a cura di Emanuele Antonelli
[Emanuele Antonelli ha intervistato Nidesh Lawtoo in occasione della traduzione del suo doppio studio su violenza, contagio e catarsi (Mimesis) e di Homo Mimeticus. Una nuova teoria dell’imitazione (Carocci)].
Emanuele Antonelli: Professore, ci tolga subito una curiosità: che origine ha il suo nome?
Nidesh Lawtoo: Domanda personale che verte sul problema delle origini che non sono mai stabili né univoche. Nel mio caso sono multiple: sono nato e cresciuto nella Svizzera italiana da madre svizzera e padre originario dell’isola di Mauritius, un’isola multiculturale nell’oceano Indiano in cui mi piacerebbe andare più spesso.
EA: Nel 2024 ha fatto uscire la traduzione italiana di ben tre volumi dedicati alla mimesi, vale ancora la pena parlarne?
NL: Mimesi è un concetto apparentemente poco originale, se ne parla da millenni, ma le apparenze spesso ingannano e vanno sempre ripensate. Si traduce per lo più con imitazione, ma già in Platone indica molte altre cose che ci toccano ancora da vicino. Basta pensare al famoso mito delle caverna: le ombre proiettate sulla parete in fondo alla grotta sono mimetiche nel senso che sono delle copie o imitazioni, eppure questo gioco di ombre sullo schermo (non molto diverso da quanto capito oggi con il cinema, i videogames o lo smartphone) ha il potere di legare, o meglio incatenare, gli spettatori.
Questo potere magnetico-ipnotico-contagioso è amplificato nell’era digitale e ci sta trasformando, individualmente ma anche come specie. L’ipotesi che accomuna questi libri è che non siamo solo esseri razionali, autonomi e presumibilmente saggi (o Homo sapiens), siamo anche esseri affettivi, incarnati, sociali e vulnerabili a ogni tipo di imitazione. Siamo, in una parola, homo mimeticus. Se si considerano le tendenze mimetiche di noi umani si possono cominciare a capire molti fenomeni che ci concernono da vicino: dal potere dei modelli educativi ai fenomeni di massa, dalla nascita del linguaggio all’empatia, dai populismi alla violenza che si propaga dal sé all’altro, per citare solo alcune delle indagini che propongo nei lavori in uscita. Quindi, sì, se teniamo alla nostra identità individuale e collettiva vale ancora la pena parlarne.
EA: Nei tre volumi in uscita si apprezza una spiccata creatività concettuale, se dovesse sceglierne uno solo, quale concetto vorrebbe divulgare su questo medium?
NL: Comincerei dal concetto di homo mimeticus che è prima di tutto il titolo di un progetto interdisciplinare sovvenzionato dall’EU a cavallo tra filosofia, critica letteraria e scienze sociali (www.homomimeticus.eu). Ho diretto questo progetto all’Università di Lovanio, in Belgio, dal 2016 al 2022, e sto ora finalizzando molte delle sue pubblicazioni presso l’Università di Leida, in Olanda. Come dicevo, l’ipotesi che siamo animali mimetici è molto antica e risale già a Platone e Aristotele, attraversa tutta la storia dell’occidente (si pensi all’imitatio Cristi nel medioevo o alla querelle des anciens et des modernes nel XVII secolo), ma a partire dal romanticismo, con la diffusione del mito dell’originalità, ci siamo un po’ dimenticati dell’importanza dell’imitazione. Negli anni ‘90 però, proprio in Italia, a Parma, c’è stata un’importante scoperta: i famosi neuroni specchio, neuroni motori responsabili del movimento che però si attivano anche alla vista di movimenti e espressioni facciali degli altri. Si pensa che giochino un ruolo nell’imitazione ma anche nell’empatia, nel contagio emotivo e in altri fenomeni mimetici. Mi servo dunque del concetto di homo mimeticus per raccontare il ruolo che la mimesi (imitazione ma anche identificazione, influenza, contagio affettivo, neuroni specchio) gioca nella formazione della soggettività – nel bene e nel male. A bene vedere, in effetti, per dirla nel linguaggio di Nietzsche – che gioca un ruolo centrale nel libro che porta questo titolo (Homo Mimeticus, Carocci editore), la mimesi va al di là del bene e del male. Ci serve a capire chi siamo e dove andiamo.
EA: Ci può spiegare il titolo della coppia di volumi usciti per Mimesis?
NL: Questi due libri riaprono il lungo dossier sulla violenza mediatica da due prospettive opposte ma legate. Il primo volume, Violenza e Catarsi: L’inconscio edipico, rivaluta l’ipotesi che la violenza mediatica, originariamente rappresentata nel teatro e ora al cinema, nelle serie televisive e nei videogames, abbia un effetto terapeutico, salutare, o come diceva Aristotele, catartico. In questo senso, guardare spettacoli violenti non solo ci farebbe stare meglio ma ci sbarazzerebbe di emozioni violente – “it gets it out of our system” come dice il protagonista di un film poliziesco con Bruce Willis, con cui apro il libro.
