di Antonio Devicienti
L’attività intellettuale di Stefano Modeo segue almeno tre direttrici strettamente concomitanti, vale a dire la saggistica, la curatela di volumi di poesia (finora Raffaele Carrieri, Un doppio limpido zero – Interno Poesia, Latiano 2023 – e Pasquale Pinto, La terra di ferro e altre poesie (1972-1992) – Marcos y Marcos, Milano 2023) e la scrittura in versi; riflettendo sul volume Partire da qui (Interno Poesia, Latiano 2024) mano a mano che la lettura procede ci si accorge che i testi escono dalla sfera emozionale-intellettuale privata (il legame profondo con la città natale di Taranto) per divenire voce collettiva che trova fondamento poetologico (ma anche civile e politico) nel pensiero in atto di Franco Cassano, di Alessandro Leogrande, di Vito Teti e, appunto, di Raffaele Carrieri e di Pasquale Pinto (ma non solo, ovviamente); gli studi saggistici e le curatele di Stefano Modeo trovano, cioè, un altro fronte espressivo nella scrittura in versi la quale, esigendo e mettendo in pratica strategie e scelte ritmico-linguistiche peculiari, conduce il linguaggio ad articolarsi sì in versi, ma con l’ambizione di raggiungere un realismo che non ha caratteri epigonici, ma innovativi – chi scrive in direzione realista deve fare i conti, in Italia, se non col Verismo (ormai molto lontano cronologicamente), almeno col Neorealismo del secondo dopoguerra e, in poesia, anche con alcuni stilemi della cosiddetta “linea lombarda” e, anche, compiere una scelta rispetto alle sopravvivenze del genere lirico. Stefano Modeo, ben consapevole di tutto quello che è accaduto e che accade nel mondo poetico di questi decenni, guarda al paradigma tarantino tratteggiando un realismo che chiamerei emotivo perché, con stile asciutto e chiaro, dotato di connotazione immediata e univoca, egli interpreta il reale (la storia marittima e portuale della città, la presenza delle acciaierie, l’emigrazione, le nuove immigrazioni, il contesto più generale del Mezzogiorno, del Mediterraneo e dell’Europa) rapportandosi a esso con strumenti intellettuali e metodologici mutuati dagli studi di Leogrande, Cassano, Teti, ma non trascurando mai di prenderne in considerazione le ricadute a livello emotivo, facendone anzi la caratteristica decisiva che distingue il saggio o lo studio o l’inchiesta dal testo poetico – e non ho scritto per caso di un “paradigma tarantino” in quanto la complessità di quella situazione (sociale, culturale, storica, politica ed economico-finanziaria) consente d’interpretare anche altre realtà urbano-industriali e, soprattutto, di sperimentare che cosa possa essere la poesia adesso in relazione a simili paradigmi.
1.
La pima parte del libro s’intitola A sud di nessun dove trovando così nel dato immediatamente geografico il proprio preciso riferimento, ma in relazione a un dove indefinibile data la sua problematicità, come se il presente della realtà tarantina si fosse dissolto in una congerie di luoghi conflittuali e contraddittori.
Due mari
Lungo la linea dei due mari, la città
s’arrocca in una nuvolaglia grigio-scura.
I delfini a volte arrivano sino alle boe
sotto i piloni, dove il sole
fa il cielo arancione. Strano,
è solo un giorno senza vento, scandito
dall’andamento delle auto. Ma un legno
s’è appruato su una roccia
sottraendosi all’approdo – non c’è suono
nel ventre del golfo, solo il coro
stridente dei gabbiani.
Risale per le vie una verità,
un risentimento delle case,
delle strade. Ma la speranza
non si prende i suoi torti,
restiamo ostili con desiderio
se il vento riprende, nostro tormento.
