a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo
[Dodicesima puntata dell’indagine sulla sulla valenza sociale della poesia contemporanea a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo. Qui tutte le altre uscite].
Qual è la tecnica (intendendo con questa parola portemanteau un insieme di strategie testuali, para-testuali, extra-testuali, etc., che sia almeno parzialmente oggettivabile e condivisibile da un linguaggio critico riconosciuto o riconoscibile) che permette la conservazione e l’elaborazione della relazione tra “io” e “non-io”, dischiudendo così la possibilità di un “noi”? Tale tecnica ha a che fare con l’esplicitazione deittica del “noi”, o può farne a meno, prendendo altre strade?
Credo che la poesia non si possa ridurre a una somma di tecniche, nemmeno nell’ampia accezione del termine qui fornita. Si tratta piuttosto di una continua distruzione di barriere e impossibilità. La si può definire soltanto a partire dal negativo, da quel che non è. E, tra le cose che non è, c’è la tecnica. Se la poesía rappresenta un mio interesse profondo è perché si basa su un rapporto con il possibile e allo stesso tempo con l’impossibile. Questo rapporto, sia nella lettura che nella scrittura, è insoddisfacente, inconcludente (nel senso che non c’è spazio per una conclusione), caratterizzato da incomprensioni e contraddizioni. Una poesia è sempre un dialogo tra un io e un non-io. Ma forse sarebbe produttivo abbandonare la logica dominante riguardo a tale questione: se smettiamo di pensare alla ricostruzione dell’io lirico, del soggetto poetico, o di qualsiasi altra variante che si colloca tra questi estremi, forse arriveremo a un’idea più completa. Se guardiamo agli effetti della poesia e alle possibilità aperte dalle, forse la smetteremo di interessarci con tanta insistenza e intensità a quell’io. E forse è la strada per raggiungere un noi. Non voglio però rispondere con la stessa risposta a tutte le domande, e quindi nelle prossime repliche cercherò di chiarire e approfondire quello che sto dicendo.
Qual è la tua posizione nei confronti di un “noi” come “pronome politico” in relazione alla tua e/o ad altre scritture?
La poesia è, di fatto, un noi molto ampio e accogliente. Si registrano, tuttavia, molte tendenze a segmentare questo noi e renderlo restrittivo. È necessario che questa politica/poetica del noi si sviluppi a partire dalle soggettività. I poeti, nella contemporaneità, non dovrebbero parlare a nome di nessuno. Penso infatti che sia un gesto politico ancora più forte avere un rapporto individuale con la lingua. Chiunque può imparare da queste relazioni individuali, a livello, di nuovo, individuale, ma anche collettivo. Voglio dire, fare poesia non significa trasmettere un apprendimento, non è un uso didattico o informativo del linguaggio. Quindi ciò che possiamo imparare filtra da una posizione di inutilità. E visto che non serve direttamente e non può essere inserita nella logica della produttività, la poesia può costituire un noi più critico. Molte persone che leggono poesie non cambiano direttamente nulla nel mondo, tuttavia, una dinamica come questa può farci percepire il nostro ambiente in modo diverso. Vale a dire, non sarà la poesia a cambiare il mondo, ma l’azione di leggere poesie, o scrivere poesie, potrà provocare tensioni nelle nostre relazioni sociali, sia umane che con l’ambiente. In altre parole, penso che il cammino che porta al noi passi dall’inutile.
Come si può concepire, se si può, una sorta di “immagine dialettica” nella poesia e nella scrittura di ricerca contemporanee?
La poesia è il luogo della contraddizione, dove uno e il suo contrario si stringono la mano. Non c’è bisogno di sintesi, è il luogo della complessità. In generale l’arte – non soltanto la poesia – è il luogo in cui possiamo concederci il lusso di stare al di là di tutto ciò che ci sottomette. Le possibilità sono infinite, perché rinunciare?
Dato il confronto, che appare ineludibile, con le singole comunità poetiche e i loro contorni che, per quanto labili, si sovrappongono spesso ai contorni delle comunità linguistiche, nazionali o culturali, esiste la possibilità di un confronto transnazionale – propiziato dalla traduzione, ma anche da altre forme di scambio, o anche conflitto, come le digital humanities, l’intelligenza artificiale o anche le nuove forme di scrittura a distanza – che susciti nuove opportunità per il “noi”? A quali esperienze specifiche ricondurresti questo confronto, e con quali prospettive?
Ciò che ritengo fondamentale è che la poesia dipende dall’uso del linguaggio, da quello che potremmo chiamare “parola” (habla, secondo la definizione di Eugenio Coseriu), e questo ci porta a ridurre ulteriormente lo spettro d’azione. Come lettore, la sensazione che ho quando mi occupo di poesia è che sto accedendo a un sistema, non solo linguistico, ma anche culturale e ontologico, diverso dal mio, nel quale devo imparare continuamente. La poesia quindi è il luogo dell’attenzione, dove ci si richiede di ascoltare l’altro come qualcuno di estraneo a noi stessi. E penso che sia importante considerare come inevitabile l’essere diversi e che non è necessario convincere chicchessia di alcunché. Direi di più: non possiamo comprenderlo appieno. È l’impossibilità della comprensione completa che sta alla base del rispetto, ed è su questo punto che vedo un più chiaro parallelismo con la situazione attuale.
La dimensione transnazionale – o transculturale, che è una definizione che preferisco – diventa sempre più complicato. È più facile che le culture si assimilino, o si ibridino, che non una vera relazione transculturale. Ancora una volta credo nelle possibilità della poesia, perché è un luogo di vero rispetto, dove si rinuncia alla comprensione totale e si esplora la differenza senza alcun tipo di pretesa. Se leggiamo la poesia come un prodotto di consumo, nulla di ciò che ho detto è di alcuna utilità. Dobbiamo abbandonare le modalità di lettura scolastica e correre rischi nei territori dell’incertezza.