Quel che mi sorprende è che tutti abbiamo sentito parlare del concetto di catarsi, che viene generalmente concepito in un senso quasi medico, una valvola di sfogo che ci fa sentire meglio tramite una purificazione, anzi, una vera e propria purga di forti e palpitanti emozioni. In realtà nemmeno gli specialisti sanno dire con esattezza cosa Aristotele intenda quando nella Poetica dice che la tragedia greca genera la katharsis della pietà e della paura. Invece di cercare di definire il termine una volta per tutte, ho dunque rintracciato le genealogia dei pensatori che hanno portato alla popolarizzazione la traduzione medica di catarsi nell’epoca moderna. Ho concepito il libro un po’ sul modello di un’indagine poliziesca; come indica il sottotitolo, il grande sospetto ricade su Sigmund Freud che iniziò la sua carriera sviluppando il cosiddetto “metodo catartico”, con il quale ha poi aperto la strada all’inconscio edipico. Ma Freud non è il solo: interrogo anche suo cognato, Jacob Bernays, uno specialista di Aristotele; Nietzsche e, più vicino a noi, René Girard, che ha a sua volta sviluppato una teoria sul rapporto tra mimesi e catarsi, ipotesi che provo a rivalutare criticamente. Mi limito a questo trailer; se svelassi il risultato dell’indagine, l’effetto poliziesco si perderebbe. Ammetto comunque che, almeno per capire gli effetti odierni della violenza mediatica, l’interpretazione medica della catarsi – e l’inconscio edipico a cui essa è legata – non mi ha convinto.
Il secondo libro, Violenza e contagio: L’inconscio mimetico, racconta la faccia opposta dello stesso problema. Come dice il titolo, l’ipotesi è che gli spettacoli di violenza non solo non curino homo mimeticus dai sui istinti violenti, ma invece li accentuino, generando un contagio affettivo che può facilmente portare la violenza fittizia a farsi violenza reale. Il punto di partenza qui non è tanto Aristotele ma il suo insegnante, Platone. Egli criticava la mimesi dei poeti non solo perché generava apparenze illusorie, ma soprattutto perché spettacoli di guerra come l’Iliade creavano un’identificazione con eroi violenti come Achille, stimolando la parte irrazionale dell’anima e generando un’emozione o pathos violento che contaminava, come una forza magnetica (ricordatevi quelle catene) i cittadini della polis. Questa diagnosi appare anche in pensatori moderni come Rousseau e Nietzsche e arriva, tramite la tradizione dell’inconscio mimetico, fino agli sviluppi più contemporanei della affect theory e delle neuroscienze. Il libro è filosofico ma rilego le teorie dell’inconscio mimetico a fenomeni contemporanei di contagio, come il problema della violenza della polizia contro gli afroamericani e le altre minoranze razziali negli USA, o l’assalto al Campidoglio nel gennaio 2021 – fenomeni ipermimetici emersi mentre stavo scrivendo il libro e che testimoniano dell’importanza di proporre una nuova teoria della mimesi per capire il mondo in cui viviamo.
EA: A proposito di creatività, da lettore affezionato prima e traduttore ora, mi sembra che lei stia provando a creare un brand accademico e culturale: i nuovi studi mimetici. Come sta andando negli altri paesi che nella sua esistenza cosmopolita e un po’ raminga frequenta?
NL: Si, l’ambizione del progetto è quella di aprire un nuovo campo di studi transdisciplinari sulla mimesi che chiamo mimetic studies. L’operazione sta andando molto bene, anche perché non sono il solo a riflettere sulla mimesi. Col mio team di ricerca ho organizzato vari congressi internazionali i cui risultati sono già apparsi o sono in corso di pubblicazione, in una serie su Homo Mimeticus, con due o tre volumi successivi. Oltre a quelle italiane, numerose traduzioni dei tre libri menzionati sono in corso, tra cui in tedesco, olandese, spagnolo, portoghese e cinese. Per allargare il dibattito, sono entrato in dialogo con autorità scientifiche in vari campi tramite delle video-interviste accessibili anche ad un pubblico non-accademico che includono discipline come la filosofia (Jean-Luc Nancy), la sociologia (Edgar Morin), l’antropologia (Christoph Wulf), il post umanesimo (Katherine Hayles), la teoria politica (Adriana Cavarero) e le neuroscienze (Vittorio Gallese) — le ultime due in italiano. Sono naturalmente fiero di avere questi alleati e alleate. Insomma sono molto soddisfatto dei rapidi sviluppi dei mimetic studies. Quando ho cominciato nel 2016 non mi sarei mai immaginato un’eco così grande in paesi, lingue, e discipline tanto diverse.
