di Alessandro Cinquegrani
La parabola dello spettatore
In un libro che ho recentemente pubblicato, I personaggi non torneranno? Realtà e finzione nella letteratura contemporanea (Carocci, 2024), ho cercato di spiegare la proliferazione delle non-fiction o delle autofiction (generi diversissimi ma in vario modo accomunati), con la necessità del lettore di identificarsi con l’autore, dopo aver perso, in epoca postmoderna, la possibilità di identificarsi con i personaggi, sempre più lontani dall’assomigliare a uomini reali. Questa tendenza della letteratura, mentre è ancora in voga nei premi letterari e nei dibattiti della mondanità letteraria, sembra già esaurire la sua spinta, che dura almeno dall’inizio degli anni Duemila e richiedere modalità nuove di interpretazione della triangolazione tra autore, lettore e personaggio. Per dirla con un adagio alquanto noto: se funziona è vecchio, e le forme ibride di narrazione che oggi funzionano tantissimo e riempiono gli scaffali delle nostre librerie, sembrano già stanche. È possibile, allora, pensare a nuove forme di narrazione?
Il cinema sembra rispondere di sì. Dopo anni di difficoltà, sembra che il grande schermo sia in grado di riprendersi il proprio spazio di convergenza tra popolare e sperimentale, tra innovazione e tradizione. Due dei film di cui più si è parlato recentemente, La zona d’interesse di Jonathan Glazer e Anatomia di una caduta di Justin Triet, mettono in crisi proprio questa triangolazione. Si tratta di opere tra loro diversissime che potrebbe essere troppo audace mettere a confronto: la prima narra la storia della famiglia Höß e della sua dignitosa e apparentemente felice permanenza nella villa alle porte di Auschwitz; l’altra è invece focalizzata su un caso di cronaca nera e sulle indagini per la morte di un uomo precipitato dalla finestra della sua casa. Un film storico e un giallo psicologico, un film fatto di piccoli movimenti di macchina in uno spazio ristretto, l’altro che osa e aggredisce lo spettatore con la sua musica a tutto volume. L’unico punto in comune sembra essere l’attrice, la bravissima Sandra Hüller che interpreta due personaggi diversissimi con la stessa efficacia.
Ma c’è un punto che lega queste due opere, narratologicamente rilevante: il focus della narrazione non è sul personaggio, come in effetti non accade da molto tempo, ma non è neppure sull’autore, il focus è sullo spettatore: è lui che vive una parabola narrativa, facendo i conti con il proprio mutevole stato emotivo. La zona d’interesse è stato accusato di essere un film in cui non accade nulla: oltre la situazione iniziale, ricavata dal romanzo di Amis, sulla cui efficacia nessuno ha dubbi, l’opera è criticata spesso di essere priva di una vera e propria parabola narrativa. Anche i (molti) sostenitori del film, ne apprezzano la forza di denuncia più che la struttura narrativa. Tutto, infatti, nella sua costruzione, si gioca fuori dal film, sui sedili della sala cinematografica, nella progressiva indignazione dello spettatore, che rappresenta il vero protagonista del film. L’efficacia o inefficacia dell’opera si gioca tutta lì. Non si tratta delle consuete emozioni che lo spettatore prova di fronte a un’opera tradizionale: in questo caso non ci si identifica nel personaggio, vivendo i suoi drammi o i suoi successi, percorrendo con lui la sua parabola nel bene e nel male, di vittorie e sconfitte, ma nemmeno ci si chiama fuori dalla narrazione e ci si siede accanto all’autore a godere delle evoluzioni narrative: qui non succede niente, né ai personaggi né all’autore, qui succede qualcosa solo allo spettatore la cui rabbia e il cui disagio montano progressivamente e quasi senza ragione (è tutto diverso dai buoni e cattivi di Schindler’s List, per esempio, ma anche dal romanzesco di Le benevole di Jonathan Littell). Nel film non succede niente, nello spettatore tutto: ma questo prevede uno spettatore indignato, emotivamente aperto a vivere quel tipo di esperienza.
