di Francesco Striano

 

Non capita spesso, perlomeno in saggistica, di imbattersi in libri autenticamente “sperimentali”. Spesso, se lo sono nella forma, risultano poi noiosamente convenzionali nel contenuto. Viceversa, quand’anche provino a far collidere i concetti in maniera non convenzionale, rimangono limitati dalla convenzionalità del caro, vecchio, comodo medium del libro.

Il libro di Francesco Monico, invece, è una gradita sorpresa innanzitutto sotto questo punto di vista. È multimediale: potete iniziare l’esperienza di “lettura” scansionando un QR code con il vostro smartphone per guardare una lezione di 40 minuti di Michelangelo Pistoletto. È pluriautoriale: oltre al già citato Pistoletto – e, ovviamente, a Monico – trovate nel volume, con loro testi introduttivi, Francesca Lancini e Derrick de Kerckhove. È proteiforme, rizomatico, se volete programmaticamente e coerentemente “incoerente” nei contenuti.

 

Anche lo stile rappresenta un po’ un unicum nel panorama filosofico del nostro paese: una sorta di Theory – quella che Barbara Carnevali, nel 2016, su Le parole e le cose, definiva spregiativamente un “bricolage di seconda mano” di idee e formule “estratte da un canone di autori disparati ma accumunabili in una generica postura radicale” – senza rinunciare a un rigore e a un’attenzione alle fonti più tipicamente “italiani”. Non “Italian Theory”, però, attenzione! Pensate piuttosto al Western all’italiana: con budget limitato e meno risonanza mediatica, un genere tipicamente americano viene replicato secondo i canoni del “saper fare” italiano e finisce per acquistare una qualità e un’originalità forse insperate.

Insomma, non ho dubbi sul fatto che Monico si sia divertito a sperimentare nello scrivere un testo che pure nasce da un’esigenza politica urgente: quella di ripensare “narrative per il cambiamento” che già nel 2021 l’Agenzia Europea dell’Ambiente segnalava in un proprio rapporto. Su impulso di questa esigenza di “aggiornamento” del pensiero, l’autore di Fragile torna con Invulnerabile che, dal titolo, potrebbe sembrarne l’antitesi, ma è piuttosto uno spin-off.

 

Ad essere “invulnerabile”, almeno in apparenza, è l’intreccio che plasma il mondo in cui viviamo: l’infallibilità della scienza gestita dall’élite dei competenti, la potenza della tecnica, l’economia come forza trainante – economia capitalista, ovviamente, perché “There Is No Alternative” – il pensiero calcolante e razionale che sembra aver definitivamente soppiantato l’immaginario magico.

Tutto questo è, in fondo, ciò che per decadi abbiamo celebrato come progresso. Ma è anche ciò che ha portato al declino della biodiversità, all’aumento della temperatura del pianeta, all’inquinamento da plastiche, alla deforestazione, ai genocidi programmati ed eseguiti con ritmi e precisione industriali, alla produzione, da parte dell’essere umano, dei mezzi che permetteranno la sua stessa distruzione.

 

Queste istantanee di antropocene potrebbero convincerci che la rovina dell’umanità è arrivata dall’imporsi del “rigore razionale” occidentale a scapito dell’“immaginario magico”. Ma anche, direbbe Byung-Chul Han, a scapito dell’agire comunicativo che, in virtù della frammentazione digitale e postmoderna, viene meno di fronte alla crisi delle grandi narrazioni. Ma è davvero così?

Monico – che, non a caso, proprio di archetipi dell’immaginario si occupa da anni nelle sue ricerche – ci guida alla scoperta della dimensione retorica (e perciò anche narrativa) della presunta oggettività invulnerabile e priva di alternative di quella razionalità moderna che si traduce nell’ipermodernità accelerata che stiamo vivendo. Il Capitalocene/Antropocene/Chtulucene vive di storie. Storie che abbiamo immaginato, in cui ci siamo immersi e di cui ci siamo convinti, a un certo punto, che fossero vere. O meglio: che fossero l’unica cosa vera.