Tutte queste discipline o discorsi (logoi) ci aiutano a offrire delle analisi che includono ma non si limitano a ciò che René Girard ha chiamato desiderio mimetico. Aprono invece una pluralità di studi pato-logici – capaci cioè di fornire diagnosi informate sul pathos e sugli affetti mimetici in generale.
EA: Provo subito ad applicare la nozione di pato-logia: a proposito di vite raminghe, quanto le è stato utile per cogliere gli effetti dell’inconscio mimetico, avere la possibilità o la condanna di sperimentare i mondi e le culture altre, mantenendo la posizione liminale dell’expat?
NL: Questo è un punto importante. Ogni ricercatore in materie umanistiche è soggetto dello studio nel doppio senso del genitivo: da un certo punto di vista, ovviamente, studia un oggetto esterno a sé ma al tempo stesso, è anche, volens nolens, egli stesso oggetto dello studio. Invece di pretendere ad un’oggettività ideale e fittizia, gli studi mimetici utilizzano questo aspetto soggettivo immanente a fini pato-logici, appoggiandosi cioè sia sul rigore delle discipline scientifiche (logoi) che sugli affetti personali (pathos) che ci abitano.
Avere la possibilità di vivere in paesi diversi è in effetti il modo migliore per rendersi conto che siamo animali mimetici. La mimesi è un po’ come l’acqua per il pesce – non si nota quando vi si è immersi, ma se siamo fuori dal nostro ambiente abituale ce ne accorgiamo subito: linguaggio, gusti alimentari, moda, abitudini, pratiche sociali etc… tutto il mondo della cultura è trasmesso mimeticamente, in modo impercettibile, a partire dalla nascita – se non prima, se si pensa al fatto che le abitudine alimentari si trasmettono dalla madre all’embrione. Quando si arriva in un nuovo paese come expat – e molti italiani hanno esperienza diretta di questa condizione – ci vuole tempo per imparare a vivere nel nuovo ambiente: la mimesi è lo strumento che ci permette di adattarci.
EA: In quanto al pathos, allora, a valle della sua esperienza non banale in tema, secondo lei è più facile o più difficile individuarsi, ovvero sottrarsi alla preponderanza delle influenze ambientali, vivendo la vita del giramondo?
NL: Bisogna stare tutti molto attenti. La mimesi è uno strumento di adattamento culturale ma se si diventa troppo mimetici si rischia di diventare come il protagonista del film di Wood Allen, Zelig che discuto come esempio patologico di homo mimeticus. Egli imitata gli altri come un camaleonte al punto di non avere più un’ identità propria e fondersi con le masse fasciste che negli anni ’30 iniziavano a consolidarsi. Questo è un fenomeno che purtroppo rischia di tornare in ragione di ciò che nel testo già tradotto in italiano nel 2020 chiamo (neo)fascismo, tanto negli USA quanto in Europa. Vivere una vita nomade permette quindi di rendersi conto dei poteri impercettibili della mimesis, ma non garantisce di riuscire a sottrarsi completamente al fascino magnetico che essa comporta. C’è solo un breve passo, appena un tratto in effetti, che divide la pato-logia dalla patologia e bisogna stare cauti. A causa dell’inconscio mimetico, senza neanche accorgersene, ci si può ritrovare a nuotare nello stesso stile di quelli che ti circondano.
Forse è dovuto al fatto che le mie origini erano multiple già in partenza, ma ammetto che trovo sempre un certo piacere a nuotare controcorrente. Spero che il lettore italiano di questi libri possa provare lo stesso piacere – a modo suo.
Nidesh Lawtoo è filosofo e professore ordinario di letteratura e cultura moderna all’Università di Leida, Olanda. I suoi interessi vertono sul concetto di mimesi e spaziano dalla filosofia continentale al modernismo europeo, passando per il cinema, la psicologia e la teoria politica. Prolifico autore, oltre a quelli già in catalogo per Mimesis – Il fantasma dell’Io. La massa e l’inconscio mimetico (2018) e (Neo)Fascismo. Contagio, comunità, mito (2020) – ha in uscita nel corso del 2024 tre volumi in traduzione italiana: Violenza e Catarsi. L’inconscio edipico (Mimesis), Violenza e contagio. L’inconscio mimetico (Mimesis) e Homo mimeticus. Una nuova teoria dell’imitazione (Carocci).
Emanuele Antonelli è docente di Storia e Filosofia presso il Convitto Nazionale Umberto I di Torino, si occupa di estetica e di teorie dell’imitazione. Ha pubblicato articoli dedicati al post-strutturalismo, all’ermeneutica e al pensiero debole su riviste accademiche nazionali e internazionali. È autore de La creatività degli eventi (2011), La mimesi e la traccia (2013) e Due o tre cose sul merito. Saggio di estetica sociale (2021); ha inoltre tradotto due dei tre volumi di Lawtoo.
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