(p. 11)
S’intitola Fumo sulla città il libro del 2013 che Alessandro Leogrande dedica alla Taranto dell’Ilva (e dell’avventura politico-speculativa di Giancarlo Cito) e la «nuvolaglia grigio-scura» di Modeo sembra fare riferimento proprio a quel libro, ma occorre notare il fatto che Modeo (tranne in un caso) non nomina mai esplicitamente l’impianto siderurgico facendone per dir così aleggiare la sinistra presenza sulla città e, come già Leogrande, intrecciando in Partire da qui i temi della malavita, dell’emigrazione, delle molte contraddizioni nate con l’ndustrializzazione poiché non deve sfuggire che “partire da qui” è espressione di duplice significato: si “va via” (si emigra) da qui e, anche, si comincia ragionando e riflettendo da qui.
Ecco allora che il «risentimento delle case, / delle strade» è un primo emergere, nel libro, di quel realismo descritto nelle sue ricadute psicologiche ed emotive cui si accennava poco prima. Non si tratta di una descrizione di Taranto, ma di un proemiale avvicinamento a una temperie psicologica (e storica: quella del presente) che si chiama Taranto: una città è anche le sue pietre, le sue strade, certo, ma quelle strade e quelle pietre hanno senso perché ci sono persone che le abitano con i loro desideri, attese, disillusioni, speranze, tormenti, appunto.
Si noti l’uso delle terze persone singolari fino all’inaspettato apparire della prima persona plurale nel penultimo verso: Modeo, mai pensandosi solo ma parte di una collettività, sembra accarezzare con sguardo amoroso (scrivo in maniera premeditata “amoroso” e non “amorevole”) la sua città e quello sguardo, in qualche modo costruito sulla distanza dall’oggetto osservato, si dissolve diventando un sentimento che si pone in conflitto dialettico con il vento, simbolo e metafora, immagine di uno status della città sofferente.
Scrive Franco Cassano: «Oggi si può abitare una città di mare senza riuscire a vederlo, e il mare può riuscire a non vederlo chi lo attraversa, lo vende e lo compra. E per favore quando finalmente si parla di mare non si chieda prima di parlare (come oggi va di moda) il permesso all’economia politica: ciò di cui occorre parlare è qualcosa che precede l’economia, della confidenza sentimentale con il mare, del mare che abbiamo imparato senza nessuna scienza ma solo abitandoci accanto, come un parente più grande, come la casa dove siamo nati, come un vicino, un silenzio, una solitudine o un mattino. Del mare che riscopriamo quando ci sentiamo soffocare perché ci sorprendiamo in una terra circondata da terre.
Il mare è in primo luogo meditazione, una voce impersonale che mette, forse solo per un’assonanza tutta italiana tra mare e are, tutti i verbi all’infinito, un cielo raddoppiato e diventato terrestre, una parete sfondata, un confine libero, un orizzonte che richiama proprio perché sfugge. E’ da questa linea di fuga che nasce quell’inquietudine che si conosce quando si arriva da soli in una terra di mare: ogni pontile è la tentazione di salpare, di andar via, di inseguire, senza poterla afferrare, la linea utopica dell’orizzonte, è qui che nasce un rapporto più ricco e drammatico con la terra. Non siamo più gli ostaggi di un paesaggio, di un campanile che ci orienta, ci soffoca e ci trattiene come una catena; il mare opera uno sfondamento che apre la mente all’idea di partenza, all’esperienza di un’infedeltà che rende incerta ma anche più grande e complessa la fedeltà, che inventa la nostalgia, quel dolore e quel desiderio della patria che la fanno diventare interiore, compagna di viaggio di ogni viaggiatore. Rende ogni uomo straniero e ogni straniero un uomo, rende compagna la scissione, ci fa abitare da più di un’anima». (Il pensiero meridiano, Laterza Editore, Bari-Roma 2021, p. 15) – il mare, il mito di Ulisse (presente in più testi della terza parte intitolata non a caso Nostalgia), il sentimento profondo del nomadismo innervando Partire da qui confermano la verità e l’energia intellettuale e creativa insite nelle parole di Cassano e, sempre non per caso, il secondo testo del libro di Modeo (Periferie, p. 12) dice di pescatori che «ignorano la città / trascinano sacchi di molluschi / sulle spalle, succhiano gusci interi / di acqua, iodio, muschi, licheni. / […] / Vivono come il plancton in seno / alle acque – alle donne – al veleno» stabilendo così una dicotomia tra la Taranto preindustriale (ma qualcosa di simile potrebbe essere affermato per l’intero Mediterraneo) e la città delle acciaierie, là dove un’idea affine (ma riferito al rapporto tra la campagna e la città) aveva compreso ed espresso Pasquale Pinto quando scriveva degli operai ex-contadini e ancora legati, in un modo o nell’altro, alla campagna, alla sua Weltnaschauung, alla sua cultura.
