di Luigi Fasciana

 

Se durante la primavera del 2020 qualcuno mi avesse detto – mentre ero tutto preso dall’eccezionalità di un’anatra che attraversava l’asfalto silenzioso sotto un balconcino ai margini di Milano – che Stefano Dal Bianco e il suo cane Tito quotidianamente attraversavano campi, fiumi e boschi tra le colline toscane – ebbene avrei certamente provato invidia. Se questo qualcuno però avesse aggiunto – quando erano già numerosissimi i versi che fioccavano sulla pandemia (frettolosi ma estremamente utili per comprendere tutto ciò che la poesia non dovrebbe fare – e qui qualcuno forse ricorderà la splendida masterclass di Mariangela Gualtieri Nove marzo duemilaventi), ebbene se mi avessero detto che Dal Bianco aveva cominciato a scrivere le poesie che di lì a qualche anno avrebbero dato forma a Paradiso (Garzanti, 2024) – a quel punto avrei provato un certo sollievo.

 

Se facciamo eccezione per la breve sezione iniziale, Paradiso non fonda la sua forza poetica sullo sguardo frontale e orizzontale tra animale e uomo, che pur ha generato tante meraviglie in letteratura. La sezione che dà il titolo al libro, e che sostanzialmente coincide con esso, si sviluppa a partire da una doppia flânerie. Attraverso lo sguardo poetico di Stefano (d’ora in poi daremo questo nome a chi dice “io” in Paradiso), seguiamo le peripezie di una doppia passeggiata umana e animale, le cui ricerche spesso proseguono in parallelo, si perdono, si intrecciano. L’analogia è imperfetta: impossibile ritrovare la metropoli tanto cara al flâneur moderno (il libro è rigidamente extra-urbano), manca ovviamente la folla. È altrettanto evidente tuttavia che siamo di fronte a una concezione della passeggiata come pratica poetica; non solo: rientrano nell’analogia la lentezza del camminare, il vagare (e l’inevitabile perdersi), l’attenzione o sorpresa per ogni cosa.

 

Eppure Tito non è un semplice compagno di viaggio. Risparmiato dal guinzaglio, anzi spesso dispotico (se c’è un guinzaglio è quello dell’attenzione e dell’apprensione nei suoi confronti che vincola Stefano), Tito ha un ruolo ben più importante per il pensiero poetico di Paradiso.

Come sappiamo, Heidegger sosteneva che l’animale, a differenza dell’uomo, è «povero di mondo». Come dimostrerebbe l’ape che continua a succhiare da una coppetta di miele malgrado le sia stato reciso l’addome[1], l’animale non avrebbe alcuna possibilità di riferirsi e relazionarsi a qualcosa, ma sarebbe interamente assorbito dall’altro[2]. In questo senso all’animale sarebbe preclusa ogni rivelazione del mondo, essendo il mondo, in virtù di questo stordimento o assorbimento assoluto, inaccessibile o opaco. L’uomo, attraverso l’esperienza della noia, disvelamento di ogni poter-essere, riuscirebbe a disattivare tale meccanismo animale, passando così dalla povertà di mondo al mondo[3].

 

Ebbene mi pare che il nuovo libro di Stefano Dal Bianco prenda il via da un netto capovolgimento di questa tradizione. Scrive Valéry nei suoi Cahiers:

è chiaro che l’animale non fa mai altro da ciò che fa, mentre è raro che l’uomo faccia esclusivamente ciò che sta facendo. Egli è dunque sempre in qualche modo staccato da sé (…) lo sguardo profondamente stupito rivoltoci dall’animale (…) sembra dirci che ci facciamo un mondo convenzionale e che siamo interamente governati da ciò che non esiste.[4]

 

Proprio per questa «inquieta impossibilità di essere ciò che si è»[5], come scrive Fernando Marchiori, autore molto caro a Dal Bianco, è proprio l’uomo a scoprirsi in “esilio”, l’animale è «nel mondo, aperto al mondo, mentre l’uomo ne è chiuso fuori»[6].

Ora: il paradiso, in questo libro, è proprio la sospensione di questo esilio.

 

[…]
e noi, ma soprattutto io
che domino dall’alto,
ci sentiamo dèi
o torri di controllo
con il controllo del mondo,
e tutto è fermo eppure si muove
e l’ombra è luce e la luce è ombra
e camminiamo nel silenzio
e Tito ha il naso rasoterra
tutto il tempo perché tutto
profuma di qualcosa
e io ho il naso per aria
perché il profumo è altrove,
perché niente mi basta sulla terra. (p.32)

 

Lo sguardo umano, come una «torre di controllo», abbraccia tutto dall’alto e proprio in virtù di tale (apparente) dominio, vede tutto «da fuori»[7]. In questo senso l’osservazione del comportamento di Tito fa del cane una sorta di guida, o meglio, un’anti-guida, per noi che «aspirando alle più alte sfere / rischiamo di dimenticare tutto il resto» (p. 134). Perché se è Tito la chiave per accedere a questo paradiso («ci vorrebbe un cane», p. 115), l’animale è anche il più puntuale nel dimostrare quanto questo paradiso, per l’uomo, sia precluso. L’ «acero di Arquà»

 

[…]
Non tenta di salvarsi
né si impone, fa
quello che deve fare
non ha un significato, è solo
solo nel suo chiuso riso,
paradiso. (p. 23)

 

Come ha notato subito Umberto Fiori (qui), titolo e copertina suggeriscono un idillio ingannevole. In linea col suo significato etimologico, il paradiso è un luogo chiuso, recintato. All’uomo, non certo all’animale. E se questo riso non può non rievocare l’accendersi progressivo del sorriso di Beatrice attraverso le sfere celesti, è altrettanto vero che questo non assomiglia affatto al luogo dove il «gioir s’insempra»: come dimostrano le lucciole scorte tra l’erba alta dei colli senesi, qui è l’intermittenza a regnare. Vuoi perché la condizione di partenza è appunto l’esclusione (la «periferia pensata» del mondo umano, p. 72) o perché la frequentazione dell’altrove «assorda», vuoi perché Stefano per «incertezza» cercando un «rifugio» sull’asfalto (p. 81) o per vigliaccheria (tema centrale in Dal Bianco sin da Planaval), si dà alla fuga:

 

e io senza la forza di fare resistenza

senza il coraggio di farmi portare via
mi alzai in piedi e me ne andai
verso un posto sicuro
vigliaccamente definendo noia l’esperienza. (p. 126)

 

Ma cos’è questo paradiso? Certamente è qualcosa che riguarda i sensi. Similmente a quella dell’angelo custode, Vittorio Sereni, la poesia di Dal Bianco è poesia dei sensi, poesia incarnata. Tra le pagine di Paradiso assistiamo a una dilatazione della percezione. L’olfatto è forse il senso più coinvolto e pervasivo (e, non a caso, è il senso di Tito). Così come è forte e decisiva la percezione del vento. Ma entrare nel bosco, sostare nella natura comporta una decisiva dilatazione dello sguardo. L’osservazione meticolosa di Stefano ci restituisce le più minute variazioni di colore, da qui la vasta gamma: «grigioazzurro», «verdegrigio», «azzurro quasi ancora chiaro», ecc. Non solo. In questo tempo anch’esso dilatato, l’«occhio si apre a pacatezze nuove» (p. 106). E, più avanti, in uno zoom estremo dell’attenzione, «ogni foglia che cade costruisce una sua storia». Ma la funzione dello sguardo non è quella di definire, di analizzare. «Nube», «foschia», «velo», «nebbia», «fumo» sono tra le parole che più ricorrono in questo diario poetico. È l’indistinto.

 

Quanto più mi allontano dal paese
più, se ricordo, il tempo si dilata
come seguendo la legge del bosco
che gradualmente si profuma
a mano a mano che l’oscuro prende piede,
mi cattura, mi illude, mi promette
di tenermi per sempre con sé
nell’indistinto.
Ma non è l’indistinto a corteggiarmi, qui,
è il suo profumo, appunto,
che respirando entra
e intacca ogni memoria,
la sfalda la ricostruisce
la restituisce a sé mentre svanisce. (p. 30)

 

L’ attenzione a tutte le cose, che in questi decenni Dal Bianco ha chiamato “distrazione”, esorbita e somiglia ancora di più a un perdersi (e ritrovarsi), uno sfaldamento, un vedere senza visione. Il risveglio dell’intelligenza, un intontimento:

 

Stare a vedere è facoltà di tutti
ma ricavarne la chiarezza di un messaggio è privilegio
di chi si lasciasse intontire dal sole
scardinare dal vento e ritornasse
su di sé ma senza più visione
ora che tutto è perduto nel bianco lontano
e sale, sale da dentro la voce del mondo.

 

Se un modo c’è per accedere a questo paradiso, è attraverso un lasciarsi assorbire e stordire – è lo stordimento animale di Heidegger. In bilico tra attenzione e opacità (ancora: proprio la stessa condizione dell’animale povero di mondo), illuminato e obnubilato da una percezione dilatata, Stefano ci riporta l’esperienza di «quest’infinito niente» (p. 87). La «pace in fondo al bosco» (p. 72), la sensazione di essere attraversato da pensieri o memorie che non gli appartengono.

 

Tante di queste inapparenti cose scritte
arrivano da sé, dettate a un cellulare
dagli dèi della natura silenziosa
che stanno oltre le siepi
e talvolta camminano con me
prendendo il sopravvento
quando più sono distratto. (p. 89)

 

Questa la via per sovrastare «ogni mania del mondo» (p. 111) ed eludere «questo schifoso guscio umano che ti assilla» (p. 115). Sta proprio qui l’umanità paradossale di Paradiso. Sarà contento chi ha mal sopportato l’abuso banalizzante che si è fatto di questo termine negli ultimi anni. Essere umani significa «affrancarsi dall’umano», sostare dentro la voce profonda della natura: «perché non c’è niente di umano nell’umanità» (p. 85).

Se nel famoso platano di Ritorno a planaval (Mondadori, 2001) il problema era riportare il platano senza averlo davanti, senza perderlo. Qui, anche grazie al registratore, strumento a cui Dal Bianco ha affidato i versi di Paradiso per poi metterli per iscritto (dobbiamo crederci?) con poche correzioni, qui la questione è diversa. Nel Platano il miraggio è la presa diretta, in Paradiso – risolta la questione con l’espediente tecnico – il miraggio è «farsi albero», “frassino”, questa volta, e «incontrarlo davvero» (p. 87). Da qui una voce che tende all’osmosi, alla coincidenza tra racconto e raccontato: il resoconto è un «mucchio di cenere» di fronte al cuore rosso di arbusti in fiamme; seguendo con lo sguardo il corso intermittente delle lucciole, neanche «il testimone più attendibile / brillerà per presenza costante» (p. 94). La sofisticata arte metrico-ritmica del poeta, nel frattempo, si approfondisce: tanto che, forse con un po’ di ingenuità, al posto di constatare un’ulteriore avanzata della colloquialità nel verso, si potrebbe dire che queste poesie siano il frutto del freno imposto, nella dizione di un uomo che parla al registratore, alla tradizione poetica; e se troviamo una rima baciata di troppo o un endecasillabo in più, sono superstiti quasi per sfinimento, per resa dell’autore.

 

Guido Mazzoni giustamente ha detto qui che il libro di Dal Bianco corre diversi rischi. Ci vuole coraggio ad affrontare una natura così appiattita dalla superficialità macchiettistica di una certa cultura New Age. E d’altronde si ha proprio questa sensazione a leggere Paradiso. È infatti un libro che ci ricorda che a non correre rischi, in poesia, si corre il rischio di non scriverne, di poesie.

 

Note

 

[1] M. Heidegger, I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine, Il Melangolo, Genova, 1999, pp. 352-53. Cfr. G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 56.

[2] Heidegger, pp. 360-361.

[3] Agamben, pp. 70-71.

[4] P. Valéry, Cahiers II, Gallimard, Parigi, 1974, pp. 1376-7. La citazione è tratta da F. Marchiori, Negli occhi delle bestie. Visioni e movenze animali nel teatro della scrittura, Carocci, Roma, 2010, p. 92.

[5] Ibidem

[6] Marchiori, pp. 93; 95.

[7] Ivi, p. 95.

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