere che gli unici strumenti intellettuali reputati utili da uno scrittore come Nove, validi per leggere il presente e per guardare al futuro, sono il sonaglio del complotto e lo spettro della regressione; poco altro. Si è allora tentati di chiudere un occhio, un occhio e mezzo così da godere dello splendore di Pulsar. Non è però davvero possibile: la stella splende rossobruna e non si può far finta che così non sia. Non si può del resto neppure fare il contrario, mettendo al centro il problema politico e spazzando via tutto il resto. Bisogna dunque leggere questo libro, magari al rovescio, ma leggerlo per cercare di capire che cosa manca e che cosa non è stato possibile fare altrimenti; leggerlo per il piacere del testo e per parlare della difficoltà della cultura italiana a produrre e rinnovare i propri strumenti, e a rinnovarsi anagraficamente. È forse infatti da qui che parte Nove, e legittimamente, ma il punto d’arrivo non possono essere il complotto, le risposte antropologicamente rilevanti (sic) del postfascismo; la rivendicazione del pop più o meno buono e avvincente – nel libro e in alcuni post su Facebook Nove celebra la figura di Taylor Swift – in chiave anti-intellettuale.” La risposta non può però neppure essere la spiritualità, che ormai da cinquant’anni è parte della mitologie del capitalismo – si veda in tal senso la bibliografia di Steve Jobs e di altri – e più concretamente serve a dare struttura al management, mindful o meno che sia.

 

Note

 

[1] «una nozione che pareva definitivamente accantonata: quella di io. […] La parola“innamorata” trascina l’io dietro di sé»

[2] La parola innamorata, p. 11

[3] Ma si veda anche il sonetto 13. Sabbia spaccata (Sonetti del giorno di quarzo, 2023).

[4] Chi scrive ricorda l’intervento di Nove a Religioni letterarie II, convegno tenutosi a Varsavia il 26 e il 27 aprile 2023, in cui Nove ha affermato di condividere le posizioni di Fusaro esposte in La fine del cristianesimo, 2023.

[5] Su Facebook (in data 3 aprile) Nove consiglia la lettura di Unisex. Cancellare l’identità sessuale: la nuova arma della manipolazione globale, libro che si propone appunto di spiegare (sic) «come e perché le oligarchie mondiali vogliono imporre l’uniformità sessuale» (dal sito dell’editore).

[6] Vale la pena in questo senso scoprire chi è Morris San, youtuber che Nove afferma di aver seguito prima che questo cominciasse a organizzare seminari a pagamento (post in data 14 aprile 2024) e autore di video di questo genere.

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