A Taranto, città del Sud e del Mediterraneo, il vicolo è il luogo delle storie, dei fallimenti, dei desideri, delle vite dal destino già segnato, il realismo della visione poetica penetra i pensieri e le emozioni della gente:
[…]
In due nel vicolo, in sella alle moto,
s’involano ora sfiorandosi appena:
nella corsa impennata in quella via
si sentono meno incapaci
se si fa presto a imparare a migrare.
(da Nel vicolo, p. 13)
E che Partire da qui sia anche un inanellarsi d’immagini che, accampandosi sulla pagina con la loro laconica incisività, sanno dire Taranto infinitamente meglio di qualunque intonazione nostalgica o sentimentalistica, lo dimostra Il santuario:
S’inerpica sui muri del santuario,
intorno a un recinto di lamiere,
un vecchio fico come un soffitto
e chiude i resti in un verde sereno.
Dai balconi stendono i panni
le donne nella chiesa vuota:
«è venuta meno» dicono «di gronda
in gronda l’acqua abbarbicata sul tetto,
ha lasciato al Cristo fradicio il cielo»
(p. 14)
Se esiste un pensiero meridiano, ebbene Modeo ne continua l’efficacia di analisi e di postura intellettuale e politica, la sua poesia è voce di una consapevolezza che, lucida e agguerrita, si spinge nel futuro possibile di una città e di tutto il Sud (e del Mediterraneo); si parte da qui non per abbandonare o, rassegnati, soltanto emigrare, ma per ripensarsi e riconoscersi soggetti attivi della storia, non vinti, non colonizzati, non emarginati ed è in questo punto che s’innesta anche il concetto della restanza; le parole di Vito Teti «Ho provato a plasmare un’immagine interiore del processo mentale di chi, per scelta o per forza, prende la sua strada e parte; ma la restanza, al contempo, è il sentimento di chi àncora il suo corpo ad un luogo e fa diaspora con la mente» (La restanza, Giulio Einaudi editore, Torino 2022, pp. 4 e 5) esprimono perfettamente lo spirito e la postura espressivo-concettuale di Partire da qui che, dal punto di vista biografico, è, con La terra del rimorso (Italic Pequod, Ancona 2018), l’atto con cui Modeo, docente a Treviso, nello stesso tempo emigra da Taranto senza tuttavia mai lasciarla – è corretto dire che vi resta tramite l’azione concreta di studiarla, scriverne, tornarvi e ripartirvi con questo genere singolare di diaspora comune a moltissimi Meridionali e Mediterranei cui è congenito il sentimento di un’ininterrotta continuità temporale tra passato, presente e futuro che si può riconoscere, per esempio, nei limpidi versi di Tartaruga, memori, nel loro magnogreco nitore, di Leonida Tarantino e di Raffele Carrieri (e di Leonida è l’esergo a tutto il libro – Sono sepolto in mare e sulla terra – e a un suo epigramma si rifà il testo di p. 65 Naufragio di Tharsys nel quale si rievoca la vicenda del marinaio Tharsys che riporta in superficie l’àncora della sua nave, ma fa appena in tempo a porgerla ai compagni perché la parte inferiore del suo corpo viene azzannata e inghiottita da un mostro marino, mentre la parte superiore viene recuperata dai compagni e sepolta in terra: è questa l’immagine pregnante della partenza e della restanza, del doppio legame con il mare e con la terra, dell’àncora perduta e ritrovata, del prezzo da pagare al vivere e al morire):
Saltano sugli scogli come capre,
in tasca la danza di piombi fusi
in fabbrica per cacciare le spigole.
