di Paolo Costa

Der bestirnte Himmel, das moralische Gesetz

 

Se c’è una cosa che tutti ricordano di un autore difficile, e quindi facile da dimenticare, come Kant, è che da qualche parte nella sua opera il cielo stellato sopra di me viene accostato alla legge morale dentro di me perché…

Già, perché mai Kant, concludendo la Critica della ragion pratica, scelse di mettere sullo stesso piano la volta celeste e la voce della coscienza (che nel suo caso si esprime sempre con massime che vietano di fare un’eccezione per sé stessi)?

La ragione, probabilmente, si nasconde da qualche parte nell’etimologia dei verbi “considerare” e “desiderare”.

Quando contempliamo il cielo stellato ci rendiamo infatti facilmente conto che, pur desiderandolo, non potremmo mai abbracciarlo con un unico colpo d’occhio. Il firmamento ci sfugge sistematicamente, oltrepassa ogni misura umana, ci fa sentire piccoli aumentando proporzionalmente il nostro senso del valore.

Ma più o meno lo stesso capita quando guardiamo dentro di noi e qualcosa di insondabile ci ricorda che siamo sempre liberi di non fare il male e, anche se vorremmo con tutto il cuore che le cose non stessero così (“ti giuro, era più forte di me…”), sappiamo che in qualsiasi momento potremmo essere chiamati a rispondere delle nostre scelleratezze.

Kant vedeva in questa fallita con-sider-azione e nel de-sider-io sconfinato che ne deriva un cortocircuito sublime, che allo stesso tempo affascina e sgomenta. Uno slancio di cura e attenzione che, mentre naufraga, esalta chi lo compie al di là di ogni ragionevole cautela.

Considerazione e desiderio sono due snodi cruciali nella risposta romantica al razionalismo moderno a cui Kant ha involontariamente spianato la strada negli ultimi anni della sua vita. Tuttavia, più che sulla nostalgia della totalità, è sulla tetrade esperienza, connessione, indisponibilità e speranza che vorrei fare leva nel prosieguo del mio discorso per tornare a riflettere su questa fertile e bistrattata eredità intellettuale europea basandomi su quattro libri pubblicati di recente in quattro angoli distanti del nostro pianeta.

 

Sublimi analogie

 

Kant è sinceramente spiazzato dallo struggimento che avverte dentro di sé mentre contempla a bocca aperta la vastità sconfinata del firmamento o reagisce con soggezione di fronte all’evidenza inspiegabile degli obblighi morali. Almeno così me lo restituisce la memoria. D’altra parte, ne ha ben donde. Che razza di anelito è mai questo? Da dove salta fuori? E se ne può cavare qualcosa di utile o sensato?

Provo a chiarire il punto, sperando di non perdere il filo del ragionamento.

Per cominciare, non è affatto chiaro se un impulso suscitato da un atto di focalizzazione mancato possa essere legittimamente interpretato come un desiderio autentico (nel senso di un moto “proprio”, spontaneo, non posticcio). Considero il cielo stellato, la sua figura mi sfugge sistematicamente, e in me nasce per reazione un desiderio di connessione, di entrare in una relazione significativa con esso. Ho forse perso il lume della ragione? Su quali basi di realtà può poggiare un desiderio del genere? Non sarà mica un fenomeno psichico compulsivo, tipo un’ossessione incipiente?

Certo, potremmo sempre cavarcela con un ossimoro. In fondo, quando Kant rendeva pubblica la sua passione per il firmamento e la legge morale, Edmund Burke aveva già rispolverato e revisionato un concetto che pareva cogliere perfettamente la peculiarità dello stato d’animo per metà piacevole e per metà disturbante descritto da Kant: il “sublime”. Ma perché mai l’ambivalenza emotiva tipica degli incontri con l’esorbitante dovrebbe avere un effetto elettrizzante, se non addirittura nobilitante, sul desiderio umano? E su quale tipo di desiderio?

Sublime è la vastità e la potenza sovrastante della Natura. Sublime è la nobiltà o santità morale. Sublime è anche, se non soprattutto, la forza interiore che ci permette di vivere come desiderabile una simile dismisura. È all’opera, qui, una catena di analogie che dovrebbe rendere in qualche modo giustizia alla paradossale relazione tra finito e infinito in cui si incaglia la ragione quando cerca di venire a capo di uno degli enigmi chiave della condizione umana.