Anatomia di una caduta si basa sullo stesso presupposto: è la parabola dello spettatore quello che interessa. Accusata della morte dell’uomo è la moglie Sandra, scrittrice di successo, ricca, famosa, snob, straniera in Francia, incapace di usare il francese quando l’emotività si fa più forte, e soprattutto donna, suscita la nostra reazione emotiva basata per lo più su banali pregiudizi. Non ci identifichiamo con lei, né la guardiamo dall’esterno accanto all’autrice, ma facciamo i conti con il nostro infondato sospetto. La reazione emotiva che il film suscita dunque è basata sulla parabola dello spettatore che fa i conti coi propri pregiudizi. È lo spettatore che scopre la propria inadeguatezza e la propria incapacità di avere uno sguardo neutro. Anche in questo caso dunque il focus è su di noi. Tra le tante opere di stampo femminista, questa funziona perché sceglie di non trasferire un messaggio eticamente sostenibile – che non è il compito del cinema o della letteratura – ma di lasciare che lo spettatore prenda atto di ciò che inconsapevolmente alberga nel proprio animo.
Un test sulla narrativa veneta
Mentre nel 2023 uscivano questi film che rimettevano in gioco la situazione che stavo ricostruendo nel mio libro, in area veneta uscivano tre libri che sembravano invece coerenti con la temperie culturale del nostro tempo, e anzi, pur diversissimi per tono e stile, erano così simili da un punto di vista tematico da richiedere un ulteriore spazio di riflessione. Questi libri sono L’avventura terrestre di Mauro Covacich (La Nave di Teseo), La verità e la biro di Tiziano Scarpa (Einaudi) e I ragazzi di sessant’anni di Romolo Bugaro (Einaudi): e il tema comune è l’incontro con la malattia, vera o presunta, che mette in crisi le certezze di corpo e salute degli uomini di sessant’anni. La prossimità di questo tema rende quasi ovvia la percezione di una questione generazionale (gli autori sono rispettivamente del 1965, 1963 e 1961), che si presenta in alcuni degli autori più rappresentativi del Nord Est italiano, ai quali si potrebbe aggiungere Susanna Bissoli (1965) con I folgorati (Einaudi) che però affronta un più lungo percorso con la malattia e dunque ha aspetti non propriamente sovrapponibili agli altri. Oltre allo spunto comune, i tre libri su citati declinano la questione nell’ambito delle cosiddette scritture dell’io, con un forte impianto autobiografico (non si sa quanto autofinzionale), anche se il primo è vertiginosamente introspettivo, il secondo provocatoriamente filosofico, l’altro ironicamente disincantato. Tuttavia le opere hanno troppi punti in comune per non supporre che esista una (inconscia) continuità, una rappresentatività di movimenti e tendenze della letteratura che in area veneta risultano di evidente chiarezza.
In un volume che si lega all’innovativo Kamikaze d’Occidente del 2003, quando questa letteratura era ancora avanguardistica, Tiziano Scarpa teorizza la necessità dello scrittore di essere narcisisticamente esibizionista, e mettere al centro sé stessi pare l’unica via che la letteratura possa seguire. Come i gladiatori romani, lo scrittore è messo nell’arena e non può fingere come se fosse a teatro, ma deve lottare e dibattersi per salvarsi. La centralità dell’io è dunque imprescindibile e il libro ad ogni pagina sembra voler ingaggiare una lotta col lettore, lo provoca, lo conquista, si fa referente delle sue aspettative e delle sue paure.
Implicitamente anche Mauro Covacich si fa l’eroe («la vittima è l’eroe del nostro tempo», diceva Daniele Giglioli) nel quale il lettore si identifica, anche nei suoi deliri, nelle sue scorrettezze, nelle sue paure. Ma è l’impostazione che Romolo Bugaro dà al suo libro che rende esplicita la questione generazionale: il suo protagonista infatti non si chiama come l’autore e non si dà dell’io, ma si chiama I ragazzi di sessant’anni, formula che viene utilizzata come un nome proprio, benché il percorso del personaggio sia chiaramente sovrapponibile a quello dell’autore. Ma il cambio di prospettiva è evidente: non più fare dell’esperienza singola dell’autore un referente unico e irripetibile, a tratti eroico, a tratti infimo, nel quale identificarsi, ma utilizzare la propria esperienza per asserire una comunanza generazionale. Così I ragazzi di sessant’anni è Romolo ma è anche ogni altra persona di quella generazione, accomunati da modi e comportamenti simili, per nulla eccezionali o unici, quasi a dissipare o contraddire la centralità dell’io supposta da Scarpa.