Di profilo la roccia è una tartaruga.
Mentre montano sul carapace
il sangue brucia nei corpi di sale.
[…]
Le madri, impaurite dal pericolo che si annida tra gli scogli, richiamano, sbracciandosi e urlando, i figli
Ma loro non cedono al tempo
che vogliono. Piuttosto
con un tuffo restano fedeli
a quella loro limpida sapienza.
(p. 15)
È la «limpida sapienza» di chi è nato e cresce la sua fanciullezza e giovinezza in riva ai mari tarantini dove la restanza è il serissimo gioco della vita fedele a un luogo non per rinchiudervisi, ma per aprirsi al mondo (e in questo senso la presenza costante del mare che è una delle anime di Taranto e ne costituisce da ogni sua piazza, da ogni suo vicolo l’orizzonte, nutre i versi di Stefano Modeo i quali, ribadisco, vogliono essere anche voce di una città molto amata e molto studiata).
Se infatti i turisti si aggirano per la città vecchia, «dalla periferia passano senza fermarsi, / eppure un bel sole scalda sulle panchine / i volti incipriati delle badanti dell’est» (da Turisti, p. 17), versi che perfettamente saldano il glorioso passato tarantino (si possono immaginare quei turisti anche in visita al Museo archeologico…) al presente comune a tutte le città italiane e alla verità che le periferie contengano una grande dose di umanità che, oggi, conferisce alle città il loro volto più vero.
Ma Taranto (pressoché inutile ribadirlo) ha nelle sue periferie anche quei quartieri nati a ridosso dell’Ilva e uno degli ingressi al complesso industriale dà il titolo al testo seguente:
Portineria D
Persi tra le cime degli ulivi
gli uomini alle portinerie
a polmoni pieni, per tutto
quello che poteva venire,
dovevano restare muti
dentro un’idea pura,
una vita dietro l’altra.
Pensavano di sentire
dentro la notte il mare
mugghiare nei magazzini
il nero mare limpido
sognato dai ragazzini.
(p. 19)
I “polmoni pieni” sono l’immagine anatomica che rimanda direttamente alle neoplasie che hanno funestato e funestano l’area tarantina, quel dover “restare muti” in nome di un lavoro ferocemente faticoso e spesso mortale che, nella mente di quegli operai, fa sognare, per contrasto, «il nero mare limpido» e l’ulivo (l’albero ciclicamente ritornante nel libro di Modeo), caratteristico di tutto il paesaggio salentino, aprendo il testo consegna all’immaginazione la visione di una terra abitata dagli olivi, bagnata dal mare, ma segnata nell’anima dai lunghi e piatti edifici delle officine e dall’elevazione verticale degli altiforni e delle ciminiere.
2.
Pater è il titolo della seconda parte della silloge e, coerentemente, riflette sulla linea di filiazione da un padre che è il legame sia biologico che psicologico con il proprio luogo d’origine; non a caso il testo proemiale, intitolato Lasciami andare (p. 27), mettendo in scena un gesto normalissimo (la preparazione della farina per la frittura del pesce come ha insegnato il padre), immette la memoria nel presente dell’io che s’interroga sulla scrittura: «[…] Dimmi se può venire / una parola ancora / che sappia descrivere / il percorso della spigola / che si caccia sulla riva, / perché se lei parla / ti prego dice, / lasciami andare». “Descrivere un percorso” può essere, in effetti, un modo efficace per definire la poetica di Stefano Modeo dato che siamo innanzi a una scrittura che segue precisi itinerari di pensiero e di espressione artistica, che, tramite la limpidezza espressiva e l’accurata costruzione dei singoli testi, mette in atto processi di analisi del reale portandoli ad esprimersi in forma di testo in versi. Giungendo addirittura nel distico finale di Diario dell’inconscio (p. 28) a dare l’impressione di ripetere le precise parole di Vito Teti: «Dal margine / è più semplice immaginare di andarsene», scrive Modeo e Teti: «Il mio non è un elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo, ma è solo il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni. […] Perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine» (La restanza, op. cit., p. 7).