Il sublime, l’eccelso, si collocano appena un passo sotto la soglia tra finito e infinito. Non stupisce, perciò, che in un luogo così vertiginoso possa nascere l’esigenza di gettare ponti, stabilire connessioni, ancorare i pensieri più astratti alle intuizioni. Ma l’analogia, come nota giustamente Dalia Nassar nel capitolo introduttivo del suo libro Romantic Empiricism, è fondamentale non solo in questo ambito.[1] A ben vedere, l’intera esperienza umana poggia su una sequenza ben orchestrata di analogie. Per produrre un effetto di tridimensionalità, ad esempio, l’occhio deve in un certo senso “toccare” ciò che osserva, “vederne” la tangibilità. Similmente, un insieme di sensazioni (soffice, bianca, mobile, belante) deve poter produrre un’immagine riconoscibile (“toh, rieccola!”) che, debitamente collaudata, sfocerà infine in un concetto più o meno sofisticato (pecora o Ovis aries).

Anche nei casi in cui il giudizio “determinante” (cioè quello risolutivo, che taglia la testa al toro, tipo: “questo mammifero è un esemplare femmina della famiglia dei Bovidae”) latita, può sempre subentrare il giudizio “riflettente” che, come un riverbero, risale alla fonte di una conoscenza intersoggettivamente validabile mediante approssimazioni crescenti.

L’apparente finalità degli organismi ti provoca sconcerto? Non riesci a venire a capo del “disegno” secondo cui procede ordinatamente la vita di un gregge di pecore?

Magari puoi provare a osservare il fenomeno da un altro punto di vista, come se si trattasse di un congegno progettato da una mente raffinatissima (“come ce la procureremmo la lana per coprirci, se no?”). Tuttavia, a un esame più approfondito, anziché a un dispositivo gli esseri viventi possono far pensare, piuttosto, a un’opera d’arte. In effetti, diversamente dai meccanismi, lo stupefacente finalismo degli organismi non sembra provenire da un’intenzione esterna. Il tutto e le parti paiono cioè rispondere sinfonicamente a una forma, un pattern, una legalità interna. Non dovrebbe sorprenderci, allora, che in qualche caso lo studio della natura possa richiedere lo stesso tipo di attenzione che reclamano le opere d’arte ben riuscite. E in effetti c’è qualcosa di poetico nella frase di Kant che tutti ricordano senza sapere bene perché.

 

Empirismo romantico

 

Stando così le cose, il desiderio scaturito da una considerazione mancata può apparire come un fenomeno tutto sommato familiare. In fondo, cos’è che ci spinge a rileggere i versi di una poesia o ad ascoltare più attentamente il movimento di una sonata se non un banale gesto di riguardo, non dissimile dallo strizzare gli occhi o aguzzare le orecchie per avvicinarci a qualcosa che per un attimo ci ha condotto sulla soglia tra familiare e ignoto, io e non io?

Uno degli allievi più infedeli di Kant, Johann Gottfried Herder, la vedeva proprio così e non si può escludere che il suo maestro abbia dato retta alle sue critiche più di quanto gli scritti del genio di Königsberg non lascerebbero supporre. Per Herder, e dopo di lui per Goethe e Alexander von Humboldt, lo studio della natura non può mai essere una faccenda lineare. I fenomeni naturali sfuggono alla presa dei concetti, dei sillogismi, dei numeri, perché questi sono strumenti d’ipostatizzazione che andranno forse bene per la natura naturata, ma di certo non si addicono alla natura naturans. Quest’ultima – che ritroviamo ovunque, tanto dentro quanto fuori di noi – pretende di essere investigata non linearmente, ma seguendo un andamento a spirale che prevede l’osservazione accurata, la descrizione, l’elucidazione tramite analogie e infine l’articolazione mediante qualsiasi arnese ermeneutico utile allo scopo.