Ma I ragazzi di sessant’anni sono, dunque, in questo contesto, anche Scarpa, Covacich e Bugaro stesso: una generazione di scrittori. Però il libro del padovano, focalizzandosi proprio sulla generazione, opera dei confronti anche con la generazione precedente (un capitolo si intitola Ottantenni contro sessantenni) e successiva. È questo che mi interessa: se il discorso generazionale vale anche per la letteratura, e se davvero il Veneto rappresenta un test significativo per la narrativa nazionale, cosa succede negli scrittori che vengono dopo di loro (non tanto per età, quanto per l’esordio più tardivo)? Se questi libri sono formalmente (qui non si fa un discorso di qualità) coerenti col nostro tempo, è possibile supporre che negli autori successivi ci siano esperienze e proposte che mettono in crisi questo sistema?
Epifanie d’autore: Paolo Zardi e Gianluigi Bodi
Paolo Zardi, classe 1970, ha esordito nel 2010 col libro Antropometria, quindi circa quindici anni dopo gli autori precedenti. Nel 2023 pubblica per Neo Edizioni La meccanica dei corpi, che raccoglie alcuni racconti lunghi. Uno degli scrittori di riferimento di Zardi è Vladimir Nabokov di cui conosce ogni opera nel dettaglio. Una delle sue frasi che ama citare si riferisce proprio al rapporto tra autore e personaggio: si legge in un’intervista raccolta in Intransigenze che «i miei personaggi sono galeotti condannati ai remi». Per lui quindi non vale tutto ciò che il Modernismo aveva conquistato: i personaggi di Pirandello privi di autore; la signora Brown di Virginia Woolf casualmente incontrata in un treno e inseguita per farne un personaggio; i «popoli della narrativa» di Forster. Se i personaggi sono galeotti, l’unica guida resta l’autore: alla narrazione resta di farsi referente di un discorso dell’autore senza la possibilità di una imprevista svolta incontrollabile.
Anche in questo caso non si tratta di un giudizio di merito: grandi autori si schierano parimenti da una parte o dall’altra. Ma è così che Zardi piega i personaggi alla sua volontà, dimostra attraverso loro dei paradossi sociali, comunica in virtù della loro transitività col lettore. Dunque il nesso diretto tra autore e lettore resiste, ma è declinato nell’assenza dell’io autoriale. Neppure la sua voce, a rigore, è sempre presente, perché il narratore cambia da racconto a racconto, il punto è piuttosto la presenza del movente creativo dei racconti stessi, il sottoporre i personaggi al compimento di una tesi o comunque di una storia ben condotta.
L’ultimo racconto della Meccanica dei corpi si intitola Il signor Bovary e, come è evidente dal titolo parodico, narra la storia di un uomo borghese che tradisce la moglie per noia finendo in un abisso non più controllabile. Quasi con un certo spietato sadismo il narratore lo conduce in questa spirale distruttiva lasciandolo privo di scampo fino alla morte. Ed è proprio nelle ultime righe, del racconto e del libro, che, come in un cinematografico dolly che sale verso l’alto, compare una figura ambigua che spiazza il lettore, perché compare un io:
Non so neanche cosa sono io. Appunto: chi sono, e cosa sono stato? Ho visto tutto, eppure era come se non fossi mai stato veramente lì: nessuna partecipazione, nessuno dei palpiti che avevano scosso quel corpo. Lontano da tutte quelle passioni così umane, eppure così vicino, in ogni momento. Ero la sua anima? Un indefinito spirito vitale? La voce narrante di questa storia? O la traccia evanescente dei suoi ricordi, il barlume di coscienza che per inerzia procede ancora un poco, e che lentamente si affievolisce, fino a spegnersi? Dopo l’ultima parola, quando questa storia sarà finita, che ne sarà di me? (p. 170)
Quasi come nel finale della Città di vetro di Paul Auster, alla fine del racconto che chiude l’intero libro compare dunque un io, ma questo io è parte del personaggio che abbiamo seguito fin qui, benché fosse descritto in terza persona. Dopo aver citato proprio Nabokov, si racconta la morte del personaggio con queste parole: «è stato in quel momento che mi sono staccato da quel corpo, come se qualcuno avesse finalmente mollato la presa». Finalmente, si potrebbe parafrasare, il personaggio galeotto è libero, ha rotto le catene, e l’autore ha mollato la presa su di lui. Chi era l’autore che stava piegando alla sua volontà quel personaggio? Non certo il pacifico uomo Paolo Zardi, piuttosto qualcosa di diverso, non già la voce narrante che ha il compito di raccontare ma non di inventare le scene, è piuttosto lo scrittore – il «soggetto della scrittura», lo chiamava Barthes – che entra nel suo ruolo di dominus della narrazione, abbandonando la sua personalità reale: Gesualdo Bufalino lo chiamava L’uomo invaso, posseduto da una forza diabolica che gestisce col pugno di ferro i rapporti con i personaggi.
