di Daniele Balicco, Gioachino Orlando, Alex Simonetti

 

Sono passati quasi trent’anni dal genocidio di Srebrenica, la strage che nel luglio 1995 sconvolse la terra a sud della Drina, al confine serbo-bosniaco. La storia è nota: in tre giorni, le milizie cetniche di Ratko Mladic massacrarono oltre 9000 bošnjaci sotto gli occhi dei caschi blu olandesi, che avrebbero dovuto garantire una Safe Zone; e non garantirono un bel nulla. Prima del conflitto, Srebrenica era una località turistica. Tra la città e i comuni limitrofi la popolazione superava le venticinquemila persone, gran parte musulmane. Ma già nel dicembre del 1995, mentre si chiudevano gli accordi di Dayton che avrebbero messo fine alla guerra, chiunque era in grado di scappare, fuggì. I villaggi ancora in piedi venivano abbandonati, mentre si insediavano malconci profughi serbi, sfollati da sud e da ovest dalle milizie croate che parallelamente portavano avanti il proprio progetto di pulizia etnica.

 

Oggi l’area di Srebrenica fa parte della cosiddetta Repubblica Srpska. Gli abitanti sono poco di più settemila, dunque addirittura meno della metà di quanti furono massacrati nella fuga della morte. La componente maggioritaria è serbo-ortodossa; poco alla volta, i musulmani bošnjaci sono tornati ricostruendo i villaggi da cui fuggirono, ma tantissimi restano in esilio in altre città o nazioni. Srebrenica è circondata da colline boscose, per lo più foreste di conifere, verdissime, suggestive, ma spesso pericolose per la presenza di mine inesplose; qua e là sono trapuntate di piccoli insediamenti, villette monofamiliari, capannoni e palazzine con i mattoni a vista. Nessuna comunità ammette la compresenza di etnie diverse: ovunque trionfa una rigida separazione urbanistica, religiosa e sociale, che l’onnipresenza delle bandiere nazionali ratifica. Aquile bicipiti e scudi gigliati vegliano così su una pace nervosa; la maggior parte degli automobilisti che sfreccia a velocità folle per queste strade tortuose accuratamente evita di fermarsi nei caseggiati che espongono un simbolo di fede o di appartenenza etnica diverso dal proprio.

 

Per commemorare le vittime dell’eccidio, ogni anno viene organizzata la Marš Mira (“marcia della pace”) che porta migliaia di persone a percorre, in tre giorni, un sentiero di quasi cento kilometri, da Tuzla al memoriale di Potocari, vicino a Srebrenica. La marcia segue a ritroso il tragitto dove disperatamente fuggirono, nel 1995, quindicimila bosnjaci in cerca di scampo da una morte altrimenti annunciata: come purtroppo sappiamo, la fuga fu per lo più vana. Solo in seimila riuscirono a salvarsi. Dopo tre giorni di cammino, la marcia termina al memoriale di Potocari. Qui, ogni anno, vengono scavate nuove tombe per seppellire i resti delle vittime riconosciute grazie al test del DNA; spesso, si tratta solo di poche parti del corpo, ricomposte quasi miracolosamente perché i militari cetnici, dopo il massacro, le dispersero in grandi fosse comuni, che furono più volte aperte, spostate e ricollocate, in fosse via via più piccole, per nascondere le prove del massacro. Per questa ragione, molti corpi ancora attendono di essere riconosciuti. E fra questi c’è il nonno di Ado Hasanovic.

 

Ado è un regista bosniaco mussulmano di Srebrenica. Ha 38 anni e si è formato a Roma, al Centro Sperimentale di Cinematografia. È il fondatore di Silver Frame. Lo scorso maggio ha presentato a Vision du Reel a Nyon il suo primo lungometraggio intitolato My father’s diaries. È un lavoro sulla storia del padre Bekir che, nel 1992, scambiò una moneta d’oro per una videocamera ed iniziò a filmare la vita quotidiana a Srebrenica durante la guerra insieme ad una troupe improvvisata con altri due amici. Con il nome di Dzon, Ben & Boys filmeranno, quasi per gioco, un documento importantissimo della storia del conflitto di quegli anni. Ado rimonta le immagini girate dal padre; legge i suoi diari e attraverso il racconto della madre Fatima, ricostruisce la storia della marcia della morte e del modo attraverso cui Bekir riuscì a salvarsi. “Con Silver Frame ho voluto provare un azzardo, simile alla mossa del cavallo negli scacchi. Si scavalca l’ostacolo e si prova ad andare avanti. Srebrenica, giustamente, ogni luglio ricorda il vortice di follia sanguinaria che l’ha travolta. L’ho fatto anche io, del resto, con il mio primo lungometraggio. Ed era un dovere non solo verso la memoria di mio padre; ma per la storia della mia comunità. Il problema è che questa ferita ancora non si rimargina: come sai, mancano più di 1000 corpi da seppellire, fra cui quello di mio nonno. In più, una parte della comunità Srpska continua a negare quanto accaduto. Ma non possiamo fermarci a questo. Non possiamo essere permanentemente in ostaggio di un passato così soverchiante. Il Festival del Cinema si chiama Silver Frame per ricordare che questo territorio ha una storia lunga, millenaria. Se si scava, qui intorno, sottoterra, si trovano sì i resti dei corpi seppelliti nelle fosse comuni, ma anche piccole pepite d’argento. Come ben sapevano gli antichi romani. Il nome latino di Srebrenica è infatti Argentaria. E l’argento è un metallo prezioso perché sembra un frammento di luce, proprio come un fotogramma cinematografico. E con il cinema, qui, possiamo di nuovo riaprire la partita del futuro”.

 

La prima edizione di Silver Frame si è tenuta dal 15 al 17 luglio di quest’anno. Il festival è dedicato ai cortometraggi ed è organizzato in più sezioni: la prima è internazionale; il progetto prevede che ogni anno cinque selezionatori di Festival di prim’ordine – quest’anno sono stati coinvolti Cannes, con Wim Vanacker; il Sundance con Ana Souza; Venezia con Carla Vulpiani; il Sarajevo Film Festival con Asja Krsmanović e Alice nella Città con Niccolò Gentili – scelgano un cortometraggio a testa che verrà presentato in concorso. Una seconda sezione è dedicata invece a giovani filmakers provenienti da tutti gli Stati della Ex-Jugoslavia; mentre una terza, organizzata insieme al Festival Cinema e Ambiente di Avezzano, ha come tema la crisi ambientale. “Non ho voluto che il Festival si occupasse della memoria di quanto accaduto a Srebrenica. La scommessa è un’altra: dobbiamo ragionare sul futuro affrontando due problemi specifici: il primo è comune a tutti ed è la crisi ambientale; il secondo, invece, riguarda le nuove generazioni che stanno crescendo negli Stati di quella che fu la Ex-Jugoslavia. Dobbiamo ricostruire i ponti fra di noi, quei ponti che sono stati spezzati negli anni Novanta; dobbiamo ambire ad un nuovo orizzonte culturale comune. Per questo anche i membri della giuria ogni anno proverranno, oltre che dalla Bosnia, da uno dei nuovi Stati balcanici della regione” La giuria di quest’anno, composta da Cecile Devillers (Belgio), Camille Daeleman (Belgio), Kiraç Umaç (Turchia), Emina Djulbic (Bosna i Hercegovina), Omer Elmazbegović (Serbia) e Blanche Delori (Francia), ha premiato come miglior regista l’italiana Margherita Giusti, co-fondatrice del collettivo Muta Animation, e selezionata con il bel cortometraggio di animazione Meatseller; mentre ha ottenuto una menzione speciale il montenegrino Ivan Bakrač con Let the Dewy Flowers Bloom. Oltre alle proiezioni, Silver Frame ha organizzato insieme al Forum internazionale di solidarietà Emmaus, un workshop di film-making aperto ai giovani studenti coinvolti nel progetto di cooperazione.

 

“La Bosnia – ma è un discorso che vale un po’ per tutto l’Occidente – non si trova certo in un momento storico tranquillo: poche settimane fa, una milizia serba ha fatto un corteo dimostrativo proprio a Srebrenica. E ancora quest’anno, l’11 luglio, nella strada che porta da Srebrenica al memoriale di Potocari, le famiglie dei militari cetnici hanno esposto fuori dalle case, davanti al corteo della Marš Mira, le foto dei propri parenti uccisi. Senza capire che c’è una bella differenza fra essere dei militari morti in guerra o dei civili in fuga massacrati da quegli stessi militari che hanno poi nascosto i corpi delle vittime in fosse comuni. Può sembrare un gesto minuscolo. Ma organizzare un piccolo Festival come Silver Frame ha lo scopo preciso di rompere quest’accecamento. Perché in questa storia, purtroppo, di sofferenza e dolore ce ne è abbastanza per tutti; e la mossa del cavallo è l’unica su cui possiamo scommettere”.

 

(Fotografie di Daniele Balicco, Alex Simonetti e Federica Giacomazzi)

 

Daniele Balicco, Srebrenica 2024

 

Alex Simonetti, Marč Mira, Srebrenica 2024

 

Alex Simonetti, Marč Mira, Srebrenica 2024

 

Alex Simonetti, Potocari, Srebrenica 2024

 

Alex Simonetti, Potocari, Srebrenica 2024

 

Alex Simonetti, Potocari, Srebrenica 2024

 

Alex Simonetti, Potocari, Srebrenica 2024

 

Daniele Balicco, Potocari, Srebrenica 2024

 

Ado Hasanovic, My Father’s Diaries 2024

 

Francesca Giacomazzi, Ado Hasanovic, 2024

 

Locandina Sliver Frame, Srebrenica 2024

 

Federica Giacomazzi, Silver Frame, Srebrenica 2024

 

Federica Giacomazzi, Silver Frame, Srebrenica 2024

 

Federica Giacomazzi, Silver Frame, Srebrenica 2024

 

Federica Giacomazzi, Silver Frame, Srebrenica 2024

 

Federica Giacomazzi, Silver Frame, Srebrenica 2024

 

Federica Giacomazzi, Silver Frame, Srebrenica 2024

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