L’obiettivo finale, a conti fatti, è mantenersi in prossimità del fenomeno, non creando mai una distanza incolmabile tra l’osservatore e l’osservato. L’evento fisico – tanto più se ha a che fare con la vita – va anzitutto riconosciuto per quello che è, in un modo rispettoso del suo specifico modo d’essere. Dapprima va contemplato da più angolature, operando una serie di variazioni immaginative: dev’essere cioè visto comequalcosa di familiare. Solo se questo sforzo va a buon fine, potrà essere poi riconosciuto semplicemente per ciò che è – secondo una visione più attenta, considerante.

In Herder questa varietà di consapevolezza, che è anche una forma di connessione con ciò che alla coscienza si dischiude, è indicata con un nome tedesco difficile da tradurre in italiano. È la Besonnenheit: una tipologia eccentrica di considerazione, un modo di essere attenti senza uno scopo predefinito, che reca in sé un impulso potenzialmente illimitato all’articolazione e all’espressione. In breve, quando viene presa in considerazione una cosa per la quale non è previsto un uso immediato né si dispone di un concetto prêt-à-porter, resta sempre la possibilità di immergervisi con l’intento non utilitaristico di riconoscerla per quella che è, di “vederla nella sua pienezza”.[2] Viene compiuto così un esercizio ricorsivo di “vedere-come” che assomiglia sorprendentemente allo sforzo di focalizzazione che viene richiesto, ad esempio, a chi si propone di scrivere una poesia memorabile.

Sorvolando sulla suggestiva assonanza con il nome di un astro (die Sonne – il sole) presente anche in questo vocabolo tedesco, vorrei far notare quanto sia essenziale la convergenza di considerazione e desiderio nella tipologia di consapevolezza che Herder pone al vertice della sua indagine sull’origine del linguaggio. L’oggetto dell’attenzione opera infatti come il disinibitore di un desiderio che, nondimeno, trova il suo appagamento non in un’ipostatizzazione che consente un’assimilazione, ma nell’indeterminato lasciar essere, nell’accostarsi rispettoso, e dunque nell’effetto trasformativo che la presenza del fenomeno può avere su chi lo contempla – foss’anche solo per un banale effetto riconoscitivo (“A rose is a rose is a rose”). La con-siderazione incorpora dunque un desiderio che prescinde dal possesso e che, per evocare Walt Whitman, “giudica come il sole / che piove attorno a un oggetto inerte”.[3] Qui, evidentemente, il “con” implica non tanto il prendere, l’afferrare, quanto l’intrecciare, il vincolo spontaneo, la prossimità – in una parola, il connettere.

 

Connessioni cosmiche

 

Riassumendo, il transito tra valore senza misura e firmamento, tra cielo stellato e legge morale è reso possibile in primis da una modalità di attenzione esplorativa che è anche un segno di apprezzamento e, da ultimo, la fonte di una conversione dello sguardo. In gioco sembra esserci una relazione speciale col mondo. Ma che cosa se ne fanno esattamente gli individui moderni di un desiderio di connessione allo stesso tempo ordinario e stravagante che, almeno secondo Herder, racchiude il succo della condizione umana?

Nel suo ultimo audace libro, Charles Taylor, filosofo canadese ultranovantenne, ha provato a ritagliare un posto nel mondo che i moderni abitano da più di due secoli per questo tipo di esperienza non distaccata del reale.[4] La sua idea, in sintesi, è che anche dopo la Rivoluzione scientifica la conoscenza della natura sia assimilabile a un dialogo tra persone che non parlano la stessa lingua. Dobbiamo immaginarci perciò la natura – almeno la natura naturans – come un agente sui generis – un attante – dotato di una voce propria.

Già questo fatto richiede uno sforzo di attenzione supplementare. Il non-io – l’altro-che-umano – ci parla. Questo potenziale interlocutore non parla però la nostra lingua. Ha nondimeno un volto familiare e sembra avere cose importanti da dirci. Vale perciò la pena di mettersi alla caccia di un terreno comune dove possa avvenire proficuamente l’incontro. Taylor descrive questo luogo come un “interspazio”, che è evidentemente anche un “intertempo”. In tale interspaziotempo una pianta – immaginiamoci l’Alberòn di un magnifico racconto autobiografico di Matteo Melchiorre – può parlarci e parlarci a lungo.[5] Certo, non immediatamente. Non in maniera trasparente. Piuttosto come un poema di cui assorbiamo qualcosa che attiva il nostro desiderio e che moltiplica la nostra capacità di attenzione.[6]