 

Ma l’intuizione fondamentale del libro è che se sono le narrazioni a plasmare la storia umana e se la storia in cui siamo immersi poteva anche essere immaginata e raccontata in un altro modo, allora è ancora possibile smettere di raccontarci il finale che si offre come preconfezionato e iniziare a immaginare un racconto nuovo.

Certo, messa così suona decisamente più ottimista dell’invito di Monico a percorrere fino in fondo la via del nichilismo. Ma sarebbe ingenuo pensare al nichilismo come a una distruzione, anziché a una nietzscheana “trasvalutazione di tutti i valori”. Quello di Monico è un nichilismo “inteso come processo di trasformazione che afferma valori, che produce una riflessione di trasformazione, quindi come nuova narrativa”.

 

Il viaggio narrato in questo libro comincia con una ricognizione del territorio da esplorare: l’autore sorvola e cartografa gli immaginari moderni e ipermoderni, annota le strutture e le categorizzazioni del mondo che osserva e predispone la propria cassetta degli attrezzi, fatta di strumenti derivati dalla retorica, dalla filosofia, dall’antropologia, dalla Theory Fiction. Una pluralità di strumenti concettuali per comprendere gli immaginari, ma anche per tornare a immaginare in prima persona “in un’epoca in cui la terra trema e le fondazioni vacillano”. Questa ricognizione si conclude con la scoperta del perturbante. Non tutto ciò che si incista in quest’era geologica che chiamiamo Antropocene, infatti, è segnato sulle mappe convenzionali del “Mondo razionale”: esistono ancora “scenari inesplorati, misteriosi, densi di fascinazione ma anche, inevitabilmente, di spaesamento, di inquietudine e di orrore”.

 

Nei capitoli che seguono, Monico svolge un’analisi che potrebbe ricadere perfettamente in quella che Friedrich Kittler chiamava “estetica del terrore”. Secondo il teorico dei media tedesco, l’indagine condotta su “vecchi” media – nel momento in cui stanno per essere soppiantati – è preziosissima, poiché in grado di registrare il terrore di certe categorie di fruitori o di progettisti e costruttori nel momento in cui “nuovi” media stanno emergendo: pensiamo agli articoli (scritti da umani) che si preoccupano per la de-umanizzazione del processo di scrittura a causa di ChatGPT. Ecco, quella di Monico è un’estetica del terrore applicata agli immaginari e condotta in una serie di capitoli che – sempre nella programmatica coerente incoerenza – potrebbero costituire saggi autonomi, ma che non si comprenderebbero appieno se non alla luce della ricognizione svolta nel primo.

 

Il secondo capitolo si occupa di registrare il terrore espresso dagli “Scienziati consapevoli” firmatari degli “Avvertimenti all’umanità” del 1992 e del 2017. A partire da questi documenti, il testo procede con una serrata decostruzione dell’immaginario del progresso e dei progressisti che si conclude con l’invocazione di una “nuova reazione”. La provocazione di contrapporre all’immaginario “progressista” un immaginario “reazionario” appare meno indigeribile se si pensa che proprio l’ideologia “progressista” si basa su categorie vecchie le cui contraddizioni stanno esplodendo e, per questo, è necessario “reagire” ad esse, nel senso di applicare una resistenza che attivi un immaginario dalla doppia direzione: la ricomprensione e riappropriazione dei vecchi immaginari con lo scopo di tornare a “pensare al presente” per narrare un futuro diverso.

Alla decostruzione dell’immaginario del progresso scientifico fa eco, nel terzo capitolo, quella che, a partire dalla registrazione del terrore in letteratura economica, viene operata ai danni dell’ideologia della globalizzazione del capitale, cui si accompagnano la tensione politica – anche di stampo progressista – al globalismo e una tecnologia sempre più in grado di connettere e omologare. Anche qui si tratta di scoprire la potenza dell’immaginario dominante che riesce a spacciarsi per naturale evoluzione.