La scrittura di Modeo è sempre in cerca di Una nuova mappa (p. 29) – nell’immagine dell’uccello che «piange sulle foglie d’ulivo», cui fanno male le ali «ora / che la parola è muta nel nido», che è sgomento e vede distendersi all’intorno la neve invernale, è esplicitata la condizione del poeta arrivato a un’impasse del suo scrivere, così che sorge l’autoesortazione: «Spegni la lampada allo scrittoio / ci basti la luce del sole. / Proviamo a seguire una nuova mappa / e se ci perdiamo / resta ancora una spelonca / dove potremo fare altri graffiti»; ecco: Modeo continua a partire da qui, a conservare una profondità temporale che lega il presente al passato più remoto, che fa della sua scrittura in poesia un moto costante di pensiero e di stile capace di riconoscere il nuovo anche in ciò che, cronologicamente, è assai antico; qui agisce da un lato l’avere un’origine personale e culturale da una terra straripante di grotte al cui interno sono fiorite, nei millenni, culture diverse e straordinarie, dall’altro il riconoscere la propria modernità a patto di non tradire ascendenze e modelli, con la consapevolezza che muoversi nella modernità significa cercare sempre nuove rotte, rischiare di perdersi, dover ricominciare da capo – si legge in Le agavi a pagina 71 di un uomo che «È in cerca di un reperto / che lo faccia risalire a quando / è apparso sulla terra, / una vecchia lanterna o un corridoio / nel tempo che ora possa aiutarlo / a chiudere il cerchio»; egli riconosce nella propria contemporaneità i guasti del progresso («il capo abbattuto / delle gru nel porto, i distributori / di carburante nel mare o la prua / delle navi petroliere») e constata che «Il mondo che muta ha l’aspetto / di ciò che è andato perduto» mentre le agavi continuano da tempo immemorabile a sopportare i colpi dello scirocco e gli assalti della salsedine, testimoni di un tempo che supera la durata e le velleità umane.
Tutto questo si esprime in un’immagine di apparente modestia, ma efficace e pregnante: «Tu sei l’asino delle cisterne / […] / Tu cosa provi a dire? / Ti ascolto dall’altra parte. / […] / […] dài indietro / solo la memoria. Io resto / sullo scoglio, attendo / che lo scirocco ci chiuda / nel cerchio del golfo. / Ecco, il mio secchio d’acqua / lo poggio qui, ne puoi bere» (Il secchio, p. 33).
3.
Bere dal secchio della scrittura in versi significa conservare fiducia in essa, ritrovare la modesta nobiltà dell’asino, riconoscersi in una figura ingiustamente dileggiata, ma d’intatta pazienza e forza – sulla stessa linea di pensiero si profila Pulcinella (terza sezione: Il segreto di Pulcinella) che, pur nel cambio di registro linguistico (apparentemente scanzonato e saltellante, in realtà dolorante e tragico), racconta sempre del Sud con un lieve spostamento geografico a Napoli e in Campania: il pensiero meridiano e la restanza sanno benissimo che nascere in un luogo del Meridione d’Italia significa appartenere a geografie e a stratificazioni temporali ben più vaste e complesse e, con Giorgio Agamben cui Modeo esplicitamente si richiama in una delle note finali, sappiamo che è la commedia a cogliere la giuntura tra pensiero filosofico e poesia perché la commedia cerca e trova sempre una via d’uscita nelle situazioni peggiori e, dunque, anche in quelle in cui il pensiero è in difficoltà di fronte al reale (Ubi fracassorium, ibi fuggitorium – “dove c’è una catastrofe, là c’è una via d’uscita” recita l’esergo alla sezione del libro):
Le voci
Povero Pollicinella
che va alla forca
– lo vuole morto ucciso! –
Crepa,
schiatta,
muori!
Povero Pollicinella
ha la lingua della folla
– per questo si smatricola! –
lo sbudella,
lo scanna,
lo disossa!
Povero Pollicinella
lo vanno a prendere i suoi nemici
– Chi è? chi bussa alla casa nostra? –
chi chiama,
chi sfonola,
chi tozzola?
(p. 45)
Infatti, richiesto se sa fare il verso dell’asino, Pulcinella risponde che «sotto la maschera mi dispero / a squarciagola» (La maschera, p. 46) e, osservando i bufali che pascolano alle falde del Vesuvio, può concludere: «E nel dolore, dove si subiscono torti / non c’è cambiamento. Così si vuole: che i morti sian vivi e i vivi già morti» (Vivere sempre, p. 47).
Quello di Modeo è un Pulcinella che si toglie la maschera e dice la verità, è personaggio che si libera da ogni cliché folcloristico, che ha il coraggio di non compiacere, di non perpetuare né luoghi comuni, né una facile rassegnazione: «Da questo, chi è capace e si scarcera / non è schiavo di niente e si smaschera» (Il buffone, p. 48), «Da qui io invece ora me ne vado, non resto / vedi come bruciano i formicai, io le detesto» (Formicai, p. 49).
4.
Ma andare via è, come scrive Zanzotto nell’esergo scelto per aprire l’ultima sezione intitolata Nostalgia, una duplice azione: «Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio / qui volgere le spalle» – lo sguardo abbraccia i Conquistadores (p. 58) che «Giunsero dalle steppe deserte / avevano pelli, cinture di cuoio, reti / […] / […] Si lasciarono / dietro la città affamata e morente / senza concedere speranza, soltanto / rimorso», Abramo (p. 59) che «segnò le guance con un tratto di pece / giurò guerra alla specie / e s’incamminò solo ad un guado finale», Paesaggi (p. 60) dove «Restano lamiere sgretolate di eternit, / fuochi di giornali pubblcitari. // Sul cartello vietato l’ingresso / qualcuno vi ha scritto appresso: // alla città».
C’è, significativa e decisiva, la compresenza di più tempi della storia:
Noi siamo dove non ci vedete
Dalle torri sulle scogliere, dalle fessure
i nomadi turchi in punta sulle prue
venivano per il pesce.
Gli ulivi spianati dai caterpillar
allungarono l’orizzonte e le capre
per prime si persero nelle gravine.
Ora, mentre fuori la tramontana
spinge i remi di una galea,
la città vuole rifare le sue strade
ma nessuno sembra capire né avvertire
sotto i colpi alle ginocchia, alle caviglie
che è già ridotta in polvere di conchiglie.
(p. 61)
La dimensione della poesia consente, infatti, di sovrapporre e far coincidere i piani temporali portandoli a deflagrare per spiegare un presente che non è affatto univoco e concluso, ma stratificato e problematico, immiserito e bisognoso di essere decodificato attraverso i meccanismi di un linguaggio organizzato in versi liberi con l’affiorare talvolta di rime in clausola finale, ritmato con una lieve melancolia che non esclude la lucidità nella percezione di cause ed effetti.
I Nomadi (p. 62) prefigurano un futuro di nuove migrazioni, di nuovi trasbordi, di nuovo dolore e anche di rinnovata speranza («E se torneranno dalle dolci distese / dell’ovest, […] / […] / o dalle steppe desolate dell’est, / […] / […] con i piedi fasciati / di carta e le dita seccate diranno: / “Siamo venuti a piantare una tenda”. / I barcaioli faranno sempre la spola / tra noi e l’Epiro […] / […] e alcuni chiederanno: / “Siete venuti a morire?” come fosse / l’ultimo sospetto rimasto da nutrire»).
Come Franco Cassano insegna, il pensiero meridiano si inizia a sentire dentro dove inizia il mare, quando la riva-confine è luogo dove i diversi si toccano e, a maggior ragione, sembra suggerire Stefano Modeo, la nostalgia è senso e sapore del mare, ferita aperta e coltello:
Nostalgia
Quando è andato via
ha portato con sé un coltello
con cui squarciava la pancia dei pesci.
Lo tiene in tasca, ogni tanto
lo apre e lo chiude di scatto.
Vorrebbe infilzarlo in un tronco,
abbandonarlo nel legno ma
sulla lama c’è ancora il sangue,
il biancore del sale, del mare
e una vena cruda di nostalgia
che gli apre nel palmo una ferita.
(p. 63)
Un Odisseo contemporaneo, dalla pelle nera («Odisseo piange vestito di carbone» Itaca, p. 64), respinto da governi di breve durata, eppure feroci e disumani, deve constatare che «Itaca è divenuta Santa per decreto, / imprigionata nell’inferno dell’usura» (ibidem), ma ha anche la coscienza del fatto che «[…] mi chiedi di mentire / di non approdare a nessuna verità / di conservare ogni dipendenza / dalla tua memoria, dalla tua civiltà» (da Allo specchio, p. 67) – l’altro sé cui tali parole sono rivolte è colui che conserva una memoria sclerotizzata e ferma a vent’anni prima, mentre gli Ulisse/Odisseo che attraversano il Mediterraneo portano dentro di sé altre memorie e altre identità non colonizzate e non assimilate. E l’ansia che spinge Ulisse ad abbandonare una riva dove si è abituato «a non amare a non sentirmi amato» (da Ulisse sulla spiaggia, p. 66) è quella di chi è costretto a lasciare l’Africa per l’Europa, ma anche il Sud per il Settentrione, il tempo lento per il tempo veloce del turbocapitalismo (per dirla ancora con Franco Cassano).
I poeti leggono i poeti, Modeo legge Carrieri:
Leggendo Carrieri
Trova il tuo bandolo, batticuore
dille la tua offesa non tacere.
Contro questo silenzio che dura
scaglia la tua ira, fingi di essere
deciso nel farla finita. Infine
volgi lo sguardo altrove, severo.
Non aver paura di restare solo
rimastica parole velenose, cerca
la tua vendetta. O forse fermati,
fermati finché sei in tempo.
Non arrivare alla fine del verso.
Frena la fuga che ti tiene desto
perdona tutti, tranne te stesso.
(p. 74)
Accade perché pensiero meridiano e restanza sono posture del pensiero, del sentire e dell’immaginare che si trasmettono di generazione in generazione e la “lei” del penultimo testo potrebbe essere la nonna o la madre della quale chi si eprime in prima persona nel testo dice «ho seguito la sua piccola zappa, / il suono netto delle potature / l’intimo accordo da conservare» (Nel giardino, p. 75) imparando la cura del giardino, vale a dire della vita e della memoria.
Molto significativamente Partire da qui si chiude in movimento con un vagone in moto non si sa se per un viaggio di andata, di ritorno o pendolare, «Ma a qualcuno è sfuggito sulle labbra come / le punte degli scogli segnino un confine» (Dal vagone, p. 76), confine tra un prima e un dopo, tra un essere stati e un dover costruire un nuovo esistere, soglia dentro la storia individuale e collettiva, frontiera (altro titolo, tra l’altro, di uno dei più apprezzati libri di Leogrande) che tanto nel pensiero meridiano quanto nella restanza connota una situazione-limite che mette in discussione e costringe a ripensare origini e identità, costruzioni culturali e narrazioni di sé e della comunità di appartenenza.
[Immagine: Debra Achen, Shoring Up, particolare].