L’Alberòn comunica dunque in una lingua che ci sembra di capire anche se non si esprime con un lessico e una metrica sensati secondo i nostri canoni linguistici. Tutto ciò è inquietante. Tanto più se abbiamo sposato un modo d’essere persona di cui andiamo fieri proprio perché ci permette di non farci facilmente abbindolare da vaghe suggestioni che magari ci arrivano pure da un passato da cui credevamo di aver preso definitivamente congedo. E, in effetti, basta fare un passo indietro – Taylor non a caso chiama il fenomeno culturale di massa noto come “disincanto” epistemic retreat – perché la voce smetta di risuonare nella nostra mente e il desiderio assuma una consistenza diversa: vaga, nebulosa, persino sinistra. La natura, in fondo, è tutto e nulla. E anche il nostro desiderio di connessione, se soppesato con distacco, appare patetico.

Siccome il desiderio è forte, alla fine i suoi canali espressivi li troverà. La considerazione in cui sfocia lascia però il tempo che trova. Lo spazio interstiziale a cui per un attimo ci era sembrato di avere accesso appare ora piuttosto come un telo su cui vengono proiettate figure stravaganti, ombre inquietanti della nostra vita notturna.

“È tutta colpa del romanticismo”, ci viene ripetuto a tambur battente. È solo la domenica della vita. Nulla di cui ci si debba curare più di tanto. Nella vita delle persone oneste e laboriose deve pur esistere uno spazio per le fantasticherie, per l’illusione controllata, per l’immaginazione sfrenata e i suoi campioni, quei patetici sognatori a occhi aperti che, come don Chisciotte o Madame Bovary, ci regalano momenti di riconciliazione effimera con i nostri desideri più imbarazzanti.

Taylor è convinto che non sia tutto qui. Il canto del mondo, in primis la musicalità poetica, resta sullo sfondo anche dopo la ritirata epistemica postromantica, come la traccia di una desiderabilità speciale che, pur sfuggendo a ogni considerazione, finisce per generare strani riti di riconnessione che ricompaiono, generazione dopo generazione, tra le rovine e gli scarti di una vita quotidiana che pare non avere nulla in comune né con la nobiltà della legge morale né con lo splendore del cielo stellato. Sono strani riti poetici il cui scopo è mantenerci in prossimità di qualcosa che preferiamo chiamare “sublime” soltanto perché le parole “vero” o “essenziale” ci mettono a disagio.

 

Indisponibilità e risonanza

 

L’interspazio dischiuso dalla poesia romantica è diventato irriconoscibile anche agli occhi di chi continua oggi a frequentarlo inconsapevolmente. D’altra parte, è uno spazio monopolizzato da ragioni poco spendibili: ragioni per aprire bene gli occhi, drizzare le orecchie, spalancare la bocca, allargare le braccia, assaporare le cose senza disturbarle, semplicemente perché le troviamo degne di considerazione e quindi desiderabili in sé.

In un libro recentemente apparso in traduzione italiana Hartmut Rosa ha descritto questo luogo che non c’è come il regno delle cose che per principio non possiamo controllare: le realtà della vita indisponibili.[7]

Ma se sono indisponibili perché mai dovrebbero interessarci?

Rosa accetta l’obiezione e si corregge. Le chiamiamo “indisponibili” perché sono cose che si sottraggono al nostro controllo, ma in realtà dovremmo definirle “semidisponibili” o, se vogliamo, disponibili poeticamente. L’interspazio, in fondo, non è l’iperuranio – il mondo platonico delle idee. L’indisponibilità che ci sta a cuore ci è cara perché è la fonte di una connessione speciale. Senza indisponibilità, infatti, non potrebbe esistere risonanza e senza risonanza non può esserci speranza in una trasformazione significativa della nostra relazione con la natura. La risonanza, per citare il bel titolo dell’ultimo libro di Italo Testa, autorizza le speranze smisurate di cui abbiamo bisogno oggi: il sì, a dispetto di tutto, che siamo invitati, esortati, a pronunciare per poter passare attraverso l’insostenibile.[8]