 

Anche in quest’ultimo caso, di fatto, l’alternativa proposta da Monico è quella di un “pensiero al presente” che viene individuato, in buona sostanza, in quello di un certo numero di artisti, quelli che meglio captano, forse, i segnali del terrore. Per questo il quarto capitolo di Invulnerabile è dedicato all’“arte tattica”. In questo breve saggio narrativo le storie delle performance di etoy.org e degli Yes Men (con www.gatt.org) servono a mettere a nudo come alla rivoluzione digitale non sia seguita alcuna rivoluzione dei rapporti di produzione, come invece sperato da molti “hacktivisti” della prima ora. A questa tesi di Monico si potrebbe opporre quella della McKenzie Wark de Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire, secondo cui viviamo nell’era in cui non è più la classe capitalista (proprietaria di mezzi di produzione che estrae il massimo del profitto dalla scarsità delle risorse), ma la classe vettoriale (proprietaria dei vettori dell’informazione che servono a rendere scarsa un’informazione sovrabbondante, così da estrarne valore) a detenere il potere economico e politico. Ma quello che interessa qui a Monico è sottolineare come l’immaginario (accumulativo ed estrattivo) rimanga essenzialmente lo stesso.

 

Il quinto capitolo si dedica ad approfondire l’analisi della ragione calcolante attraverso lo studio delle figure paradigmatiche dei manager e dei burocrati e tracciando una provocatoria e intrigante linea di continuità tra organizzazione aziendalistica capitalista e la visione del mondo nazista attraverso alcuni punti comuni quali delega della responsabilità, dedizione etica verso una “mission”, mito dell’efficienza, ecc. Una linea che condurrebbe al governo della tecnica – e a governi tecnici – in cui ai dilemmi etici si sostituiscono problemi da risolvere.

L’ultimo capitolo riprende molte delle suggestioni di questa estetica del terrore e fa esplodere le diverse contraddizioni dell’ipermodernità (in particolare nell’era “after coronavirus”). Da queste esplosioni si genera il lampo che rende più che mai evidente come l’oggettività del rigore occidentale sia stata una lunga allucinazione collettiva e come sia più che mai necessario rivendicare la “portata dell’interiorità dell’Immaginario magico”.

 

Di fronte a queste contraddizioni, a questo esaurirsi del futuro basato sulle premesse del passato e all’impossibilità di rivolgersi, appunto, allo stesso passato che ha prodotto questo presente, Monico si rivolge all’immaginario cibernetico (ma anche greco) della retroazione e della causalità circolare: non più pensare a soluzioni fondate sull’idea di un tempo progressivo, ma piuttosto “appoggiarsi a strategie”, e cioè “ottimizzare il potenziale in una forza che retroagisce su se stessa”.

Gramsci diceva che nel chiaroscuro di un vecchio mondo che sta morendo mentre il nuovo tarda a comparire nascono i mostri. L’unica alterativa alla mostruosità, che questo libro prova ad indicarci, sta nella fiducia in una nuova fase “adolescenziale” in cui rigore razionale e immaginario magico non si contrappongano, ma cerchino di innescarsi a vicenda in un circolo di azioni e retroazioni, riscoprendo quella co-originarietà simboleggiata dall’arco spirituale di Michelangelo Pistoletto, quell’apertura all’ignoto iniziata dall’“arte” (la prima impronta di mano umana sulla parete di una caverna) e solo successivamente differenziatasi in “scienza” e “religione”.

 

Francesco Monico, Invulnerabile. L’immaginario magico e il rigore razionale, Nepi: Heraion

 

 

[Immagine: Michelangelo Pistoletto, Metamorfosi 1976 – 2013].

 

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