Come si articolano le questioni sollevate (politiche, sociali, tecnologiche, antropologiche) nella tua pratica quotidiana di scrittura poetica e critica? Trovi che alcune di queste problematiche sono più vicine alla tua sensibilità, alla tua poetica?
Seguendo il filo di quanto finora detto, e aggiungendovi qualche altra idea, vale la pena, probabilmente, di soffermarsi sulla sfuggente definizione di cosa sia una poesia. Ciò che ci insegnano nella scuola secondaria, spesso anche all’Università, è che la poesia è una somma di elementi, uno stile, figure retoriche, ecc. Oltre, ovviamente, alla stridente equazione tra il poeta e l’io della poesia, o alla confluenza con determinati tempi o movimenti storici. Per quanto siano riusciti a farlo credere a così tante persone, perché non sperare di cambiarlo? Perché non provare a spiegare che una poesia non è un oggetto conchiuso? Sarebbe meraviglioso, il noi che ne potrebbe derivare. Se per qualche anno, sistematicamente, smettessimo di insegnare storia della letteratura e insegnassimo a leggere la poesia, cosa accadrebbe? Potrebbe modificare la sensibilità verso il noi, comprenderemmo il mondo un po’ meglio e potremmo mettere un freno alle persecuzioni e alla distruzione che è propria della mentalità neoliberista. Al noi tipo “Benetton”, basato su una somma di disuguaglianze che vengono occultate e subordinate al miglior offerente, opporrei quello della poesia, che presuppone il riconoscimento dell’altro in tutta la sua complessità. La poesia non impone niente a nessuno.
Qualsiasi poesia, infondo, è un invito al “noi”, ma in un senso atemporale che, allo stesso tempo, attiene direttamente al presente. Con ciò, si tratta di qualcosa di radicalmente contrario alla “attualità” o alle “questioni del momento”. Ciò che è interessante, dal mio punto di vista, è l’esperienza del presente. In questo senso non mi sento di dialogare con i miei contemporanei, a meno che questo dialogo non avvenga a partire dalla lettura dai testi e non tanto da una tesi che si vuole difendere. Vale a dire che tutti i poeti, da sempre, sono tutti contemporanei, o nessuno lo è.
Si è cercato di tracciare un panorama delle questioni più urgenti partendo dal “noi”: condividi questo modo di descrivere l’interconnessione dei vari problemi sollevati?
La poesia non è in grado di cambiare la realtà in modo diretto. Se vogliamo costruire una società più giusta dobbiamo coinvolgere tutte le sfere sociali. Attenzione, però: se qualcuno pensa di poter cambiare qualcosa senza tenere conto dell’arte, si sbaglia.
Penso che la cosa più urgente sia limitare il potere che stanno acquisendo le aziende private. Gli stati non li affrontano e, anzi, incoraggiano i processi di privatizzazione. Le conseguenze di tutto ciò non sono solo economiche: stiamo assistendo alla scomparsa dell’umanità così come l’abbiamo concepita fino ad oggi. Lasciamo ciò che è importante nelle mani dei più inetti. C’è sempre stato un fascino per i soldi, non è una novità, ma la novità è che li abbiamo trasformati in modelli e forse stiamo assistendo al picco degli imbecilli. Grazie a loro siamo consumatori a tempo pieno e stiamo davanti agli schermi dal momento in cui ci alziamo fino al momento in cui andiamo a letto. Le identità corrispondono sempre più ai profili degli acquirenti. In altre parole, stiamo diventando meno complessi e più prevedibili. Questo, in passato, accadeva solo in piccola parte, e dunque c’erano margini più ampi in cui configurarsi come individui. Forse abbiamo perso molto più di quanto ci danno alcune tecnologie. Un’altra questione urgente è che i grandi progressi scientifici, ad esempio nel campo della sanità, non passino nei sistemi pubblici, siano integrati nelle imprese, anche quando parte dei finanziamenti sono pubblici. Questo è un problema collettivo, così come lo è la salute mentale delle persone, o l’eccessiva presenza di fanatici cristiani nello spazio e nella vita pubblica, la crescente disuguaglianza, il disinteresse per la conoscenza, ecc.
I legami che ci permettevano di vivere in luoghi non centralizzati, o con risorse scarse, si sono spezzati. Le città vengono conquistate dagli uomini d’affari e le campagne vengono distrutte da quelli che, in teoria, vi fanno ritorno per salvarle. I principali responsabili dell’inquinamento continuano a fare il loro dovere e le reti sono piene di teorici della cospirazione che contribuiscono non poco a peggiorare le cose. Le bugie e l’inganno viaggiano molto velocemente e viene investita quasi più energia nello smentire falsità che nel pensare e immaginare qualcosa di prezioso.
La poesia non può intervenire in questo, ma se insistiamo sulla poesia, sono sicuro che la società sarebbe diversa. Non sto affermando una relazione logica diretta causa/effetto, ma nella conformazione individuale, di ogni individuo, esiste questa possibilità.
Pablo López Carballo (León, 1983) è docente di Letterature Ispanoamericane presso la Universidad Complutense de Madrid. È autore di vari libri di poesia, tra i quali i più recenti sono: Platón y asalariados (Pre-Textos, 2024) e beso político de cada amor que tengo (libros de la resistencia, 2024). È stato tradotto in italiano per Le Parole e Le Cose da Valerio Nardoni nel 2012 e in volume da Lorenzo Mari nel 2016: La precisione dell’indifferenza (ed. Carteggi Letterari).