Anche il desiderio che sconcertava Kant era il riflesso di un’esperienza vigorosa d’indisponibilità. Se non li ho fraintesi, la verità romantica a cui si rifanno indipendentemente Nassar, Taylor e Rosa ha proprio a che fare con la forza a prima vista inspiegabile del desiderio di riconnettersi con la natura – nello specifico, con la natura naturans – senza renderla disponibile. Nell’età del disenchantment – che è anche, se non soprattutto, l’epoca del disengagement – l’arte, la poesia in particolare, ci offre un esempio concreto di esercizio dell’attenzione, della capacità di contemplare, descrivere, elucidare e articolare i fenomeni naturali lasciandoli essere, che può fungere da modello – da analogia – per ritornare a vedere la natura con lo sguardo rispettoso, responsivo e responsabile che merita. Questa Besonnenheit è precisamente la considerazione fallita da cui nasce il desiderio di chi contempla il firmamento, secondo il celebre topos kantiano. Un esempio, non a caso, di passattività – di “attiva passività”.[9]

 

Il cielo stellato, la legge morale, e gli ailanti

 

In Autorizzare la speranza Italo Testa ha descritto con invidiabile precisione la “metrica della felicità” propria della poesia – almeno di quella poesia che riconosce la sfida del disincanto moderno senza perdere la fiducia nella “possibilità di un nuovo inizio, di un’azione nuova, come ogni atto di parola, per poter essere tale, deve pretendere di essere”.[10] In particolare, cucendo insieme, nello spirito di Herder, sensibilità, immaginazione e concetto, Testa ha ricordato “quanto la poesia abbia a che fare con uno sforzo di mappatura del nostro luogo terreno, di misurazione del qui nella luce dell’altrove”.[11] E in questa luminosità diffusa la sua attenzione si focalizza sul sublime comico degli ailanti – l’“albero del paradiso”, specie pioniera, originaria della Cina, che popola i nostri ambienti urbani con la stessa robusta indifferenza dei ruderi industriali.[12]

Mantenendomi per quanto possibile fedele a questo ritratto della vocazione stereoscopica della poesia, riassumerei così la verità romantica sul desiderio non mimetico che ho posto al centro della mia riflessione, stimolato dall’analogia kantiana tra la dismisura del cielo stellato e la forza eccentrica della coscienza morale.

Siamo creature terrestri: il nostro legame con la terra (e con il nostro corpo, che dell’evoluzione della vita sulla terra è la traccia a noi più prossima) non è estrinseco o contingente. Pur essendo creature finite, abbiamo un senso dell’infinito che chiede di essere soddisfatto. Il primo modo per appagarlo è venire a capo dell’esperienza forte del valore che facciamo nelle nostre vite. Tale esperienza ci dischiude una dimensione di indisponibilità enigmatica e produce una conversione irreversibile del nostro sguardo. Il “cielo”, gli spazi infiniti del cosmo sono la traduzione o manifestazione fisica della nostra aspirazione all’infinito. La “legge morale”, l’assolutezza dei suoi obblighi, ne sono la sua espressione più intima. Ambedue sono sia una risorsa sia una tentazione – in particolare una tentazione di fuga, distrazione, distacco, che occorre combattere. Forse la prima massima che dovremmo seguire nei nostri tentativi di scrutare, immaginare, conoscere l’altro-da-sé è allora il monito a considerarlo come distintamente prossimo e negligentemente amabile. A questo scopo, è fondamentale non perdere il contatto con la radice naturale della nostra aspirazione all’altrove. Ancora oggi ha senso attendersi dalla poesia un contributo significativo a questo sforzo di riconnessione.

 

 

[1] D. Nassar, Romantic Empiricism: Nature, Art, and Ecology from Herder to Humboldt, Oxford University Press, Oxford 2022. Se non avete il tempo e la voglia di leggere il libro per intero, date almeno un’occhiata all’intervista fattale da Sophie Chao, giusto per capire che cosa vi perdete.

[2] Cfr. I. Testa, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Interlinea, Novara 2023, pp. 22, 26, 35.

[3] W. Whitman, Foglie d’erba, trad. it. di E. Giachino, Einaudi, Torino 1993, p. 437, citato in Testa, Autorizzare la speranza, p. 25.

[4] C. Taylor, Cosmic Connections. Poetry in the Age of Disenchantment, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2024.