L’identificazione del lettore con l’autore, dunque, ancora una volta è presente, ma in modo diverso rispetto alle esperienze di autofiction o non fiction, eppure sembra quasi che ancora una volta l’immagine dell’autore, sia pure trasfigurata in una natura non umana ma funzionale alla scrittura, emerga prepotentemente.
Perciò in questo quadro è particolarmente interessante l’esordio narrativo di Gianluigi Bodi, Il peso dell’assenza (Les Flaneurs, 2024). Il libro è ambientato in una Venezia surreale, nella quale delle misteriose esplosioni sembrano portare una distruzione inevitabile per opera di un kinghiano clown di nome Barrante. Siamo nello spazio della fiction pura, che viene dal romanzo horror o dal thriller psicologico, ovvero da una narrativa di genere lontana da ogni forma di realismo. Ma poi la narrazione subisce una svolta, una frattura che ribalta la percezione della realtà narrativa fin lì seguita e sulla cui natura non si può insistere troppo. Eppure tutto converge sulla figura di un uomo anziano, malato, che imprevedibilmente si scopre essere il movente dell’intera narrazione. Un congegno interessante, ma non è questo il punto: il punto è che il figlio di quest’uomo anziano si chiama Gabriel, e questo semplice dettaglio fornisce una chiave di lettura totalmente diversa.
Gabriel è il nome del figlio di Gianluigi Bodi, come risulta implicitamente dalla dedica posta in esergo A Gabriel, che tu possa vincere tutte le tue paure. Così, improvvisamente, si incontra una convergenza tra autore e personaggio, una convergenza che è solo in questo dettaglio: Bodi non è anziano come il personaggio, né affetto dalla sua malattia. Così il romanzo si trasforma in virtù di questo dettaglio e il libro diventa quasi un’autobiografia futura, una disturbante autobiografia dello spavento col quale l’autore deve fare i conti. Non ci sono altre tracce di questo, ma così il libro si stratifica, e anziché una autofiction sul presente o sul passato diviene una autofiction sul futuro, in virtù della quale l’autore fa i conti con le sue paure. A Gabriel, che tu possa vincere le tue paure diviene improvvisamente A Gianluigi, che tu possa vincere le tue paure: l’epifania d’autore si rivela in un modo inedito, affascinante e spaventoso.
Il narratore infinito: Ruol e Durante
Quando, da ragazzo, frequentavo il liceo, mi affascinava molto la nozione algebrica di limite di X che tende a infinito. Rappresentava il braccio di un’iperbole che si avvicinava sempre più a uno degli assi cartesiani, e poi ancora e ancora, all’infinito senza mai toccarlo. Dovevamo fare un grande sforzo di astrazione per comprendere questo concetto quasi filosofico, il paradosso per cui nemmeno all’infinito può esistere un’incidenza. Eppure questo concetto filosofico può essere utilizzato per fare dei calcoli, delle operazioni: non esiste ma si può calcolare. Questa idea mi è tornata in mente leggendo molti anni fa Gérard Genette, quando dice che per quanto il narratore possa assomigliare all’autore – limite di narratore che tende all’autore – non può mai sovrapporsi a lui. Ciononostante è possibile ragionare su un progressivo, infinito avvicinamento, non tanto alla figura fisica dell’autore quanto al suo ruolo di architetto e manovratore e burattinaio della narrazione.
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (Terrarossa, 2024) è il romanzo di esordio di Michele Ruol, e impone una riflessione in tal senso. La struttura del libro è basata sugli oggetti di una casa che richiamano eventi che precedono e seguono la tragica morte dei due figli della famiglia protagonista. Non segue perciò un ordine cronologico chiaro, ma è presente la mano di un prestigiatore che vuole rimescolare le carte, uscire da quello che Virginia Woolf chiamava il «tiranno potente e senza scrupoli [che costringe lo scrittore] a fornire un intreccio». Il narratore dunque balbetta, si muove circospetto, è reticente a pronunciare i veri nomi dei protagonisti (che chiama Madre, Padre, Maggiore e Minore): di fronte alla tragedia sembra che abbia paura, ma che si sforzi a darne conto al lettore.
Questo tipo di atteggiamento ricorda uno dei migliori libri di area veneta pubblicati recentemente, ovvero Ogni creatura è un’isola di Andrea De Spirt (Il Saggiatore, 2022), dove pure un uomo alla ricerca del fratello scomparso su un’isola esita a aprire gli occhi sulla tragica verità dei fatti. Ma il libro è scritto in forma di diario, e lo spessore del personaggio si fonda proprio su una lingua esitante e circospetta, che usa perifrasi e metafore per non dire. Quando un procedimento simile viene spostato in terza persona, ma la lingua attonita e spaesata resta la sua cifra principale, è ovvio che a costruire una propria identità non è più un personaggio, ma un narratore, che diventa un narratore infinito simile a un autore che progetta e costruisce un intreccio che lo spaventa e rispetto al quale esita continuamente.
Secondo Gianluigi Simonetti, una delle tecniche più semplici per giungere a quello che chiama «nobile intrattenimento», ovvero al tentativo di incontrare il gusto del pubblico, è insistere sul coinvolgimento emotivo dei personaggi. Ruol sembra operare un continuo lavoro di sottrazione proprio per evitare che l’emotività spicciola travolga il lettore. È lo stesso procedimento adottato da Valentina Durante in L’abbandono (La Nave di Teseo, 2024), che pure racconta una storia familiare tragica e emotivamente travolgente. Ma il lavoro sapiente della scrittrice è fatto di una tessitura lenta, ossessivamente rivolta al dettaglio, ricamato con cura tenace. Questa volta il narratore dice io, ed è la donna protagonista: sua è dunque la voce che esplode una breve scansione cronologica in flashback sulla sua infanzia, adolescenza, giovinezza. Proprio la presenza dell’io narrante dovrebbe escludere la presenza del narratore infinito. Tuttavia Durante è così intelligente e perfetta, così rigorosa e attenta, che la sua voce irrompe nel testo: quella cura nel descrivere il dettaglio è la cura di chi conosce troppo bene la scrittura, e così quel narratore infinito entra in conflitto con l’io narrante, e in questa lotta («la storia non è nelle parole, è nella lotta», diceva Paul Auster) si intravede la mano dell’autrice o forse il suo volto rigoroso e esitante.
Sembra che l’autrice lo sappia e così cede alla tentazione di aprire una finestra sulla propria realtà, un piccolo cameo, che forse significa la consapevolezza di stare dentro il testo, di non essere stata capace di (o non aver voluto) scomparire nella narrazione: «“Ah, sì: perché non chiedi a Durante? Se hanno ancora bisogno, in villa, per quei corsi…”», chiede il padre della protagonista.
Come salvaguardare le foreste
Sembra che io abbia un’ossessione per il lieto fine. Una forma di lieto fine resiste nei miei due romanzi, ma anche il saggio da cui sono partito, I personaggi non torneranno?, finisce auspicando la rinascita di personaggi liberi di scrollarsi di dosso l’invadenza dell’autore. Il percorso non è facile: progressivamente negli ultimi decenni ci si è focalizzati sulla figura dell’autore e si esita a uscirne. Così, spesso, i libri hanno significati e chiavi di lettura facilmente intellegibili, come se invece che il testo contasse il massaggio.
Ma il test sulla letteratura veneta dice che la narrazione del sé è ancora prevalente e dominante, ma ci sono altre vie per tornare alla fiction, anche se con prudenza, rassicurando il lettore sulla presenza reale dell’autore. I romanzi di cui si è detto cercano infatti di mettere in crisi a vario modo questo dominio autoriale, o quanto meno lo declinano in altro modo rispetto alle moltissime storie non fiction. Si tratta di tentativi di spostare gli equilibri, di non accettare facilmente il dominio dell’autore nelle narrazioni, eppure gli scrittori sono consapevoli che è ancora necessario rassicurare il lettore con la propria presenza, tangibile anche se obliqua, nel testo. Lo scopo sembra riattivare la narrazione, farla rinascere proprio quando la foresta brucia.
La foresta brucia: lo dice Ruol nel titolo del suo romanzo, benché non ci sia alcuna foresta nel romanzo, ma sia chiaramente una metafora. Tutelare le foreste, tutelare la letteratura di immaginazione: è uno dei temi che emerge dall’ultimo libro di Laura Pugno, Noi senza mondo (Marsilio, 2024), che nella foresta si inoltra per cercare una misteriosa scatola nera: «La foresta della prova, il bosco del romanzo – quegli alberi astratti -, non hanno mai smesso di essere reali». Agli scrittori non resta dunque che trovare il modo giusto per salvaguardare le foreste della narrazione, benché imperscrutabili, enigmatiche.
Molto divertente questo articolo. A parte “Kamikaze d’Occidente” (vent’anni fa), prima di “La verità e la biro” ho scritto solamente narrativa di finzione (i romanzi più recenti: “Il brevetto del geco”, 2015; “Il cipiglio del gufo”, 2018, “La penultima magia”, 2020), ma alla fiction critica di questo articolo evidentemente fa gioco fare finta che io sia uno degli esponenti emblematici dell’autofiction di quesi anni. Molto buffa anche la contrapposizione generazionale per macrogeneri (autofiction vs. fiction) fra autori sessantenni e i più giovani.
Caro Tiziano,
solo qualche considerazione:
1. ho scritto che La verità e la biro “si lega all’innovativo Kamikaze d’Occidente” perché, come tu stesso scrivi, gli altri tuoi libri, rientrando nella categoria che tu definisci “narrativa di finzione”, mi pare si leghino meno a questo. Nel tuo messaggio mi pare di vedere una conferma;
2. questo articolo parla di libri (o film) non di autori (ciò che si dice sugli autori è funzionale a inquadrare il libro) e parla di “La verità e la biro” come libro di autofiction, notando soltanto che nella tua produzione c’era un precedente, tutto qui (ed implicitamente se c’è un precedente significa che non è la tua forma tipica, no?). Non ho mai affermato che tu sia “uno degli esponenti emblematici dell’autofiction”, e non l’ho mai pensato. Penso che questo libro invece rientri in questa categoria, non mi pare di dire niente di strano;
3. per quanto riguarda la contrapposizione generazionale, io penso che viviamo in un periodo di passaggio, quindi ho provato a fare un’ipotesi, a guardarmi intorno. L’ho chiamato proprio per questo “un test” (forse tu l’avresti chiamato un collaudo in “Cos’è questo fracasso?”, lo so che intendevi altro ma il mettere alla prova i libri è una pratica che mi piace): leggendo i vostri libri, mi sono detto, “guarda che coincidenza”, e poi mi sono chiesto “ma gli altri libri saranno anche quelli così? ci sarà un filo rosso nell’area geografica? O magari generazionale?”. Questo è semplicemente un resoconto di quello che ho trovato. E’ un’ipotesi, una prova. Anch’io l’ho trovato molto divertente come esperimento, poi quando molti degli altri autori citati mi hanno detto che è stato anche molto utile per loro, ne sono stato doppiamente felice.
Un caro saluto
Bene, sono contento che tu sia felice. Il tuo articolo continua ad apparirmi una divertente fiction critica, e anche autofiction, dato che muovi dai tuoi saggi e dai tuoi romanzi.
Non sono d’accordo su tante cose che hai scritto nell’articolo e nella risposta, ma te le risparmio, accontentiamoci del mio divertimento e della tua doppia felicità.