di Andrea Inglese
In un mondo sempre più complesso e stratificato ha senso tornare a discutere, in modo aperto, critico e libero, del rapporto fra autenticità e scrittura poetica. Per questo, partendo da una ricerca di Maria Borio e da un dialogo fra quest’ultima e Laura Di Corcia, è nata l’idea di allargare la discussione ad altre poete e poeti, in vista di una tavola rotonda che si terrà a Pordenonelegge il prossimo settembre. Il dibattito, sotto forma di intervista, sarà ospitato dai litblog Le parole e le cose, Nazione indiana e dal sito di Pordenonelegge stesso. A poete e poeti è stato proposto un questionario, che trovate in calce, da cui ciascuno ha potuto scegliere liberamente tre/quattro domande. Dopo il primo intervento di Roberto Cescon, uscito su Le parole e le cose, https://www.leparoleelecose.it/?p=49615&fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR0hx2dqDED4rm5vKrBYUMA4yrGy4mgmlOFWAQBCCuOfLc5YVLyO6TaScI_aem_N3lLI_OHWH3_1xxOPmmA0g, quello di Tommaso Di Dio, uscito su Pordenonelegge poesia https://www.pordenoneleggepoesia.it/2024/07/03/autenticita-e-poesia-contemporanea-2/, e di Marilena Renda uscito su Nazione Indiana, pubblichiamo oggi le risposte di Andrea Inglese.
Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?
Dal 2003, sono membro del blog collettivo “Nazione Indiana” fondato da Carla Benedetti, Antonio Moresco e Tiziano Scarpa (fondatori da tempo usciti dal blog, che ha continuato comunque a esistere). Lo ricordo perché la nascita di questo blog è strettamente legata alla pubblicazione di una raccolta di saggi, Scrivere sul fronte occidentale (Feltrinelli 2002), curata dallo stesso Antonio Moresco e da Dario Voltolini. Il volume raccoglieva gli interventi di ventisei autori e autrici che, secondo prospettive diverse, reagivano tutt* al trauma dell’attentato dell’11 settembre. In realtà, molti scrittori, già prima dell’attacco terroristico in grande stile di Al Qaida, si erano resi conto che non solo la storia non era finita, ma che soprattutto non erano finiti i conflitti sanguinari che continuavano a scuoterla. E questo anche se l’Europa, che era stata un tempo teatro di spaventosi massacri, si presentava a fine secolo, assieme agli Stati Uniti, come una civiltà ormai pacificata all’insegna di un capitalismo universalmente accolto in ogni angolo del pianeta. La prima guerra del Golfo e le guerre nella ex-Jugoslavia avevano già annunciato, in realtà, che il collasso dell’Unione Sovietica e dei suoi stati satelliti non avrebbe aperto un periodo di pace e prosperità per il più gran numero di esseri umani.
Le considerazioni, che citate di Maurizio Ferraris e di Walter Siti, non sono certo esclusive del XXI secolo, visto che appartengono già a poeti e romanzieri del XX secolo, che di guerre ne avevano viste ben due su scala mondiale, scatenate nell’arco di soli 25 anni. A questo proposito, inserisco un passaggio di un mio saggio apparso sul sito “alfabeta2” nel 2016 (non più accessibile), intitolato Volodine in Italia e la questione dei generi. In quell’occasione, mostravo un filo conduttore che univa uno scrittore tardo moderno come Danilo Kiš (esordio negli anni Sessanta) e uno post-moderno come Antoine Volodine (esordio negli anni Ottanta), entrambi ossessionati dal problema di come scrivere “finzioni” dopo Auschwitz, Hiroshima e i Gulag. (Non solo i poeti, insomma, si sono misurati sulla crisi del loro “genere” di fronte all’estrema disumanizzazione degli eventi storici.) Riporto qui un passo dell’articolo sopracitato:
«E qui sarà utile la riflessione che uno dei grandi maestri del romanzo novecentesco, Danilo Kiš, svolge in La lezione d’anatomia (Čas anatomije, 1978), pamphlet e saggio di poetica romanzesca ancora inedito in Italia. Kiš riprende un aforisma di Borges – “La forma moderna del fantastico è l’erudizione” – e lo riformula secondo una diversa “politica della letteratura”. In sintesi, per Kiš la forma moderna del fantastico è l’archivio. Ciò va inteso, però, non nel senso incontestabile e assai diffuso, secondo cui il romanziere lavora spesso su documenti, inserendo la sua immaginazione nelle pieghe degli eventi storici. Come Manzoni c’insegna, non vi è in questo atteggiamento nulla di propriamente moderno. L’interesse della tesi di Kiš sta tutto nell’ossimorica tensione tra “fantastico” e “archivio”. Leggiamo un passo decisivo di Lezione d’anatomia (mia traduzione dall’edizione francese del 1983, pp. 64-65).
“Lo scrittore, nella maniera di concepire i suoi eroi, non ha più come scopo d’interpretare le loro azioni grazie alla chiave psicologica della trasgressione del divieto o del rispetto della morale, ma tenta piuttosto di raccogliere, come fa Truman Capote nel suo libro A sangue freddo, la massa di documenti e di fatti la cui combinazione frenetica e imprevedibile produce un massacro insensato, nel quale entrano indifferentemente dei motivi sociologici, etnologici, parapsicologici, occulti e ancora diversi, che sarebbe del tutto vano analizzare come un tempo, dal momento che sullo sfondo troviamo il comportamento schizo-psicologico dell’uomo, una realtà paranoica, ossia fantastica: il dovere dello scrittore sta nel fissare questa realtà paranoica, di studiare grazie al documento, all’investigazione, all’inchiesta questo demente concorso di circostanze, e non di tentare, di sua propria iniziativa e arbitrariamente, di stabilire delle diagnosi e di proporre dei rimedi”.
Inutile dire come la dimensione paranoica sia dominante nella letteratura “post-esotica” e come l’archivio storico del Novecento, con le sue guerre, le sue rivoluzioni mancate, le sue istituzioni totalitarie, i campi di sterminio, le dottrine millenaristiche, costituiscano un materiale sempre presente nelle narrazioni di Volodine.»
Ho voluto ricordare le riflessioni di Kiš, perché credo che anticipino quelle poi diffuse all’inizio del XXI secolo. E tutto ciò è avvenuto a margine di certe mode intellettuali (“Il pensiero debole” – anche se varrebbe la pena di definire ciò che s’intende con questa etichetta) o di certi slogan ideologici (“La fine della storia”). La vera questione, ancora oggi, allora, non mi sembra quella dell’”impossibilità della fiction”, ma dell’impossibilità di distinguere, in molti casi, narrazione realistica da narrazione fantastica, verosimile da inverosimile. I film, come i romanzi, che invece rivendicano il loro legame essenziale con “una storia vera”, vogliono essere a modo loro rassicuranti, e rinunciano a entrare in quel territorio che, supportato o meno da documenti storici, rischia di cancellare i contorni tra realtà e allucinazione.
Che ricadute, ora, tutto questo possa avere per il concetto di autenticità non mi è chiaro, ma mi sembra che:1) tale concetto sia in parte inattuale nel XXI secolo, tanto sul piano delle ideologie letterarie quanto su quello delle forme di vita collettive; 2) esso sia piuttosto una preoccupazione del genere “poesia” e, in particolare, delle forme liriche della poesia. Detto questo, trovo interessante il fatto d’interrogarsi sullo stato degli “ideali di autenticità”, in rapporto con le forme estreme di individualismo a cui siamo confrontati.
L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?
Quello dell’autenticità ha fatto parte di un piccolo nucleo di temi prediletti che mi hanno occupato alcuni anni, durante gli studi universitari legati al dottorato. L’esito di questo lavoro di ricerca è un volume intitolato L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalle confessioni al solipsismo uscito nel 2003 (collana “trame”, dipartimento di letterature comparate, Università di Cassino). Già nel titolo c’è in nuce una possibile risposta. L’autenticità è connessa con la nascita dell’autobiografia moderna (radicalmente diversa dalle scritture del sé precedenti), ossia con Jean-Jacques Rousseau. Ma con Le Confessioni di Rousseau non nasce solo un genere letterario “nuovo”, che per altro feconderà in modo irreversibile la storia del romanzo moderno dall’Ottocento in poi, ma nasce anche un modello narrativo che, stratificandosi e complicandosi nel corso degli anni, diventerà una componente importante dell’ideologia individualistica, soprattutto nella fase della modernità, come è definita in particolare da Marshall Berman (L’esperienza della modernità, trad. it., il Mulino, 1985). Dalla modernità in poi, l’individuo occidentale (e il personaggio-uomo che lo segue o precede come un’ombra) ha subito una progressiva – la chiamo io – tentazione del solipsismo. La cosa interessante è che qui ci troviamo inevitabilmente su di un terreno interdisciplinare, che riguarda non solo la filosofia, ma anche la letteratura, la storia delle idee, le scienze sociali. E sulla tendenza dell’individuo novecentesco e occidentale – oggi possiamo aggiungere: maschio e bianco – a concepirsi sciolto da ogni appartenenza, eredità, lingua comune, si è scritto molto. Norbert Elias è stato l’autore che ha fornito forse la descrizione più compiuta di questa sorta di “patologia” nel suo saggio del 1987 La società degli individui. In quell’occasione, egli formula il concetto di homo clausus. Un membro delle società moderne aspira, raggiunto un certo grado di socializzazione, a elaborare un percorso che lo individualizzi, che lo distingua cioè dagli altri e dia valore a tratti singolari della sua persona. In questo processo, però, egli corre il rischio di spezzare il legame con la società in cui vive e con il mondo condiviso. Tutto questo ha anche a che fare, come voi stesse ricordate, con il concetto di “autenticità”.
Il Novecento è stato ossessionato dall’autenticità, dalla possibilità di rivendicare dei valori, che non si declinino per forza attraverso norme ed esperienze collettive. Il filosofo canadese Charles Taylor ha utilizzato il concetto di self-expression per parlare del paradigma moderno della soggettività, che vede per la prima volta nella storia l’individuo impegnato in un lavoro di “espressione di sé”. Ed è qui che la nozione di autenticità entra in gioco: l’individuo, nella scelta di occupare un posto nel mondo storico-sociale che lo circonda, deve rimanere comunque fedele à sé, a certe sue particolarità, a certe sue inclinazioni. Il suo destino non è più determinato (unicamente) da modelli eroici, appartenenze di gruppo, norme trasmesse. Il paradosso di questa situazione, che Taylor sottolinea sempre, ma che è stato spesso ignorato, è che l’espressione di sé implica la mediazione attraverso il linguaggio, e non può avvenire che nel linguaggio, se vuole essere accolta, compresa, riconosciuta dalla collettività. L’espressione di sé è quindi un lavoro, un lavoro espressivo, che avviene attraverso il linguaggio comune, o eventualmente altre forme di linguaggio artistico, musicale o plastico, ad esempio. Non esiste quindi una singolarità del soggetto già data prima di questo lavoro, una qualche esperienza interiore o un qualche vissuto individuale che precede ogni atto di comunicazione e condivisione. La singolarità, allora, è frutto di un impegno, di una creazione, e come tale essa può riuscire oppure no, può persuadere gli altri oppure no. Questa incertezza sugli esiti del lavoro espressivo – e si studi a questo proposito tutta la parabola degli scritti autobiografici di Rousseau – è ciò che rende l’espressione di sé una scommessa, un rischio, una serie di tentativi, che possono avere successo, ma anche esiti fallimentari o addirittura tragici.
Le letteratura moderna è diventata un terreno privilegiato di questi ideali “espressivisti”, e quindi un terreno privilegiato anche per inscenare, a seconda dei casi, percorsi autentici oppure inautentici. Quello che è accaduto nel corso del secondo Novecento, però, è la comparsa di una singolarità considerata come un fatto acquisito, come un presupposto; oggi, addirittura, ognuno è chiamato a produrne prove sempre maggiori e sempre più rassicuranti, in contesti ibridi tra la sfera privata e quella pubblica, come nel caso dei social. Nel novecento, l’espressione di sé era considerato un ideale esigente, sia sul piano politico che letterario e artistico. Comportava scelte forti, rischi e sacrifici. Con il nuovo secolo, l’espressione di sé è un dovere per tutti; il mercato, le piattaforme elettroniche, persino i media generalisti non sollecitano altro che prove di singolarità. Ma stavolta sono spariti i cammini tortuosi e incerti attraverso cui si conquistava l’autenticità: ognuno è chiamato alla prestazione, bisogna sbandierare il proprio sé come un prodotto attraente e caratteristico. Siamo forse passati, come ho già scritto altrove, da un regime dell’espressione di sé (lavoro sul linguaggio e sugli enunciati), al regime di promozione di sé (lavoro sui canali e sui segni di sé – sul proprio logo autoriale/autobiografico).
Questo cambiamento di regime dovrebbe, come lamentano molti, implicare una perdita di qualità delle opere letterarie o artistiche? Non credo. Penso che continuino ad esistere opere valide e sorprendenti. Il problema è semmai un altro: vi è tutta una produzione di singolarità più o meno “riuscita”, più o meno “convincente” con cui siamo confrontati a tutti i livelli, e in cui siamo anche coinvolti intimamente, nel doppio ruolo di produttori e consumatori. Noi abbiamo bisogno di emettere prove di singolarità intorno a noi, e nello stesso tempo ne siamo anche i destinatari. D’altra parte, funziona oggi anche un “solipsismo di gruppo”, che è ben rappresentato dal negazionismo climatico, dai terrapiattisti, da forme di empatia selettiva (“esiste solo il dolore di quelli simili a me, di quelli della mia razza o cultura”, ecc.). Ma questo è un discorso ancora più ampio e complesso.
Utilizzando il filtro problematico dell’autenticità, credi che le dicotomie che riguardano la postura del soggetto in poesia possano essere ripensate o ristrutturate?
L’ho ripetuto in vari interventi scritti negli ultimi anni (ad esempio qui: Chi parla nel testo? Apriori autobiografico, maschere, iponarrazioni). Perdurano nel mondo poetico (parlo qui dell’Italia) degli ideali espressivisti ingenui, che non hanno fatto i conti né con la complessità del pensiero di Taylor né con la critica allo stesso Taylor, che gli è stata rivolta da pensatori vicini e amici, come Vincent Descombes. Dentro questo sostrato ideologico eclettico e confuso può entrarci ancora un po’ di vecchia fenomenologia, un po’ di mistica, un po’ di niccianesimo, e chissà quale altro elemento… Quello che conta, alla fine, è l’idea che il poeta sia depositario di un’esperienza del mondo “speciale”, ed è in virtù di questa particolarità che il suo linguaggio si distingue dal linguaggio ordinario. Io stesso ho creduto fermamente a questa storia, e di tanto in tanto, magari, mi capita ancora di crederci. Ho creduto che il poeta dovesse esprimere qualcosa come il vero sé, e la sua vera voce. Naturalmente non c’è niente di male, nel farsi guidare da immagini suggestive e infondate, se poi quanto uno scrive è interessante, sorprendente, efficace. Il problema è che questo modo di presentare la pratica poetica non mi corrisponde più, né mi sembra corrispondere al mondo in cui vivo. La questione che considero invece centrale, pur essendo già nata nel corso del Novecento, è quella del linguaggio (che si eredita e ci forma), in una duplice ottica: il linguaggio poetico (letterario, artistico) e quello comune (del mondo storico-sociale). La questione è quella dell’eredità e del rifiuto, delle risorse passate e dell’innovazione contemporanea. E attraverso il linguaggio, si pone la questione di come parlare del mondo, ed eventualmente anche del soggetto (che del mondo fa parte), nel senso di soggetto collettivo (un noi) o di individuo empirico, che valorizza magari la sua singolarità. Oggi ancora sembra che la grande disputa all’interno del mondo poetico sia “soggetto sì” o “soggetto no”, come se l’individuo che scrive non fosse preso in un vastissimo spazio di dipendenze, storiche e naturali, di cui solo in parte può essere consapevole. Mi sembra, allora, che sia più proficuo prendere in considerazione il rapporto di eredità/creazione che abbiamo con il linguaggio (o con i linguaggi) e il rapporto che abbiamo con il mondo-storico, e i suoi oggetti specifici. Da questo punto di vista la grande rottura, che ancora ci determina, risale alla svolta linguistica, e tutto ciò che ha comportato nel bene e nel male. Nella transizione tra strutturalismo e post-strutturalismo, tra la filosofia analitica del discorso ordinario e la filosofia del secondo Wittgenstein, tra le fenomenologia di Husserl e la decostruzione della coscienza fenomenologica operata da Derrida, si situa il punto di rottura con la tematica moderna dell’autenticità. Oggi possiamo parlarne, studiare che cosa ha voluto dire quell’ideale, quel concetto, ma non ci troviamo più in un contesto storico nel quale esso ci può essere particolarmente utile, se non in maniera comparativa, come punto di riferimento passato.
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Questionario completo
Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?
L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?
L’autenticità sembra distinguersi dalla verità: la prima partirebbe da una spinta interiore, dalla necessità individuale di poter esistere e agire secondo il proprio sé, mentre la seconda sarebbe legata a un orizzonte esterno, dal momento che il discorso della verità deve comunque poter essere condiviso. Seguendo, però, le riflessioni che abbiamo ereditato da Jacques Lacan, il desiderio presenterebbe un duplice volto, ovvero giungerebbe sempre dall’altro (il Grande altro), ma manterrebbe anche delle sue caratteristiche intrinseche (il desiderio è anche mio, e di nessun altro). Che rapporto c’è fra desiderio e autenticità?
Partendo dal ragionamento precedente, se il desiderio viene dall’altro ed è quindi la traccia di una relazione o di un linguaggio che mi pre-esiste e dentro il quale oriento e contratto la mia identità, in cosa consisterebbe l’autenticità? E come essa potrebbe essere calata in una produzione letteraria? Per Andrea Zanzotto, ad esempio, a fronte di una natura che diventava inautentica con l’industrializzazione, la lingua e lo stile potevano mantenersi depositari dell’autentico. Lo stile e la lingua autentici dovrebbero cercare in ogni caso un nostro – per riprendere Natalia Ginzburg – “lessico familiare”?
Il discorso sulla verità e sull’autenticità sembra essere tornato in auge, specialmente nel romanzo e in quel segmento della narrativa che corrisponde all’autofiction. Se torniamo per un attimo alla stagione del neorealismo, troviamo scrittrici come Elsa Morante per la quale il romanzo realista parlava di una “verità poetica”, non meramente oggettiva, ma intrinseca alla trasfigurazione letteraria. Nell’autofiction odierna, come in alcuni dei romanzi autobiografici di Annie Ernaux, sembra non esserci né l’intento di problematizzare davvero il parlare di sé in modo autentico, né di cercare una “verità poetica”. E come si posiziona la poesia in questo contesto? Mancano delle riflessioni? Ve ne sono troppe? Occorrerebbe postularne altre?
Gli scrittori e le scrittrici che si consideravano realisti sembravano dare credito al valore dell’autenticità (anche dal punto di vista ideologico) e basavano su di essa l’arte del narrare, la fiction. Successivamente, soprattutto nella cultura postmoderna, chi faceva fiction ha respinto l’idea che si potesse raccontare di qualcosa di autentico. Ma, come scriveva Giovanni Giudici, “anche dalla finzione […] il vero può nascere”. Oggi la narrativa – con le scritture-documentario, la non-fiction, e la stessa autofiction – sembra aver riscoperto l’autenticità voltando le spalle alla fiction, alla narrazione come arte? E in poesia esiste una dimensione – diversa sia dalla non-fiction sia dalla autofiction – in cui, anche attraverso l’immaginazione, si potrebbe esprimere una forma di autenticità?
Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?
Utilizzando il filtro problematico dell’autenticità, credi che le dicotomie che riguardano la postura del soggetto in poesia possano essere ripensate o ristrutturate?
Il parlar franco è stato per secoli guardato con sospetto nella dimensione letteraria. Ma dai tempi di Niccolò Machiavelli e Baldassar Castiglione a quelli di Pier Paolo Pasolini, la rivoluzione percettiva e antropologica è stata tale che si è arrivati a dare all’autenticità un posto ben diverso. Per Pasolini il parlar franco era la spia dell’integrità politica – anche in letteratura. E il parlar franco si può esprimente tanto in modo tragico quanto ironico. Una riflessione etica connessa all’autenticità dà un valore aggiunto a un testo letterario?
In letteratura l’onestà – come il tema della “poesia onesta” caro a Umberto Saba – può andare di pari passo con il valore estetico?
Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?