[5] M. Melchiorre, Storia di alberi e della loro terra, Marsilio, Venezia 2017.

[6] Per farsi un’idea precisa di che cosa sto parlando qui può essere utile leggere con la dovuta calma l’analisi della poesia di Goethe Die Metamorphose der Pflanzen contenuta in Nassar, Romantic Empiricism, cit., pp. 138-145.

[7] H. Rosa, Indisponibilità. All’origine della risonanza, trad. it., Queriniana, Brescia 2024.

[8] Testa, Autorizzare la speranza, cit., p. 10. Sul tipo di deserto (forse, più propriamente, “wilderness”) che saremo costretti ad attraversare (senza bussola) nei prossimi anni cfr. T. Morton, Hell. In Search of a Christian Ecology, Columbia University Press, New York 2024. Sulla speranza come traversata dell’impossibile cfr. anche C. Pelluchon, L’Espérance, ou la traversée de l’impossible, Rivages, Paris 2023.

[9] Cfr. M. Seel, “Attiva passività. Sulla variante estetica della libertà”, in F. Gregoratto – F. Ranchio (a cura di), Contesti del riconoscimento, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 143-162.

[10] Testa, Autorizzare la speranza, cit., p. 10. Riguardo alla fiducia nella possibilità di superare la crisi epistemologica causata dalla “separazione della conoscenza dai sensi, dai sentimenti, dall’immaginazione e dall’azione”, con “una nuova pratica conoscitiva” che “resti ancorata ai fenomeni e all’esperienza vissuta”, cfr. Nassar, Romantic Empiricism, pp. 246-247.

[11] I. Testa, Autorizzare la speranza, cit., p. 36 (corsivo mio).

[12] I. Testa, “L’epoché degli ailanti. Terza natura e democrazia del vivente”, in C. Baghetti – M. Candiloro – J. Carter – P. Chirumbolo – M.L. Mura (a cura di), Ecologia e lavoro. Dialoghi interdisciplinari, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 259-275.

1 thought on “Verità romantica e menzogna romanzesca. Sull’indisponibilità del desiderio

  1. LA POTENZA POETICA DEGLI AILANTI ILLUMINA L’ORIZZONTE DELLA “PREISTORIA” (MARX) E SOLLECITA A SVEGLIARSI DAL “SONNO DOGMATICO” ….
    +
    Una nota a margine dell’articolato e complesso contributo proposto da Italo Testa in ”Ecologia e lavoro. Dialoghi interdisciplinari” (Mimesis 2023, pp. 259-275) *
    +
    RIPRENDENDO IL FILO DALL’INIZIO: *
    +
    “ll cielo stellato, la legge morale, e gli ailanti…
    +
    “[…] Mantenendomi per quanto possibile fedele a questo ritratto della vocazione stereoscopica della poesia, riassumerei così la verità romantica sul desiderio non mimetico che ho posto al centro della mia riflessione, stimolato dall’analogia kantiana tra la dismisura del cielo stellato e la forza eccentrica della coscienza morale.” (Paolo Costa, cit. – sopra);
    +
    *
    “[…] PROPORREI PER MEGLIO “ORIENTARSI NEL PENSIERO” (KANT) E NON PERDERSI NELLA “FORESTA” COSMICA (QUESTIONE COSMOLOGICA), DI SERVIRSI DELLA “MAPPA CONCETTUALE”, PRESENTE NELL’ “ILIADE” DI OMERO, DALLA DESCRIZIONE DELLO “SCUDO DI ACHILLE” (VV. 664-843), UNA “LAVAGNA” DIDATTICA SU CUI IN UNA SINCRONICA SINTESI VISIVA SIANO RAPPRESENTATI LE VARIE ARTICOLAZIONI DEL PROBLEMA “ECOLOGICO” , E, AL CONTEMPO, RIAPRIREI LA DISCUSSIONE SULLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA, A PARTIRE PROPRIO DAL MARXIANO CONCETTO DEL “LAVORO IN GENERALE”, E, IN PARTICOLAR MODO, DAL CONNESSO CONCETTO DI “RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE IN GENERALE” (https://www.leparoleelecose.it/?p=47776#comment-483631).

    Federico La Sala

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *